Carta per la Democrazia Insorgente

1. Negli ultimi anni abbiamo assistito allo sgretolamento della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto, che ci eravamo abituati a considerare come uno spazio pubblico forse insufficente, ma comunque inalienabile. Tale consunzione lascia in piedi le forme sempre più vuote delle istituzioni democratiche; non le cancella d’un colpo e rapidamente come fecero i totalitarismi del 900, ma le priva -fino alla paralisi completa- di ogni potere concreto e decisionale; le riduce, per sottrazione continua, a inerti simulacri. Questo lento colpo di stato si è realizzato in Italia secondo un programma affine a quello redatto, anni fa, dalla loggia segreta P2; i cui esponenti sono oggi assurti alle più alte cariche dello Stato e a posizioni direttive nei giornali e nelle televisioni. Controllo completo dell’informazione; presidenzialismo sempre più accentuato; derisione delle leggi penali e intimidazione della magistratura; eliminazione delle lotte sindacali e dello spazio pubblico; a questi punti del vecchio programma autoritario si è aggiunto il razzismo e il letterale neofascismo della Lega.

2. Parlamento, istituzioni tradizionali della rappresentanza, partiti, sopravvivono come forme di puro spettacolo, tanto più ossessivamente presenti nei talk shaw e nei cerimoniali, quanto più sono sostanzialmente privi del potere più elementare di decisione. Il regime democratico viene integrato da centri decisionali ufficiosi, servizi e associazioni parallele, che si diffondono in una molteplicità frammentata. Questa attività in ombra affianca la celebrazione pubblica dello spettacolo. Essa si dispone accanto alle istituzioni, alle leggi e agli ordini professionali visibili. L’apparato giuridico e istituzionale resta apparentemente intatto: ma le decisioni spettano effettivamente ai poteri paralleli.
Non si tratta solo di interventi clamorosi e violenti, ma anche di misure che riguardano l’ordinaria quotidianità. I concorsi pubblici sono sostituiti da riunioni preliminari ufficiose; le decisioni amministrative sono prese entro consorterie private, sottratte a qualsiasi controllo delle amministrazioni elette; la libertà di stampa viene controllata prima di ogni censura da comitati editoriali che scelgono i giornalisti affidabili; molti reati finanziari sono di fatto depenalizzati, anche se le leggi che dovrebbero punirli restano ufficialmente in vigore. Questo processo determina la divergenza sistematica tra la regola pubblicamente ammessa e il centro decisionale occulto: cinismo, ipocrisia oggettiva, menzogna, divengono comportamenti sociali indispensabili per orientarsi in questa sorta di doppio comando sociale permanente. Chi resta legato ingenuamente all’apparenza pubblica dello spettacolo (e per es. si oppone a una decisione di fatto in nome di una norma del diritto) viene minacciato o emarginato.

3. Mafia e camorra divengono un modello attuale di funzionamento associativo segreto: non dunque una sopravvivenza arcaica, ma un organismo a pieno titolo esistente entro la società dello spettacolo. Mafia e camorra scorrono –per così dire- accanto al simulacro del potere pubblico, lasciandolo il più possibile intatto, colpendo le persone che volessero farlo funzionare oltre un livello semplicemente formale. Il loro modello è seguito dagli organismi decisionali paralleli, che ormai sostituiscono i poteri formali dello Stato. Tutto deve sembrare immutato, mentre in realtà ogni cosa sta cambiando; così la messa in scena della democrazia inverte e sostituisce la sua pratica reale. Per l’occhio di uno spettatore distratto, le sue apparenze appaiono più che mai funzionanti. La nuova Società Autoritaria si espande lentamente, come un vapore e un miasma, in un’atmosfera che non oppone più resistenza. E’ un contagio sottile e penetrante, che attacca la sostanza stessa della democrazia: finchè basta il colpo di un dito per farne cadere l’involucro.

4. Comunque si voglia chiamare la nuova Società Autoritaria (“spettacolare integrato”, come voleva Debord; “democrazia dispotica”, come ha proposto Marco Revelli), certo è che essa coniuga alla diffusione delle merci e dei mercati alcuni elementi caratteristici dei regimi totalitari del 900, creando un sistema di potere inedito, non interamente assimilabile né alla democrazia né al fascismo storico. Al potere spettacolare diffuso si affiancano ormai organi di decisione concentrata, capaci di gestire procedure di emergenza o l’uso aperto della violenza, come è avvenuto in modo clamoroso al G8 di Genova.
Nel sistema giuridico classico lo stato d’emergenza permetteva il ricorso alla dittatura e la sospensione del diritto abituale; nella Società Autoritaria procedure d’emergenza simulate e ingigantite con tutti i mezzi mediatici divengono una pratica alternativa e ricorrente della democrazia. Il fascismo storico fu caratterizzato dall’intromissione dello Stato nell’economia. La Società Autoritaria è una risposta alla liberazione possibile dal lavoro e all'uso comunitario delle tecniche e delle risorse. Il suo ambito proprio non è lo Stato, né la fabbrica, ma il controllo della vita che fuoriesce ed esorbita dalle vecchie strutture di dominio. In tal senso, come si è visto nella recente crisi economica, lo Stato non funziona come gestore pubblico dell’economia, tanto meno si pone come totalità organica; esso è ormai ridotto a pura funzione di sostegno del mercato (di ciò è un piccolo ma interessante segno il fatto che le tangentopoli attuali siano dirette da imprenditori e non da politici).

5. La democrazia ha oggi due nemici, apparentemente opposti e in realtà complementari: da un lato lo Stato “consensuale”, ridotto a un complesso di funzioni, ordinate in funzione del mercato e ad esso del tutto subordinate. A differenza di quello classico, criticato dal marxismo per il suo carattere ideologico, qui lo Stato si pone esplicitamente al servizio del mercato e trova anzi la sua gloria e la sua residua legittimazione nello svolgere questa funzione nel modo più efficiente possibile. D’altro lato, si diffonde invece una ideologia “umanitaria”, con cui si pretende di giustificare l’intervento violento in altre aree del mondo, in nome di una presunta difesa dei diritti umani delle vittime (come si è affermato per il Kosovo, per l’Afghanistan, per l’Iraq); questo democraticismo umanitario, in compenso, non riconosce alcun conflitto reale all’interno della propria identità statuale, coesa e consensuale. Il conflitto è rigettato interamente all’esterno e sull’”altro”. Questo universalismo umanitario è astratto, mentre quello concreto dovrebbe riconoscere il legame tra la disuguaglianza nelle metropoli occidentali e quella che domina in altri luoghi del mondo. Al contrario, si accredita l’idea di un’identità occidentale tutta coesa intorno al suo roccioso nucleo identitario e alle sue funzioni di governance del mercato: mentre al di fuori si estende il mondo feroce ed estraneo, che si tratterebbe di ricondurre sotto l’ordine della nostra polizia.

6. Questo ibrido di consensualismo e di universalismo astratto culmina in una società gerarchica e razzista, entro cui riaffiorano tratti tipici dei governi totalitari del 900. Rifiutando la nozione stessa di un conflitto reale, di una parte dei senza parte entro la nostra realtà sociale, cancellando la sua visibilità, il peso del negativo (peraltro sempre più difficilmente contestabile) ricade per intero sulle spalle dell’altro e dell’estraneo; è il nemico, il criminale, che introduce un alieno disordine in ciò che di per sé funzionerebbe come il migliore dei mondi possibili. Uno stupido buonismo ottimista si salda così a misure ferocemente gerarchiche, neanche esprimibili come tali: un conflitto non più dicibile e simbolizzabile si riversa come nuda violenza tra chi ha parte e chi non ne ha, più simile a una rivolta di schiavi che a un’insurrezione di cittadini. Di volta in volta, un gruppo etnico o gli immigrati in generale, vengono esclusi di fatto dalla cittadinanza, oggettivati come capri espiatori e mostrati come i responsabili della nostra insicurezza.

7. Il dominio astratto dell’economia e del diritto subisce una correzione, con l’affermarsi della Società Autoritaria, che ripropone rapporti di potere personali, forme di dipendenza servile, figure mitiche di soggettività. In primo piano, nella scena pubblica, restano le relazioni formali del diritto e del mercato; ma, contemporaneamente, si sovrappone ad esse la personalizzazione dei rapporti di potere. Una “decisione politica” viene a sovrapporsi al funzionamento “puro” del diritto e del mercato, per gestire procedure di emergenza continuamente riprodotte o inventate; esse esigono l’intervento di un potere diretto e personale (il carismatico Premier non si è forse precipitato a Napoli per vuotarla della monnezza? L’assai meno carismatico leader del PD non ha imposto forse un decreto d’urgenza per la questione sicurezza, che conteneva una riedizione in sordina delle leggi razziali?). Una mistura di astrazione giuridico-economica e personalità autoritaria caratterizza il regime spettacolare attuale: destinato al governo di una normalità che ormai non è più tale, ma un succedersi di mediocri eccezioni.
Il controllo sempre più soffocante sulla vita, si associa però a una festa spettacolare in cui non ne rimane traccia: il mondo rappresentato nei media è più che mai e sempre di più quello della libertà universale e senza limiti, promessa dall’ideologia della merce. Ciò che è rappresentato è l’inversione di ciò che è reale.

8. La Società Autoritaria procede intensificando, allo stesso tempo, l’atomizzazione e la separazione degli individui e la loro riunificazione immaginaria o fittizia, nelle immagini carismatiche dei leader o in quelle mediatiche della televisione. Una tendenza all’individualismo narcisistico e illimitato si salda così a una tendenza complementare al dispotismo. Quanto più si urla in tutte le piazze “Consumate e arricchitevi”, tanto più il successo e la gestione delle ricchezze sono affidati a una elite preselezionata e precotta, indegnamente legata da fili familistici e clientelari; l’uguaglianza immaginaria di fronte al denaro e al consumo nasconde la sempre più feroce disuguglianza reale. Raramente un regime politico ha intrattenuto una così sistematica dissociazione tra la psiche e la soggettività dei suoi membri e le gerarchie reali del potere. In tale scissione permanente tra il desiderare e il potere, è del tutto ovvio che la corruzione pubblica e privata si propaghi come unica forma di mobilità sociale, che il vendere se stessi appaia come uso tollerato; che a spettacolari ascese si accompagnino terrificanti cadute, esse stesse destinate a mantenere vivo il meccanismo (e le vendite) dei media spettacolari. Atomizzazione e dispotismo sembrano messaggi contraddittori; ma congiungendoli insieme la Società Autoritaria riesce meglio a spezzare la forza di resistenza del singolo e la sua capacità di unirsi a coloro che sono offesi ed oppressi quanto lui.

9. I partiti della Sinistra non hanno compreso la natura spettacolare della Società Autoritaria; sono entrati, come i poveri cristi a un banchetto di signori, nelle giunte, nel parlamento, nel governo. Si sono cioè identificati anima e corpo con gli istituti di rappresentanza formale dello Stato, nel momento in cui in verità questi non contano e non decidono più nulla. Hanno creduto allo spettacolo della politica, come se fosse la più rocciosa e indiscutibile delle realtà: hanno accettato cariche presidenze, ministeri, assessorati, come se in tali luoghi fosse ancora possibile esercitare il potere: più che una volontà, vediamo qui una nostalgia di potenza, che la cerca dove non ne rimane un’ombra. Afflitti dalla scomparsa del passato, i gruppi dirigenti della Sinistra sono rimasti legati alla forma del Partito, riflesso e premessa delle rappresentanze statali; mentre queste svanivano di fronte ai poteri paralleli e allo “spettacolo” della Società Autoritaria. Mentre i concorrenti del Pd almeno miravano dritto all’oro di una banca, la sinistra si accontentava della carta stagnola delle cariche parlamentari: così mostrando di credere più al fantasma spettacolare dell’unità nazionale, che al conflitto di classe sempre meno rappresentato, e sempre meno visibile, in atto nella realtà.

10. Il rifiuto della violenza come strumento della lotta politica deriva dal suo elemento ripetitivo e mimetico. La risposta alla violenza tende a perpetuarla, assimilando i modi stessi dell’aggressore. La militarizzazione della lotta politica tende a sospendere quei diritti e quel rispetto della vita, che si volevano, all’inizio, salvaguardare. Essi restano –al massimo- il fine remoto dell’azione; ma nel frattempo viene usata, come mezzo, la violenza stessa dell’aggressore, si deve sospendere, per un tempo indeterminato, il rispetto dei diritti umani. In tale tempo, la risposta diviene speculare e simmetrica all’atto aggressivo. Siamo talmente assorbiti dai mezzi, da dimenticare completamente i fini.
D’altra parte, la risposta non violenta all’oppressione non ha nulla del conformismo legalista: essa comporta la sospensione continua delle leggi e degli ordini, che permettono il dispiegarsi dell’azione violenta. La disobbedienza civile, la non collaborazione, il boicottaggio, lo sciopero selvaggio, generale o generalizzato, sono i principali strumenti di lotta non violenta, proposti da Gandhi: in effetti, la non violenza va intesa come il rispetto senza riserve dell’integrità fisica e psichica di qualunque essere umano. Se tuttavia uno sciopero produce danni al denaro o alle macchine dell’oppressore, ciò è assolutamente legittimo: forse che il denaro ha carne e sangue, che soffrono? O le macchine hanno un’anima tenera, che non si può offendere? Gandhi ha così riassunto il concetto di non violenza: “Un vero seguace della resistenza civile si limita a ignorare l’autorità dello Stato. Egli si pone al di fuori della legge rifiutandosi di obbedire a tutte le leggi immorali dello Stato…Quando un insieme di uomini cessa di riconoscere lo Stato sotto il quale fino ad allora ha vissuto, ha quasi creato un suo nuovo Stato”.
A differenza da Gandhi, tuttavia, pacifisti radicali (come Simone Weil e Dietrich Bonhoffer) ritennero legittima la violenza di resistenza contro un regime di genocidio sistematico o contro la pratica generalizzata dei campi di sterminio. Si può ritenere che di fronte alla pianificazione della stessa scomparsa dell’umano, e solo in tal caso, la violenza di resistenza divenga un male inevitabile.

11. Alla Società Autoritaria si contrappone la Democrazia Insorgente. Essa porta alla luce il conflitto latente nella realtà sociale, sottratto alla visibilità da rappresentazioni smortamente conciliative e ipocritamente “buoniste”; dà voce e articolazione alla lotta dei “senza parte”, e cioè di coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’elite dominante; impedisce che il conflitto sia risolto dalla polizia di stato o rimesso al puro arbitrio dei rapporti di forza. E’ lecito immaginare istituzioni democratiche diverse da quelle dello Stato, in cui sia possibile prendere decisioni che riguardano l’essere-in-comune, rispettando la differenza dell’altro, e la specificità dell’ambiente sociale in cui deve essere assunta la decisione. Al decentramento –ovunque possibile- delle decisioni politiche, meglio corrispondono istituzioni partecipative, invece che parlamentari; esse hanno fatto la loro comparsa nelle insorgenze rivoluzionarie del 900 e affiorano in movimenti di lotta vivi oggi in diversi luoghi del mondo. E’ un’utopia? E forse lo “Stato sociale” non è la più tramontata delle utopie? E lo “Stato democratico” non sta seguendo la stessa sorte? Almeno l’istituzione partecipata mira a trasformare in modo nuovo l’esistente e il futuro, a definire una nuova condizione di cittadinanza. Il realismo politico è tale solo in apparenza e non fa che aggrapparsi a forme di fatto già liquidate dalla storia, come lo Stato Nazione, subordinato alla logica economica mondiale e globale. Non si è visto forse il ministro nazional-popolare Padoa-Schioppa eseguire come uno zelante funzionario gli ordini suicidi della Banca Centrale Europea?

12. Esiste in Italia una rete possibile di presidi, movimenti locali e di base -come in val di Susa e a Vicenza-, Centri sociali, Cantieri autonomi, che potrebbero scegliere la forma della democrazia insorgente, abbandonando rappresentanze formali vuote. L’azione politica dev’essere, ovunque possibile, radicata nel “sito”, nella specificità del luogo e dell’ambito vitale, in cui sono coinvolti i suoi attori. L’azione politica è sempre “situata” e rigorosamente tempestiva in una situazione data. Il “sito” è l’essere-in-comune dove gli umani possono convenire insieme, rovesciando i rapporti asimmetrici di potere; l’azione politica si radica indissolubilmente alla specificità del “sito” in cui interviene. In Italia questi luoghi specifici di resistenza e di azione politica sono sparsi e diffusi a livello molecolare. Come collegarli in una forma comune, senza ricadere nell’ottica ingannevole dei Partiti e delle istituzioni dello Stato? Occorre, in primo luogo, definire il principio regolatore di un’attività politica possibile: l’unità di misura di questo agire sarebbe una comunicazione orientata a persuadere l’altro, piuttosto che a determinarne la sottomissione in un rapporto di servitù; ma d’altra parte, questa persuasione per comunicazione non ha nulla di idilliaco, non è garantita da nessuna “expertise” e si scontra duramente con i poteri gerarchici effettivamente esistenti. Se il dialogo è al principio della democrazia, esso apre il suo spazio all’interno del conflitto col potere, e la democrazia è costitutivamente e inevitabilmente “insorgente”.

13. L’”insorgenza” definisce quei momenti di cesura della storia, in cui –nell’intervallo tra la crisi di un vecchio regime e il costituirsi di nuove istituzioni- si è tentata la via di una comunità politica determinata dalla persuasione comune, e non dai rapporti di dominanza. C’è sempre l’eventualità che la deliberazione comune si irrigidisca in struttura astratta, che l’altro ricada nel medesimo, che i molti vengano ricondotti all’Uno. La democrazia insorgente non è una forma data una volta per tutte, ma l’opera continua di trasformazione del potere in libertà, della disuguaglianza in eguaglianza. E’ un processo, non uno Stato, e non ha mai termine definitivo. E’ in questo eccesso e in questo scarto, che Marx vedeva il significato irripetibile della Comune di Parigi. La “Costituzione comunale” si proponeva infatti esplicitamente di sfuggire all’autonomizzazione e all’irrigidirsi delle forme politiche, rispetto ai “molti” da cui esse erano state originariamente promosse. Le democrazie insorgenti non distruggono solo un regime autoritario, ma combattono la tendenza a solidificare la rivolta in nuove forme di astrazione, di dominio dell’Uno sui molti.

14. Quando oggi la democrazia spettacolare viene presentata come uguaglianza realizzata, questa è menzogna ed illusione; perché alla sua base sussiste un torto e una disuguaglianza sostanziale. Tuttavia, l’esistenza di questo torto non rende inutile il parlare di democrazia, ma ne costituisce l’essenza politica profonda: la democrazia non è uno Stato realizzato, ma il processo rivoluzionario grazie al quale i senza parte acquistano consapevolezza di sé e pretendono di rovesciare il rapporto di disuguaglianza in cui si trovano. Se l’uguaglianza è riconosciuta come principio, ma in effetti lo Stato esclude una parte dei senza parte dalla cittadinanza, allora chiederne un’applicazione più completa ed estesa significa riattivare il conflitto tra chi è privo di diritti e chi li possiede. Come ha mostrato Jacques Rancière nel caso del proletariato e del movimento delle donne, il riconoscimento formale del principio d’eguaglianza inaugura lo spazio in cui il torto può essere riconosciuto come tale, in cui si apre il disaccordo e il conflitto perché l’eguaglianza venga effettivamente realizzata. Battendosi per la cittadinanza e l’eguaglianza i “senza parte” si riconoscono come soggetto insorgente, in una consapevole lotta di classe e pongono le condizioni comunicative e simboliche della loro liberazione.
La democrazia è per sua essenza la rivendicazione di un torto e l’attivazione di un conflitto. La democrazia iscrive nel centro stesso dell’azione politica il disaccordo, il riconoscimento e il rifiuto del torto, la negazione della disuguaglianza. Nell’insorgenza democratica –che non può essere ridotta alla sola emancipazione economica- il popolo diviene ciò che prima non era, grazie all’articolazione linguistica e politica del suo diritto all’eguaglianza: soggetto riconosciuto come tale, uscito dalla sua condizione di minorità. Iscrivendo nel diritto scritto la rivendicazione di eguaglianza, i senza-parte escono dal loro mutismo dominato, divenendo consapevoli della propria potenza costituente. Il popolo, il demos, tende a essere sempre o più di se stesso –senza parte che divengono soggetto politico-, o meno di se stesso –plebe e massa amorfa, passiva materia di dominio.

15. Nel 1832, durante un processo, il rivoluzionario Auguste Blanqui –richiesto della sua professione- rese la risposta simbolica: “proletario” e costrinse la corte a riconoscere l’esistenza di un soggetto, che –in quanto tale- non ne possedeva alcuna. Proletario significava infatti semplicemente colui che non ha nulla e non significa nulla; nella risposta di Blanqui, diventa un soggetto di diritti, che richiede il riconoscimento della propria eguaglianza. In una insorgenza rivoluzionaria, affermarsi come soggetto di diritti è altrettanto importante che impadronirsi dei mezzi di produzione. Aver trascurato questa verità, affidandosi all’automatico intensificarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, costituisce una delle debolezze maggiori del marxismo; mentre Marx stesso nei suoi scritti sulla Comune poneva la questione dei diritti politici e dell’uguaglianza al centro della sua riflessione. La fiducia cieca nel progresso tecnico, nello sviluppo ad ogni costo, nella crescita continua dei mezzi di produzione e nel suo sbocco rivoluzionario, costituisce l’utopia delusa del marxismo; mentre invece la lotta di classe conserva la sua bruciante attualità come nucleo profondo dell’azione politica. Cosa dovrebbe rispondere oggi un “senza parte” posto nelle stesse condizioni di Aguste Blanqui? Forse dovrebbe rivendicare con orgoglio simbolico di essere “Clandestino”, fuori delle leggi attuali dello Stato e disposto a lottare per un essere sociale in cui venir riconosciuto a pieno titolo “Cittadino”. Il passaggio dalla clandestinità alla cittadinanza è oggi un passaggio politico rivoluzionario, e riguarda in primo luogo i migranti e gli esclusi, ma anche tutti coloro che una condizione crescente di precarietà priva di luogo, di radice, di legame a un ambiente riconosciuto e riconoscibile di vita; vite e lavori precari, cui è impedito ogni progetto, che non sia la chiacchiera spettacolare; uomini cui è stato sottratto, in senso letterale, il tempo futuro e –con esso- il respiro della speranza.

16. Alle politiche della Società Autoritaria –realizzate da feroci politici clown- occorre rispondere con una ripresa espansiva del diritto di cittadinanza. Il lavoro politico democratico mira a costruire l’identità di una parte dei senza parte e includere in essa sia gli immigrati privi di diritti, che gli Italiani colpiti e immiseriti dalla nuova struttura gerarchica del potere. La loro divisione è mantenuta e coltivata con tutti i mezzi della società spettacolare, oltre che con l’uso sempre più frequente dello stato d’emergenza e di “insicurezza”.
Dentro o fuori le istituzioni esistenti, l’importante è che l’azione politica produca “inclusioni d’eguaglianza”. Da questo punto di vista i diritti dell’uomo e del cittadino non possono certo divenire un feticcio, buono a nascondere la disuguaglianza economica; ma possono essere uno strumento di riconoscimento identitario e di soggettivazione egualitaria dei senza parte. L’emancipazione sociale non può essere disgiunta dall’emancipazione politica, dalla lotta contro la caricatura del diritto imposto dalla Società Autoritaria.

17. In una nuova definizione del diritto di cittadinanza non si può prescindere da una “coscienza di luogo”. La parola “cittadino” allude oggi non solo al riconoscimento astratto e giuridico dell’eguaglianza e delle pari opportunità di lavoro e di vita (benché anche queste siano sempre più disattese dalla politica della Società Autoritaria), ma anche alla condizione concreta di “abitante della città”, una condizione materiale non vincolata al ciclo del capitale e alla produzione di valore. Ogni uomo ha diritto in primo luogo alla conservazione e alla salvaguardia dell’aria, della terra, dell’acqua e del fuoco (energia) del luogo in cui vive. Questo diritto elementare, base di ogni altro, gli è oggi negato da una sfruttamento illimitato delle risorse, retto dalla logica dello sviluppo e del profitto, che entra in contraddizione con la possibilità stessa della vita. La cittadinanza presuppone la salvaguardia del luogo e la cura per la sua qualità di vita. Essa non può essere limitata dall’etnia, dalla religione, dalla cultura di origine. Chi lavora e abita in un luogo ha diritto di partecipare alle assemblee, ai presidi, all’elettorato attivo e passivo, alla gestione delle vie di comunicazione, della sanità e dell’informazione del luogo di cui condivide il futuro ed ha il dovere di preservarne la qualità di vita e le risorse naturali. Egli è responsabile, in quanto cittadino, dei diritti e dei doveri che la sua appartenenza al luogo comporta. Il compito più urgente della democrazia insorgente è la richiesta della cittadinanza piena per i migranti che svolgano un lavoro lecito e utile in tutto il territorio italiano (intendendo con ciò la concessione dei diritti civili, politici e sociali). La definizione di lavoro “utile e lecito” richiede d’altra parte l’eliminazione del lavoro “nero” e clandestino e il riconoscimento della pari dignità di ogni lavoratore, del suo reddito minimo garantito: e inoltre l’abolizione di ogni forma di sfruttamento e di licenziamento sottratta al controllo delle leggi.

18. La salvezza delle risorse naturali dal modello economico che oggi le consuma richiede a un tempo, senza contraddizione, la “coscienza del luogo” in cui si vive, e il riconoscimento del diritto universale alla sopravvivenza della vita. Tutelando l’acqua e l’aria del paese o della valle in cui abito, contribuisco anche, come cittadino, alla difesa dell’acqua e dell’aria come beni universali, come risorsa comune e condivisa. Sempre più si intensificherà lo scontro tra gli Stati-funzione del capitale, che mirano all’incremento illimitato dello sfruttamento economico, e gli interessi vitali dei cittadini, che non vogliono vivere in un territorio desertificato o cementificato o ridotto a cumulo di rifiuti. Tra breve si imporrà una scelta radicale tra una tecnica guidata dalla volontà di potenza sulla natura e orientata al suo sfruttamento illimitato, e una tecnica che si ponga al servizio della qualità dei beni piuttosto che della loro quantità. Ciò non comporta affatto il rifiuto della scienza e della tecnica, ma –al contrario- un salto di paradigma nella loro struttura e nella loro finalità, una svolta copernicana già altre volte avvenuta nella storia dell’umanità. L’apparato tecnico deve essere adeguato alle attuali necessità vitali degli esseri umani e non viceversa.

19. Presidi, cantieri, consigli, municipi partecipati, si radicano nella realtà e nella coscienza del luogo, e vi difendono beni universali condivisi. La coscienza del luogo richiede perciò momenti di riconoscimento e di articolazione in cui le diverse realtà prendano contatto l’una con l’altra, e sostengano una lotta e un’iniziativa comuni. E’ possibile pensare a una Assemblea Costituente, in cui ogni presidio o comune mandi i propri delegati a rappresentarlo; ma essi sarebbero soggetti a un mandato imperativo e la loro nomina sottoposta a revoca in ogni momento, su richiesta della maggioranza dei cittadini che li hanno delegati. Un patto federativo può essere la base di una democrazia insorgente, fondata sui luoghi dove le comunità e le persone si formano, vivono, agiscono: le città e i territori.

20. In uno dei momenti più cupi della storia del 900, Walter Benjamin scriveva che la rivoluzione non era paragonabile alla locomotiva del progresso lanciata a folle velocità verso l’avvenire, ma piuttosto a un freno d’emergenza, che occorreva azionare, per impedire la catastrofe prodotta dal capitalismo; solo opponendo il principio del limite e del rispetto della vita a quello dello sviluppo e del profitto illimitato sarebbe possibile sperare ancora nella salvezza della terra. Questo compito è urgente e non rinviabile: il senso del nostro agire politico, e forse della nostra intera esistenza, dipende dalla tempestività e dall’efficacia della nostra insorgenza.

Avvertenze. Il termine “democrazia insorgente” è stato proposto da Miguel Abensour. La riflessione sulla democrazia come disaccordo, come torto e “parte dei senza parte”, è stata sviluppata da Jacques Rancière. “Coscienza di luogo” è un concetto proposto da Pierluigi Sullo. La riflessione sulla società dello spettacolo ha come principale riferimento Guy Debord. La complementarità fra atomizzazione e dispotismo risale a un testo di Tocqueville studiato da Claude Lefort. In un punto del testo viene utilizzata una frase di Hegel sul crollo dell’Ancien Régime. Si sono tenute presenti le Tesi sul nuovo fascismo, pubblicate anni fa dalla rivista “Luogo Comune”.

Chi era Mauro Rostagno?

Per un paio di giorni si è parlato - ma così, silenziosamente - di mafia. Se n'è parlato per la ricorrenza della strage di Capaci che è, insieme alla ricorrenza (19 Luglio) della strage di via d'Amelio l'unico momento in cui in questo paese si fa i conti con la criminalità organizzata. Ma la lotta alla mafia non ha visto schierarsi tra i buoni solo i giudici Falcone e Borsellino o Peppino Impastato, Rocco Chinnici, il "giudice ragazzino" Rosario Livatino. No, ha visto schierarsi anche un giornalista un pò "strano", non certo uno che se ne stava con le mani in mano - e forse proprio questa sua stranezza me lo fa apparire così simpatico, a prescindere dal suo operato. Questo giornalista e sociologo si chiamava Mauro Rostagno, e ieri, dopo 21 anni dal suo omicidio, sono stati formalmente trovati gli assassini.


Sfogliando i libri di storia. A.D. 1992


«Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.»
[Giovanni Falcone]

Questo post l'avrei potuto anche finire così: video e frase e via, capitolo chiuso.
Oppure avrei potuto cercare qualche discorso di Giovanni Falcone e copincollarlo come testo del post.
Però, quando ti trovi di fronte a quelle persone che hanno fatto la storia, e che in qualche modo hanno indirizzato anche la tua di storia, limitarsi a quanto sopra sarebbe riduttivo. Io non mi ricordo dov'ero e cosa stavo facendo alle 18.10 del 23 Maggio 1992, anche perché avevo 6 anni e forse ancora non capivo bene e non mi interessava occuparmi di cose "serie". Però una cosa me la ricordo, anche se non so datarla. Mi ricordo la prima volta che ho aperto il libro di storia delle elementari su quelle pagine, e mi ricordo l'effetto strano che mi fece vedere quelle immagini - quelle "famose" delle stragi di Capaci e di via D'Amelio - e l'effetto che mi fece sapere che due persone, due persone come tante, due persone che facevano il loro lavoro, erano state uccise da questa cosa che si chiamava "mafia". Non potevo immaginare che quell'incontro - seppur mediato da un libro di storia - avrebbe inciso così tanto nella prosecuzione della mia vita. Perché se poi, dopo alcuni anni, ho deciso che quel che volevo fare da grande era il giornalista il merito (o la colpa, fate un pò voi...) è anche e soprattutto per quei signori che ho via via incontrato sui libri. Quei signori che facevano il loro lavoro con l'intenzione di migliorare il paese in cui abitavano. Non per qualche "illuminazione messianica", ma solo - come disse in quell'intervista che vi ripropongo il giudice Falcone - per puro spirito di servizio.
C'è una cosa che spesso mi chiedo - tra le tante domande che mi frullano perennemente in testa - e cioè cosa ne penserebbero Falcone, Borsellino, Peppino Impastato e tutti gli altri del nostro paese adesso, mentre io scrivo o mentre voi state leggendo. Non so come avrebbero reagito al cancro di 15 anni di Berlusconi come deus ex-machina di questo paese. Ovviamente queste sono - come tante altre - domande che rimarranno senza risposta. Ma so che dopo 17 anni da quelle stragi, l'insegnamento di quegli uomini e donne che si sono fatti ammazzare per migliorare il loro paese e che non hanno mai detto "ok, grazie. Io smetto" come certi autori di best-seller, stia ormai cadendo nel vuoto. Se è vero che facciamo definire "eroe" un mafioso senza scendere in piazza e chiedere la testa - in modo reale o figurato, fate un pò voi - di chi ha definito così Vittorio Mangano. Io credo che ciò non succeda - o che per lo meno succeda solo in parte grazie ai "soliti" che non si arrendono - perché in fondo quel modo di fare combattuto 17 anni fa è diventato il modo di fare dell'"onorata società" di cui io e voi facciamo parte. O forse sbaglio?

I nostri padri, nonni e bisnonni del 2009



«Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d'Egitto.» [Levitico 19:34]


Queste parole non provengono da qualche libro "comunista". Provengono dalla Bibbia, da quel testo che in questo paese dovrebbe essere conosciuto a memoria praticamente da tutti, perché praticamente tutti si dichiarano ferventemente cattolici e - nella maggior parte dei casi - anche praticanti. Non capisco il perché di tutto questo odio verso i clandestini. E non venitemi a dire perché ci rubano il lavoro perché questa è un'emerita stronzata. Perché se fosse vero allora dovreste incazzarvi e voler cacciare (uso la seconda persona plurale perché io adoro mischiarmi a ciò che da me differisce, che sia esso mera cultura astratta o persona fisica...) dal suolo che vi ha dato i natali anche i dirigenti delle multinazionali, spesso stranieri, i lavoratori yankee, brasiliani, argentini eccetera eccetera. Perché anche loro sono extracomunitari. Non capisco il perché di tutto questo odio, anche se posso - passatemi il termine - "giustificarlo". Lo giustifico - per così dire - adducendo ad un popolo che non ha memoria. Perché quelli che per la bibbia sono nostri fratelli - ed in questo caso, al contrario di quanto fatto precedentemente, mi aggiungo anche io - e che noi insultiamo chiamando clandestini altro non sono che i nostri padri, nonni e bisnonni di inizio '900..

Quel che Marchionne non dice agli italiani

di Guido Ambrosino per Il Manifesto

In attesa di conoscere l'ultima versione dei piani Fiat per la Opel, è comunque chiaro che la fusione con la divisione europea di GM (Opel, Vauxhall, Saab) costerà posti di lavoro a nord e a sud delle Alpi. Tra gli stabilimentida chiudere c'è Termini Imerese, tra queli da ridimensionare Pomigliano: così diceva il piano Phoenix, consegnato a maggio agli interlocutori tedeschi, che punta a tagliare in Europa 10.000 posti di lavoro su un totale di 108.000. Un piano precedente del 3 aprile denominato Football «strettamente riservato»,era ancora più drastico. Qui i dipendenti di cui liberarsi erano 18.000, e per l'Italia chiusura anche di Pomigliano (4800 addetti) oltre che di Termini (1360).
Entrambi i piani sono stati pubblicati dalla stampa tedeesca, con grande irritazione della Fiat, i suoi dirigenti non avevano fatto i conti con il sistema tedesco della cogestione, con i sindacati inseriti negli organi di vigilanza: le carte passate alla Opel arrivano al Betriebsrat, di qui ai giornali. Di ridimensionamento Marchinne ha parlato in due interviste il 5 maggio. Alla rete televisiva Zdf aveva spiegato: «I dipendenti dovranno diminuire. Nessuno potrà fare diversamente».
Tagli al personale sono inoltre la condizione per avere un sostegno pubblico. La commissione europea lo può autorizzare in presenza di un piano che prometta di «ripristinare le condizioni di redditività». Con l'aria che tira - ad aprile le vendite Opel sono diminuite del 17% - i conti possono migliorare solo riducendo i costi del personale. GM rischia l'insolvenza a fine maggio. Opel ha subito bisogno di almeno 1,5 miliardi di euro.
Sergio Marchionne i l5 maggio aveva assicurato che «nessuno dei 4 stabilimenti Opel in Germania sarà chiuso». Avrebbe fatto meglio a dire «nessuno dei quattro siti di Russelheim, Bochum, Eisenach, Kaiserslautern sarà abbandonato». Infatti gli stabilimenti sono più di quattro. E almeno uno sarà chiuso, la Powertrain di Kaiserslautern che fa motori, anche se in quella città resterà una produzione di componenti. Era scritto nel Project Football, testo in inglese di 103 pagine, di cui la Faz ha dato conto il 6 maggio.
In una lista di stabilimenti da chiudere tra il 2011 ed il 2016, Football elencava Ellesmere Port e Luton in Gran Bretagna e Anversa in Belgio, 6100 occupati. Stessa sorte in Italia per Termini e Pomigliano, per un totale di 6200 occupati. Altri 5.700 posti sarebbero stati tagliati con chiusure parziali e totali di officine per la produzione di motori e parti meccaniche. Questa la sorte in Germania, oltre che per la Powertrain di Kaiserslautern (1000 posti), per le officine meccaniche di Russelheim e Bochum (2000 e 600 posti). Nonché per la Ispol in Polonia (joint venture tra GM ed Isutzu)e per la fabbrica GM ad Aspen, vicino Vienna.
Il successivo Project Phoenix, sulla stampa l'8 maggio, riduce la lista delle chiusure e la riequilibra tra i paesi europei. In Inghilterra si salva Ellesmere Port ma si chiude in Svezia Trollhattan. Per Pomigliano e la belga Anversa, invece della liquidazione, un «radicale ridimensionamento», così come per la spagnola Saragozza. Imutati i tagli sul fronte tedesco, per circa 3600 posti di lavoro tra Kaiserslautern, Russelheim e Bochum.
Sul fronte italiano, una stranezza. Pur avendo «salvato» Pomigliano, la Fiat ci tiene a far sapere che gli stabilimenti da chiudere restano due: con Termini compare San Giorgio Canavese, impianto di Pininfarina che produce con 200 operai piccole serie per l'Alfa. Il Lingotto gli toglierà le commesse. Anche se non è un suo stabilimento, la Fiat lo menziona strumentalmente per mandare un messaggio di severità anche a casa propria. Willi Dietz, esperto dell'Institut fur automobilwirtschaft, lo raccoglie: «La chiusura di stabilimenti in Italia smentisce la tesi che Fiat voglia risanarsi a spese di Opel». Anche per un motvo di immagine, l'ordine di grandezza dei tagli in Italia non potrà discostarsi troppo dai 3600 previsti in Germania.


Fin qui l'articolo. Ora due personalissimi "conti dell'oste" come si suol dire: 1. Aveva ragione il ministro tedesco (di cui non ricordo, e purtroppo non ho neanche appuntato, né nome né incarico): come fa la Fiat - che non certo non naviga nell'oro - a comprare Chrysler e Opel? Con quali soldi? E' veramente indispensabile questa acquisizione (che a me sembra anche costituire una certa posizione dominante nel mercato automobilistico occidentale...)? Con quei soldi non si poteva pagare gli stipendi agli operai? Ed a proposito di operai - e concludo - Marchionne quanto "ricarico" ha nel suo stipendio rispetto a quello di un operaio (Montezemolo è arrivato a qualcosa come 550 volte lo stipendio medio lordo di un operaio)?

La sinistra basca senza più movimenti legali: oltre 180mila persone senza opzione politica


di Angelo Miotto per PeaceReporter

Il Tribunal Supremo spagnolo, con una velocità che ha dell'incredibile, ha sancito nella serata di giovedì la messa al bando e scioglimento di Ehak, il partito dei comunisti delle terre basche, che contava nove eletti alle ultime elezioni autonomiche. Ehak è stato il partito che ha raccolto i voti della sinistra basca, con Batasuna fuorilegge. Il colpo gudiziario è solo l'ultimo di una tre giorni che ha il sapore amaro degli avvenimenti storici: martedì il Tribunal Supremo aveva messo al bando Acion nacionalista vasca, una storica sigla elettorale del 1938, ripresa dalla sinistra indipendentista negli ultimi tempi.
Mercoledì nel processo contro Gestora pro amnistia, una associazione nata in difesa dei prigionieri politici, dei loro diritti e dei loro familiari, la sentenza mandava in carcere diciotto su ventuno imputati, con pene dagli otto ai dieci anni. Oggi la cancellazione di Ehak. La sinistra basca resta senza rappresentanza politica, ma non senza militanti. Sono circa 180mila e hanno dovuto sopportare dal 2003 a oggi, vale a dire dalla messa al bando di Batasuna, la negazione del diritto base di una democrazia rappresentativa, cioè quello della delega, il voto. In tutti e tre i casi il teorema giudiziario utilizzato dalla magistratura spagnola è sempre lo stesso e fa riferimento al suo ideatore, Baltasar Garzon: tutto ciò che sostiene le idee indipendentiste è assimilabile a Eta e quindi associazioni, giornali, radio, partiti, fondazioni culturali, che abbiano espresso idee o pratiche in tal senso o hanno collaborato o appartengono all'organizzazione armata.
Il governo spagnolo ha ricevuto l'ultima sentenza con soddisfazione: chi non è democratico resta fuori dai giochi, dice in sostanza il comunicato ufficiale. Il discioglimento dei partiti baschi è stato reso possibile dalla Ley de partidos, una legge che socialisti e popolari hanno scritto insieme, con il chiaro intento di eliminare la voce politica della sinistra basca. oggi sembra che il risultato sia arrivato, con cinque anni di intenso lavorio, sospeso solo nel processo di pace e per volontà politica. La legge che permette la messa al bando è stata definita dal decano dei giuristi di Vizcaya come "assolutamente priva di fondamenti giuridici".

A.A.A. sfruttato cercansi


Questa immagine rappresenta l'esercito di terracotta, ed i suoi 8.000 guerrieri stanno a simboleggiare l'armata che unificò la Cina.
A me però queste sterminate colonne di uomini – seppur di terracotta – fanno venire in mente un'altra cosa. Ben più attuale. I call center!

Ce li avete presenti no? Quegli immateriali luoghi della mitologia contemporanea ai quali si chiama quando si ha qualche problema e dove chi ti risponde ovviamente non sa risolverti il problema. Ma non è colpa sua, è che spesso sta lì perché si deve pagare gli studi universitari o perché è l'unico lavoro che è riuscito a trovare – a 50 anni – dopo che la ditta nella quale lavorava prima ha delocalizzato tutto in Romania o in Cambogia.
Che poi, “lavoro” è un parolone.
85 centesimi – lordi - ogni 2 minuti e 40 secondi di telefonata, che è poi il tempo effettivo in cui ti pagano, perché dopo i 2 minuti e 40 lavori gratis (ecco perché dopo un pò inizia a cadere la linea...); turni dalle 16,30 alle 21,30 ma flessibili al 100% perché gli operatori call-center sono inquadrati come “liberi professionisti”, e come tali non hanno diritto a ferie, malattia e tutte quelle cose che differenziano il “lavoro” dalla schiavitù. L’unico elemento di retribuzione è il contatto utile, cioè ogni telefonata – effettuata o ricevuta, non fa differenza - chiusa positivamente. La definizione dell’utilità del contatto è decisa dall’azienda sulla base della durata della chiamata o delle risposte ricevute dal cliente. E questo non succede nel “profondo sud” del mondo. No no, succede – tra le altre - a Cinecittà 2, Roma, “civiltà” italica.
Questa è la situazione che da ormai 15 anni capita agli operatori di Atesia, call center più grande d'Italia (e tra i primi 10 in Europa), ma che può tranquillamente essere generalizzato a tutti i call center.
Entrare in quella che è una vera e propria “giungla” - quella dei call center, appunto – vuol dire diventare esperti di co.co.co., co.co.pro, contratti di inserimento e compagnia bella. E' questo, infatti, il mondo che si apre al primo giorno di sfruttamen...pardon, di lavoro, in questi luoghi. Non ci credete? Beh, chiedetelo ai 5.000 operatori di Atesia, letteralmente sfruttati dal sig. Tripi Alberto, presidente della stessa per conto di molte grandi ditte di questo paese (fino a poco tempo fa c'era anche la Telecom, che deteneva il 100% della proprietà di Atesia).
Una volta un uomo si sentiva realizzato quando aveva il “posto fisso”. Perché su quella sicurezza – stipendio garantito ogni mese eccetera eccetera – poteva basare la propria vita (accendere un mutuo per comprarsi casa, metter su famiglia...). Immaginatevelo oggi quel lavoratore “da posto fisso”. Impazzirebbe. Fai prima a trovare un politicante serio ed onesto che non un posto fisso. Perché oggi se hai poca istruzione non puoi aspirare a grandi prospettive, ma anche se sei troppo istruito non puoi mica avere troppe pretese. Devi essere "istruito q.b.": quanto basta. Come nelle ricette di cucina. Perché se sei troppo poco istruito quelli che ti fanno il corso di formazione ci mettono troppo tempo a spiegarti come si fa il tuo lavoro, diventi improduttivo, “rallenti” l'azienda e quindi ti licenziano. Se sei troppo istruito invece chiedi e pretendi i tuoi diritti – perché li conosci – e quindi non ti assumono perché gli rompi le palle con l'aumento salariale, la retribuzione della malattia, gli scioperi e tutte queste belle cose qua. Quelle che dovrebbero garantirti quei signori – anche questi ormai rari e mitologici – che si fanno chiamare “rappresentanti sindacali”. Perché oggi nemmeno quelli esistono più (salvo rare eccezioni), troppo presi ad andare a cena nella villa del padrone o a chiedere qualche poltrona in questo o quel ministero. Torniamo all'Atesia. Lì com'è la situazione sindacale? I sindacalisti Atesia hanno cantato vittoria per un accordo che prevede part-time a tempo indeterminato di 4 ore giornaliere, orario flessibile 9-24 su turnazione a discrezione dell'azienda e contratti che non vanno oltre i 4 mesi di durata. Qualcuno si chiederà: ma non erano contratti a tempo indeterminato? Sì, ma nella mente geniale di chi ha firmato e proposto quell'accordo, “indeterminato” vuol dire qualcosa del tipo: “noi decidiamo indeterminatamente come sfruttarti, e guai se ti lamenti...”. Se ti lamenti ti cacciano senza pensarci su più di tanto. Anzi no, non c'è nemmeno bisogno di cacciarti. Basta non rinnovarti il contratto. Com'è successo, nel corso del tempo agli aderenti al Collettivo PrecariAtesia. E se tante volte decidi di rimanere ti fanno firmare un foglio – una liberatoria - in cui dichiari che in quell'azienda tutto va bene e che ti trattano da persona e non da “risorsa umana”. Insomma, tutto quel che non succede nel variegato mondo della precarietà. Che sia essa da call-center, da contrattazione a progetto o da quella parola che a mia mamma fa venire in mente una malattia: l' interinalità.
Quando ci sono i grandi scioperi, quelli degli operai, dei metalmeccanici ti trovi i grandi leader sindacali e politici davanti a un microfono a dire che loro combatteranno per fargli avere delle condizioni di lavoro migliori. Quando invece ti trovi di fronte ai collettivi di precari, di quelli che non sai se il loro è davvero un lavoro o una semplice presa per il culo, non c'è alcun personaggio politico-sindacale che si fa vivo. E se si fa vivo lo fa in campagna elettorale, e senza dare a quelle situazioni troppa importanza. Al massimo ti trovi davanti Ascanio Celestini, di professione attore, per il quale evidentemente anche i precari hanno diritto ai loro diritti. Insomma, fa quel che un politico serio ed onesto farebbe. Forse è per questo che continua a fare l'attore.

I sotterranei del Vaticano


Convegno segreto tra vertici ecclesiastici e multinazionali sugli organismi modificati che dividono la Chiesa
di Luca Fazio per Il Manifesto

Ingo Potrykus, il padre del golden rice, il riso Ogm arricchito di betacarotene e vitamina A della multinazionale Syngenta, lo stesso che è stato illegalmente somministrato ai bambini cinesi in via sperimentale, viene chiamato dalla Svizzera per risolvere un problema che deve restare segreto. L'uomo più importante di un potentissimo stato straniero, Joseph Ratzinger, ha appena messo nero su bianco che «la campagna di semina degli Ogm, che pretende di assicurare la sicurezza alimentare...rischia di rovinare i piccoli agricoltori e di sopprimere le loro semine tradizionali, rendendoli dipendenti dalle società produttrici di Ogm». Una catastrofe. Un'affermazione che rischia di mandare all'aria un piano internazionale che vede implicate le alte sfere del Vaticano e che mira all'assoggettamento perpetuo del patrimonio alimentare del mondo.Considerato l'alone di mistero e imbarazzo che circonda la cinque giorni di convegno rigorosamente a porte chiuse che comincia oggi in Vaticano - «Le piante transgeniche per la sicurezza alimentare nel contesto dello sviluppo» - questa potrebbe essere la trama del sequel di Angeli e demoni, il thriller che sta sbancando i botteghini pescando nel torbido dei sotterranei del Vaticano (nemmeno L'Osservatore Romano è stato inviato al convegno organizzato con la benedizione di Marcelo Sanchez Sorondo, cancelliere della pontificia accademia delle scienze pro Ogm, nonostante il parere del papa).Il mondo è ansioso di sapere con quali sottigliezze tecnologiche la chiesa darà il via libera all'invasione degli Ogm, nel frattempo vediamo chi sono le altre «star» internazionali chiamate a recitare la parte della scienza che conduce affari eticamente, per il bene dell'umanità e per risolvere il problema della fame nel mondo. C'è Eric Sachs, vecchia volpe della Monsanto, ci lavora da trent'anni. Non si tratta propriamente di uno scienziato, è una specie di «imbonitore» che gira il mondo parlando di «sviluppo della conoscenza e dell'accettazione delle piante transgeniche» per reclamizzare innocuità e benefici dei suoi prodotti, ignorando tutti gli studi che sostengono il contrario; gli ultimi due sono stati resi noti pochi giorni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche scientifiche di Buenos Aires ha dimostrato che il diserbante Roundup di Monsanto è altamente tossico e cancerogeno per le popolazioni che vivono nei pressi di campi di soia modificati (e lo stesso erbicida, secondo l'Università della Georgia, provoca la diffusione di un'erba infestante, l'Amaranthus palmeri, che sta invadendo gli Stati uniti del sud). Non è da meno un altro pezzo grosso del biotech, Adrian Dubock, uno dei fondatori di Syngenta che oggi è impegnato in libere consulenze. Tra le comparse, invece, figura un certo Andrew Apel, giornalista che si occupa di Ogm dal 1996 (sembrerebbe un esperto di finanziatori più o meno occulti di facinorosi oscurantisti anti-biotech). Poi, fuori dalle segrete stanze del Vaticano, sono diversi i fiancheggiatori che attendono la lieta novella, come Gilberto Corbellini che sulle colonne de Il Sole24Ore – che sempre ospita i suoi anatemi – mescola un po' le carte pontificando sulla «memoria di Galielo che verrebbe insultata» rinunciando agli Ogm e punta l'indice contro «qualche fanatico» che disturba sia all'esterno che all'interno della Chiesa, «che evidentemente trae soddisfazione e opportunità di potenza dalla sofferenza umana». (?)Purtroppo per Corbellini & Company è difficile rivendicare la scientificità in senso galileiano per difendere una iniziativa unilaterale come questa che trasforma per cinque giorni il Vaticano in una succursale marketing delle multinazionali biotech. Non una voce fuori dal coro è stata inserita tra i relatori. Lettere di protesta formali sono state praticamente stracciate. Come quella che a nome dell'Unione dei missionari irlandesi ha scritto padre Sean McDonagh, il quale per tutta risposta ha ricevuto un messaggio di Piero Morandini, l'unico scienziato italiano invitato, che si conclude così: «Chi si oppone agli Ogm ha una visione del mondo pagana che vede l'uomo come un cancro...». Toni deliranti che probabilmente hanno scoraggiato anche i «fanatici» del Cisde, un network di 16 organizzazioni cattoliche europee e nordamericane con una grande esperienza sui temi della sicurezza alimentare che hanno inviato proteste ufficiali alla pontificia accademia delle scienze. E dire che monsignor Sanchez Sorondo, per rendere meno scontato il nuovo thriller del Vaticano, avrebbe almeno potuto invitare uno dei 400 ricercatori che hanno redatto l'ultimo rapporto dell'International Assessment of Agricultural Knowledge, Science and Technology for Development; è stato commissinato dalla Fao e dalla Banca Mondiale, è stato condiviso da 60 paesi del nord e del sud del mondo, e in sostanza dice che gli Ogm non hanno un ruolo determinante nel garantire la sicurezza alimentare. Davvero vogliamo lasciare il papa nell'ignoranza?

Arrestata Aung San Suu Kyi


Rangoon, Myanmar – Il fatto: Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia è stata arrestata. L'accusa – che puzza tanto di trappola – è quella di violazione del regime di violazione degli obblighi legati agli arresti domiciliari.

Questo perché negli ultimi giorni uno sconosciuto americano – talmente sconosciuto da esserlo anche per l'ambasciata americana – John Yettaw le aveva fatto visita. Già l'anno scorso lo stesso cittadino americano aveva provato l'impresa ed era stato respinto ma quest'anno, dicono dal regime birmano la leader del LND ha ospitato Yettaw per due giorni. Aung San Suu Kyi, da 13 anni agli arresti domiciliari, il 27 maggio avrebbe terminato il periodo di detenzione ed avrebbe potuto iniziare la campagna elettorale per le elezioni – le prime elezioni libere concesse dal regime birmano – che si terranno nel 2010. Ciò fa propendere per una vera e propria trappola messa in piedi dal regime, che così avrà tutte le scusanti per tenere in carcere San Suu Kyi. Il processo – con lei sono accusate anche due sue collaboratrici – inizierà lunedì prossimo, e la leader dell'opposizione birmana - già Premio Nobel per la Pace – rischia una pena detentiva dai 3 ai 5 anni. Ma ciò che più preoccupa è il messaggio lanciato dalla giunta birmana con questa imboscata: non ci saranno aperture, non ci sarà democrazia. Per milioni di persone, la Birmania sarà ancora una prigione a cielo aperto.

Kuwait mon amour


Il terzo Paese più ricco del mondo va di nuovo alle elezioni anticipate. Sarà il quinto governo in tre anni, e la vitalità della società civile comincia a preoccupare investitori, petrolieri e banche.

Di Annalena Di Giovanni per Left


«Ci ho pensato molto. Le donne kuwaitiane sono molto serie e ben istruite. Ma soprattutto sono madri nel cuore e nella mente, sono mogli fantastiche, piene di buon gusto e modestia. E rimangono le migliori cuoche sulla piazza e per questo saranno anche le migliori “cuoche” per quanto riguarda le faccende nazionali, fino a oggi monopolizzate dagli uomini dell'Assemblea nazionale». Quella della dottoressa kuwaitiana Fawziya al Dureih non è una battuta, è un programma politico. E' proprio in virtù delle doti culinarie delle sue concittadine che Fawziya ha infatti deciso di presentare la sua “Lista dell'amore”, un gruppo di nove donne intenzionate a guadagnarsi lo scranno al Parlamento kuwaitiano. Principale obiettivo: «Fornire l'atmosfera giusta per spandere l'amore fra i cittadini del Kuwait e il loro Paese». Programma: «Seminari per diffondere l'amore, lotta ai sentimenti negativi quali gelosia e invidia, educazione sessuale, addestramento al bon ton per gli eletti e soluzione delle dispute nazionali che quasi sempre hanno radice nel disagio domestico dovuto all'infelicità sessuale della coppia». Non male, per il terzo Paese più ricco del mondo.
Fawziya potrebbe farcela. Analisti come Salah Al-Jassem prevedono la conquista, da parte delle donne, di almeno un seggio – sui cinquanta dell'Assemblea nazionale – nella tornata elettorale del prossimo 16 maggio. Un risultato notevole, calcolando che il diritto di voto per le donne del Kuwait è arrivato soltanto tre anni fa, nel giugno 2006, lanciandole all'interno di un gioco politico dominato da alleanze tribali e gruppi religiosi. Donne o non donne, le elezioni del prossimo maggio vengono date come perse in partenza; a essere sconfitta, infatti, potrebbe essere la stabilità stessa dell'emirato petrolifero dopo che l'ultimo governo è durato appena dieci mesi. Tanto è riuscito a tener duro il Consiglio dei ministri (quasi tutti parenti del re, l'emiro Sabah Al Ahmad Al Sabah) condotto da Nasser Mohammed Al-Sabah, prima che quest'ultimo venisse costretto alle dimissioni.
L'anno scorso la pietra dello scandalo era stata la persecuzione politica di alcuni parlamentari sciiti, componente religiosa che rappresenta il 30% della popolazione kuwaitiana; come nel resto dei Paesi del Golfo Persico in cui il potere resta in mano alle monarchie sunnite, gli sciiti vengono visti come una minaccia filo iraniana e filo hezbollah da reprimere e arginare. Con la differenza che in Kuwait la democrazia è vivace, la libertà di stampa consolidata e la società civile piuttosto attiva; quindi gli attacchi anti sciiti di esercito e governo avevano fatto scivolare l'establishment nel caos prima, e ai seggi anticipati poi. Quest'anno, invece, la crisi è arrivata con la finanziaria di marzo, che avrebbe dovuto soccorrere le principali banche del regno dopo il famigerato crack. Ne è partita una polemica fra i parlamentari e il primo ministro Nasser al Sabah; quest'ultimo, nipote del re, è stato accusato dai senatori di corruzione e malgestione di lotti immobiliari. Al re è toccato sciogliere di corsa Parlamento e governo, prima che gli accusatori gli trascinassero il parente in tribunale. Ora il Kuwait, con i suoi cinque distretti e i suoi 900mila elettori ( il resto della popolazione, circa 2 milioni, non ha diritto alla cittadinanza), si avvia rapido verso il quinto governo in tre anni. Intanto i rating dell'emirato crollano, gli investitori fuggono, l'Opec dà segni di nervosismo e prima o poi qualcuno dei Paesi del Golfo vorrà mettere bocca negli affari dell'emiro Al Sabah, magari costringendolo a un'azione di forza che strangoli l'unica democrazia petrolifera finora sperimentata. In fondo, il Kuwait paga soltanto il prezzo delle libertà sociali: un sano e robusto dibattito fra elettori e classe dirigente, in nome della lotta alla corruzione e alla discriminazione religiosa. Peccato che i contraccolpi delle libertà sociali, in un Paese che fornisce tre milioni di barili di petrolio al giorno, siano un rischio che il mondo non vuole permettersi.

Il partigiano antimafia: Rosario Crocetta

Avevano programmato il suo omicidio. Parla il sindaco di Gela. La sua candidatura in quota Pd alle europee ha rischiato di saltare. «Quando Cosa nostra vede che il vuoto si crea attorno a te, colpisce. Non va a guardare le sottigliezze tecniche della politica».

Di Pietro Orsatti per Left

Volevano uccidere Rosario Crocetta. Si sapeva da tempo che il sindaco eretico di Gela era obiettivo dei clan per la sua attività politica e istituzionale. E non solo. Il cambiamento che in sei anni ha avviato nella capitale della Stidda è stato epocale. Crocetta ha infatti aperto il capitolo di “alleanze” fra la mafia e l'impresa nella Sicilia occidentale, divenendo il precursore di quel meccanismo che ha portato Confindustria Sicilia ad aprire una fase di taglio netto con processi omertosi se non complici con la criminalità organizzata. Lo rintracciamo telefonicamente alla fine di un pranzo in una trattoria, sosta nei suoi innumerevoli viaggi per l'Isola. Si lamenta di dover applicare una deroga a se stesso per quanto riguarda il fumo nei locali pubblici. «Sono costretto a fumare qui, dentro il ristorante, perché mi è vietato dalla sicurezza farlo all'aperto. Comunque, non c'è più nessuno e nessuno me ne vorrà». Ride, il sindaco della trasformazione, e poi continua «Sono andato al corteo del 25 aprile, come ogni anno. Una bellissima manifestazione di popolo. Ci sono andato nonostante tutto, con la giacca ben aperta per mostrare che non avevo alcun giubbotto antiproiettile sotto». E poi un'altra gar risata. Non è facile fare il sindaco a Gela, terra di alleanza fra “stiddari” e Cosa nostra. Non è facile soprattutto se lo fai, per due mandati, facendo il nome dei mafiosi e dei complici e rivoluzionando regole e convenzioni. Non è facile, soprattutto, se ti chiami Rosario Crocetta e ti rifai alle tradizioni sindacali e politiche della sinistra storica siciliana, quella di Rizzotto e La Torre. Oggi è candidato del Pd alle europee e rappresenta, anche nel partito, un punto di discontinuità nelle tenute dell'apparato. Eretico era, eretico rimane.
Sindaco, da anni vive sotto scorta. Quando sono iniziate le minacce nei suoi confronti, vicenda approdata oggi anche a una serie di arresti all'interno degli affiliati al clan Emanuello?
Immediatamente, già nel 2003, appena ho vinto il ricorso sulle elezioni amministrative. Già quella vicenda delle elezioni era chiara. Avevo perso, faccio il ricorso, e i voti ricompaiono. La prima intimidazione arrivò subito, e io, caso unico per un amministratore fino a quel momento, andai a denunciare quello che era avvenuto. Da quel momento ho iniziato a fare nomi e cognomi pubblicamente e da subito ho iniziato a toccare le regole del Comune e degli appalti pubblici. Togliendo tutto quello che era mafioso dalla macchina del Comune.
Non l'hanno presa bene. Dopo è arrivato il suo intervento sul petrolchimico e il gioco ha iniziato a farsi ancora più pericoloso. In che modo?
Venne da me un imprenditore, una bravissima persona, che era stato minacciato e intimidito perché si facesse portavoce di un messaggio della mafia. Mi raccontò tutto e poi mi comunicò quello che voleva la mafia da me. “Non ti occupare degli appalti al petrolchimico perché si muore”. E io sono andato, ovviamente, a occuparmene, scoprendo che era in gran parte in mano alla mafia e facendo saltare, in particolare, un grosso appalto di 20 milioni l'anno gestito da un boss, poi morto nel 2007 in uno scontro a fuoco con la polizia, Daniele Emanuello. Poi seguì un altro episodio, ancora più nitido, l'8 febbraio del 2008, direttamente collegato agli arresti di questi giorni con l'emersione dello stato di penetrazione dei clan anche nel Nord Italia.
Poi la rielezione
Con più del 60% dei voti. Gela è cambiata, molto. Si sono liberate tante energie, non solo nel mondo economico ma anche e soprattutto nella gente di popolo, nei tanti giovani che hanno deciso di schierarsi attorno e per un progetto.
E alla fine il suo ingresso nel Pd e la prima richiesta di Veltroni di candidarsi. Poi l'intoppo. La candidatura sembrava saltare: ciò ha contribuito a metterla a rischio?
La mafia, quando vede che ti si crea il vuoto attorno, colpisce. Non sarebbe stata la prima volta. Chiariamo una cosa. Io mi sono avvicinato al Pd senza un'idea precisa di un incarico. Probabilmente si rendeva conto del livello di esposizione di rischio. Successivamente sembrava che potesse saltare per ragioni tecniche di incompatibilità relative al regolamento del partito. E' partita una campagna dei miei amici, del tutto spontanea, con migliaia di firme, siti internet, petizioni e appelli. Ma la mafia non va a vedere le “sottigliezze” tecniche della politica. Credo che la leggesse come un “isolamento”mio e del mio progetto. Ma, oggi, con la deroga fatta nel mio caso, il segnale è stato comunque forte e importante. Non credo che ci sia stata una chiusura nei miei confronti sulla candidatura, forse una sottovalutazione all'inizio ma che è subito rientrata grazie a un gruppo dirigente che ha capito sia le potenzialità che i rischi di una mia non presenza in lista.
Per il suo impegno sulla legalità, anche da sinistra è stato accusato di “giustizialismo”?
Cosa significa giustizialismo? Ma non scherziamo. Chi chiede che si rispetti la legge viene liquidato come “giustizialista”. Vorrei ricordare a chi fa queste semplificazioni, da sinistra, che chi si batteva qui in Sicilia per la legalità, subito dopo la liberazione, non erano tanto magistrati e poliziotti ma i braccianti, gli operai, i sindacalisti. Placido Rizzotto, Turiddo Carnevale e Licausi che è stato “sparato” a Villalba. Propri da Villalba, da lì, voglio iniziare la mia campagna elettorale. Perché i simboli contano. E le origini anche. E poi Pio La Torre, mandato letteralmente a morire. Ci siamo liberati dal fascismo ma la liberazione non è stata completa e ora dobbiamo liberarci dalla mafia, che è una forma di oppressione. Io questo impegno, questa storia, le ho dentro.
Il suo impegno contro le mafie proseguirà anche in Europa?
Quando la ordinatissima e tranquillissima Germania si è svegliata una mattina con il massacro di Duisburg è stato chiaro a tutti che ormai il fenomeno mafioso è globalizzato. La mafia occupa spazi, inquina imprese, si trasferisce. Una volta si diceva che “la mafia si sopporta perché comunque con la mafia si lavora”. Ma la mafia ti dissangua e poi investe altrove. Esternalizza pure lei. Un ulteriore abominio della globalizzazione. L'impegno di un progetto, la richiesta della legalità e della trasparenza, la sicurezza sul lavoro e sui diritti. Sono temi che ho portato dentro la mia storia da sindaco. Con alleati importanti, mettendo in relazione non solo strumentale lavoro e impresa. Sono temi che non sono siciliani, gelesi. MA fondamentali anche sul piano nazionale ed europeo. Può essere una bella sfida.

Italian style

A testa in giù: Lucio Stanca


Quando tutti i giorni ti dicono che vivi nella peggior recessione economica dal dopoguerra e che questa porterà a qualcosa come 50 milioni di disoccupati; quando ti dicono che la gente non riesce ad arrivare alla 4° settimana del mese e che circa 250.000 persone solo in Italia rischiano il loro posto di lavoro, ti viene voglia di prendere qualcuno ed appenderlo a testa in giù.

Mi riferisco a ciò che trovo scritto alle pagine 14 e 15 de La Repubblica di oggi, dove si rendono noti i capricci del sig. Stanca Lucio, ex Ministro dell'Innovazione ai tempi della "rivoluzione delle tre I" ed ex dirigente IBM. Per chi non lo ricordasse è quello che inventò il famoso "Italia.it", cioè la più grande puttanata telematica di questo paese visto e considerato quanto è durato quel sito, immediatamente chiuso da Rutelli (che per l'occasione si prodigò in un inguardabile promo in inglese: "Pliz visit aur cauntri"). Insomma, Stanca è il solito trombato della politica al quale danno il "contentino". "Contentino" che risponde al nome di "Expo2015" che ufficialmente è una cosa positiva, in realtà - visto che siamo in Italia - si rivelerà solo come covo di ex ministri e ministrucoli appaltato per lo più alla prima ditta italiana per fatturato: Mafia&Camorra S.p.A.. O mi sbaglio?

Comunque il nostro, tanto per non smentire quella consuetudine capitalistica che vuole lo stipendio inversamente proporzionale all'operato svolto, ha iniziato a fare i capricci perché vuole una sede con un affitto di 1 milione e 150.000 euro quando potrebbe averne una gratis. Direte voi: ma è scemo? Beh, rileggendo le cronache del periodo in cui era ministro non brilla certo per acutezza, anche se in questo caso sembra che il problema principale sia che l'ufficio "a costo zero" si trovi in zona troppo periferica (poverino, poi non ha il parcheggio riservato...), mentre l'altro - quello costoso - va bene, anche perché non paga di tasca propria. Questa schizzinosaggine non sarà mica per fare un favore alla Moratti vero?
Come se non bastasse, il sig. Stanca visto il lavoro di estrema fatica e stress cui è chiamato (come si dice: "nomen omen"...o meglio: "cognomen omen"), ha ben pensato di chiedere 750.000 euro di stipendio, poi "accordato" a 300.000 con bonus di altri 150.000, che in tempo di recessione e di gente che non sa come campare sono uno schiaffo alla dignità (e la Lega lo ha ringraziato per il suo "senso di responsabilità"...). Ma si sa che per certi ruoli la dignità sia optional non richiesto ed - anzi - visto con particolare antipatia. Piccola postilla: il bonus è un bonus "di produttività a prescindere", nel senso che gli verrà dato sia che il suo operato sia buono sia che faccia pena. E visti i risultati del suo mandato da ministro...

Poi dice che uno trova normali le "trattenute" degli imprenditori o dei dirigenti nei propri uffici da parte degli operai...Io li metterei a testa all'ingiù per un pò, tante volte l'irrorazione del sangue al cervello portasse benefici effetti.

Roxana Saberi è libera!


TEHERAN, 11 MAG - La giornalista irano-americana Roxana Saberi e' stata scarcerata. Lo si apprende da fonti giudiziarie a Teheran. La condanna a otto anni inflitta in primo grado a Roxana Saberi e' stata ridotta a due anni, con sospensione condizionale della pena, perche' gli Stati Uniti sono stati considerati un Paese non ostile. Lo ha detto oggi uno degli avvocati della giornalista irano-americana, Abdolsamad Khorramshahi.

Il Re è nudo!!

Questo è il primo ed ultimo articolo che dedico alla vicenda Berlusconi-Lario. Per tanti motivi, ma due in particolare: a. non amo il gossip. Anzi, fosse per me lo abolirei volentieri dalle “correnti” giornalistiche; b. Il mondo non gira intorno a Sua Emittenza. Fortunatamente.
Devo ammettere che a suo tempo l'ex leader del 4°Partito del PdL – cioè il PD – Walter Veltroni aveva ragione. Il nuovo leader di quella cosa che in questo paese ha velleità di definirsi sinistra deve essere la ex-consorte dell'Imperatore, cioè la signora Lario Veronica. Come si dice: parla poco, ma quando parla lascia il segno.


“Non posso stare con un uomo che frequenta le minorenni… perché la ragazza minorenne la conosceva prima che compisse 18 anni: magari fosse sua figlia…”. “Ho cercato di aiutare mio marito, ho implorato coloro che gli stanno accanto di fare altrettanto, come si farebbe con una persona che non sta bene. E’ stato tutto inutile.”


Sono queste le parole pronunciate dalla ex-signora Berlusconi in un'intervista di cui ci riporta Marco Travaglio. Queste parole, detto francamente, mi fanno venire in mente una cosa e non la esplicito – tanto si capisce – perché altrimenti è la volta buona che mi arrestano. E vorrei almeno aspettare di diventare un giornalista professionista prima di finire ar gabbio...Comunque, come ho detto più e più volte – e continuerò a farlo finché ve ne sarà bisogno – Berlusconi non deve rappresentarci più. Non che sia un degno rappresentante della razza italiota: l'uomo che si vanta di essersi fatto da solo, anche se ci è riuscito solo grazie all'aiuto di alcuni “amici”, insomma un pluri-raccomandato anche lui come l'italiano medio ci rappresenta degnamente. Eh dai, diciamocelo: a noi Berlusconi tutto sommato ci piace! Noi che abbiamo assistito in silenzio all'abolizione del falso in bilancio; noi che la corsia di emergenza dell'autostrada la consideriamo la corsia per i sorpassi quando c'è la fila; noi che se possiamo imbrogliare in qualche modo lo facciamo senza tanti scrupoli. Diciamolo chiaro: Berlusconi è uno di noi! Chi meglio di lui per portare alta nel mondo la bandiera dell'italianità, del provincialismo e dell'arte dell'arrangiarsi che ci “accreditano” nel mondo! A me non interessa quali siano i gusti sessuali del premier (pensare a ciò francamente mi fa venire anche un certo ribrezzo ad essere sinceri), tantomeno il grado di cornificazione della signora Lario. Quelli sono fatti privati e tali devono rimanere. Mi interessa invece il fascicolo “vita pubblica” del premier e della sua corte. Mi interessa quando il premier annuncia che candiderà alle elezioni europee persone “capaci” e poi ti ritrovi con starlettine di bassa lega che sbagliano persino i congiuntivi (e che quindi mi fanno pensare a particolari “competenze”). Mi interessa quando il premier non si rende conto di sparare cazzate su cazzate, tipo dire ai terremotati de L'Aquila di considerare il periodo post-scosse come un periodo di “campeggio”, oppure quando fa battute in Europa su dov'erano i ministri mentre lui faceva i fatti. Voglio dire: quest'uomo inizia ad avere una certa età, e si sa che ad una certa età in politica si inizia ad avere problemi nel funzionamento degli ingranaggi cerebrali (c'è anche chi di questi problemi ce li ha dagli albori della carriera, vedasi Kossiga...). Questa situazione di instabilità psico-fisica – visto che neanche Berlusconi, hailui, è una macchina perfetta – cozza terribilmente con gli impegni di un'agenda politica decisamente fitta. Sapendo che il Re non abdicherà, a chi toccherà gridare: “Il re è nudo!”?

9 Maggio 1978: quando il silenzio uccise...due volte

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Questa fu la prima pagina de L'Unità del 9 Maggio 1978.
Il corpo dell'On. Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, per due volte Presidente del Consiglio Italiano nel periodo 1963-1976 veniva trovato nel bagagliaio di una Renault 4 Rossa parcheggiata in via Caetani a Roma, condannato e messo a morte per volere del "tribunale del popolo" delle Brigate Rosse. L'onorevole Moro, in realtà, è stato ucciso sì per mano brigatista, in quanto a loro si deve l'esecuzione materiale dell'omicidio, ma non ci sono dubbi che il suo assassinio sia stato possibile non senza le connivenze e l'avallo dello Stato Italiano. Sulle motivazioni che portarono al sequestro ed all'omicidio dell'ex presidente della Dc vi è una florida bibliografia, utile - a chi interessasse - non solo per capire quello che Leonardo Sciascia definì "l'affaire Moro", ma anche - e soprattutto - per capire come funzionava il mondo con il Muro di Berlino ancora in piedi.
In quello stesso giorno, a distanza di alcuni chilometri "veniva suicidato" Peppino Impastato. Sì, "veniva suicidato". Così come 9 anni prima "venne suicidato" l'anarchico Pino Pinelli. Allora si disse che Peppino, che in quei giorni stava portando a termine la campagna elettorale che lo vedeva coinvolto nelle elezioni comunali nelle file della Democrazia Proletaria, si era "stancato della politica e della vita". O almeno questo fu ciò che c'era scritto nella lettera che venne rinvenuta e che per gli inquirenti valeva la prova del suicidio. Si sa, dopo tanti e tanti anni, che in realtà Peppino fu ucciso per ordine di Tano Badalamenti, quel "zu Tano Seduto" che tante volte era stato dileggiato dai microfoni di Radio Aut, la radio che Peppino aveva fondato.
Allora come ora - a distanza di 31 anni - nessuno ne parla.
Allora come ora i riflettori - quei pochi che non sono puntati verso la corte del Sacro Berlusconiano Impero - sono puntati sull'ex Presidente della Dc. Perché un uomo che non piega la schiena, che non abbassa lo sguardo è considerato scomodo. 31 anni fa come oggi...

(non)Libera informazione in (non)libero Stato

“Nonostante l'Europa occidentale goda a tutt'oggi della più ampia libertà di stampa, l'Italia è stata retrocessa nella categoria dei paesi parzialmente liberi, dal momento che la libertà di parola è stata limitata da nuove leggi, dai tribunali, dalle crescenti intimidazioni subite dai giornalisti da parte della criminalità organizzata e dei gruppi di estrema destra, e a causa dell'eccessiva concentrazione della proprietà dei media”.

Non si può parlare di bocciatura netta, senza appello. Ma poco ci manca. Nell'ultimo rapporto sulla libertà di stampa nel mondo, edito da una organizzazione libera americana il cui nome, qui in Italia, suona quasi come una beffa, il nostro paese si classifica 73° - a pari merito con Tonga – su un totale di 195 (ultimo paese la Corea del Nord, considerata ovviamente “non libera”).
La Freedom House – questo il nome dell'organizzazione che dal 1980 svolge questo studio annuale - affida la valutazione ad «un processo di analisi e valutazione condotto da un team di esperti e studiosi locali […] che ha coinvolto diverse decine di analisti, fra cui i membri del core team di ricerca con sede a New York». Valutazione che si crea tenendo conto di tre scenari principali:

  • scenario giuridico:è l’esame di leggi e regolamenti «che influenzano il contenuto dei media e del governo nonché l’inclinazione a utilizzare queste leggi e le istituzioni giuridiche per fermare la libertà d’azione dei media».
  • scenario politico:cioè il livello di controllo politico sui media, in particolare inerentemente al grado di indipendenza dell'editoria – sia pubblica che privata – l'accesso alle fonti di informazione la vitalità dei media e la diversità delle notizie disponibili all’interno di ciascun Paese; la capacità della stampa di coprire le notizie liberamente e senza pressioni o intimidazione da parte dello Stato o di altri attori»
  • scenario economico: trasparenza, distribuzione delle risorse pubblicitarie e grado di corruzione.

Ora, leggendo questi tre parametri si potrebbe anche sostenere che in qualche modo ci abbiano voluto bene, visto il livello dell'informazione cui siamo soliti. Giornali i cui titoli sono praticamente identici, notizie date in maniera erronea o non date affatto sono solo due dei punti cui il lettore-medio va incontro quotidianamente. Stendiamo poi un velo pietoso per quanto riguarda la redistribuzione della proprietà editoriale e della pubblicità, tutta in mano a Berlusconi. La ricercatrice della FH Karin Karlekar spiega che la retrocessione è dovuta anche al secondo mandato di Berlusconi premier: «Il suo ritorno nel 2008 ha risvegliato i timori sulle concentrazioni di mezzi di comunicazione pubblici e privati sotto una sola guida». Aggravano poi la situazione la c.d. “legge Gasparri”, detta anche legge n. 112 del 3 maggio 2004 - "Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI - Radiotelevisione italiana S.p.A., nonché delega al Governo per l'emanazione del testo unico della radiotelevisione"; l'aver innalzato l'IVA a Sky e quella perla degna della dittatura argentina che risponde al nome di ddl Alfano che prevede il carcere per i giornalisti "ficcanaso". Certo, non che il nostro paese abbia mai rischiato di entrare nel “giro che conta” (dove, ai primi posti, nell'ordine: Islanda (1°), Finlandia e Norvegia, rispettivamente seconda e terza) visto che al massimo – sotto i due governi Prodi – siamo riusciti ad arrivare alla postazione numero 65, ma vederci sorpassare da paesi come Barbados, Micronesia e Cile – con tutto il rispetto – non è che sia poi una cosa così piacevole. Non trovate?

Cosa si può fare per una cosa del genere? Beh, innanzitutto svegliarsi e prendere coscienza che una cosa del genere è da considerarsi un vero problema, e non pensare – come siamo soliti fare – che c'è di peggio. E poi iniziare a fare una cosa molto molto semplice: informarsi. Eh, che cosa rivoluzionaria eh?! Però riflettiamoci un attimo. Anche qui, discorsi mai sentiti prima: nel nostro paese, come si suol dire, ci sono più scrittori che lettori. E non è una mera battuta. Ed i giornali più venduti sono spesso quelli sportivi. Il 25% degli studenti che escono dalla scuola media inferiore è da considerarsi praticamente analfabeta; alla laurea approda il 45% degli iscritti (la media Ocse è del 69%, nell'immagine di fianco sintesi dei dati storici relativi all'Italia nei Rapporti Freedom House). Sono cifre che non mutano granché di anno in anno. Perché questo? Perché i giovani sono cresciuti a pane&tv, e molto spesso il tubo catodico ne ha surrogato l'autorità genitoriale. Quindi il modello sociale che i giovani hanno in testa è quello espresso dalla televisione, un modello che non premia certo il cervello e la cultura. Questo porta – non sono certo io a fare cotanta scoperta – ad avere un paese di ignoranti. Termine inteso non tanto come offesa, ma proprio nel significato letterale del termine. Noi giovani – io mi ci metto dentro in quanto 22enne, pur ritenendomi con forse una punta di presunzione, un giovane mediamente informato – stiamo crescendo senza quel che potremmo definire “dovere di critica”, senza cioè quella conoscenza necessaria a passare dalla fase dell'infanzia all'età veramente adulta, cioè all'età del pensiero critico ed indipendente. E se pensiamo che in quelle percentuali sopra citate sono racchiuse le prossime leve del comando in Italia beh, io francamente inizio a preoccuparmi. Voi no?

Per chi fosse curioso, in questo pdf trovate la classifica completa della libertà di stampa nel mondo.