Traffico di minori contesi, sgominato gruppo internazionale a Palermo (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it 13 novembre 2013

29 maggio 2012. A Villagrazia di Carini (Palermo) è appena stato spento l’incendio dell’Hotel Portorais quando i carabinieri scoprono che sotto la cenere cova un “incendio” ben più grave: un traffico di minori contesi su scala internazionale.

Al centro della vicenda la compagna del titolare dell’albergo, l’ex campionessa olimpionica di vela (bronzo a Seul 1988) Larysa Moskalenko, a Palermo da oltre vent’anni. È lei, secondo le indagini, a tessere le fila dell’intera ragnatela, al cui vertice c’era Martin Vage, presidente della Abp World Group, società norvegese di sicurezza privata, finito in manette a fine ottobre. Tra i servizi offerti dalla società “un vero e proprio sodalizio di contractors, per la maggior parte veterani dei corpi speciali delle Forze Armate di mezzo mondo” sottolineano gli inquirenti, c’è anche il “recupero” dei bambini contesi da genitori di nazionalità diverse, realizzato attraverso le imbarcazioni messe a disposizione dalla “Sicily rent boat” di proprietà dell’ex campionessa.

Il recupero poteva costare fino a 200mila euro. L’inchiesta – coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo con la collaborazione dei Comandi Provinciali di Brescia e Trapani – è partita da Capaci, dove è stata trovata la sede centrale di un’organizzazione, i cui tentacoli si dipanano in tutto il mondo tra Tunisia, Egitto, Russia, Ucraina fino ad arrivare alla Norvegia.

Cronologia di un traffico internazionale
Il 26 settembre 2012 Peter Ake Helgesson, detto “Per”, 54 anni, ex veterano svedese della Legione straniera, contatta la Moskalenko per un’operazione da svolgersi in Tunisia. Dopo due giorni l’ex legionario ricontatta la campionessa olimpica avvertendola di avere i 13.000 euro pagati da una coppia scandinava per l’affitto della barca con cui realizzare il recupero. La Moskalenko avverte Helgesson della necessità di dotarsi di quattro giubbotti di salvataggio, uno per un bambino.
Il 3 ottobre Helgesson chiama da Port el Kantaoui: missione compiuta e ritorno previsto a Marsala quella stessa notte.

Per un’altra operazione – da realizzarsi tra Cipro, l’Egitto e il Libano – il gruppo si dota di medicinali, spray urticante e armi, “un paio di pistole” per la precisione. Per reperirle la Moskalenko chiama un numero russo, intestato ad un certo Arkadij – secondo le ricostruzioni appartenente all’Fsb, il servizio segreto russo – al quale l’ex campionessa chiede di un “generale conoscente” dal quale ottenere le armi.

Dal Sahara a Lampedusa, quel traffico di migranti tra criminalità e violenze (Bloglive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 12 novembre 2013

La Direzione distrettuale antimafia di Palermo è riuscita ad arrestare Elmi Mohamud Muhidin, cittadino somalo di 34 anni riconosciuto dai superstiti eritrei del naufragio dello scorso 3 ottobre come l’organizzatore del loro viaggio, terminato con 366 vittime. L’uomo è accusato di sequestro di persona, tratta di esseri umani, associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza sessuale. Insieme a lui è stato fermato anche uno scafista di nazionalità palestinese, tale Attour Abdalmenem, 47 anni, non legato allo sbarco del 3 ottobre.
Grazie all’identificazione di Muhidin, gli investigatori sono riusciti a fare un passo avanti nelle indagini, venendo a conoscenza dell’identità di uno dei capi dell’organizzazione transnazionale che gestisce il traffico di migranti tra Corno d’Africa, Sahara, Libia e coste italiane.

L’amico degli italiani “che contano”. Le vittime del naufragio erano tutte di nazionalità eritrea, in fuga dal regime di Isaias Afewerki, in carica dal 1993 e una lunga lista di amici “che contano” in Italia (come Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi, che nel 2004 accompagnarono Afewerki a conoscere gli alpini a Trieste, mentre nel suo Paese faceva massacrare gli studenti) sono state intercettate nel deserto al confine tra Sudan e Libia da un gruppo di somali. Qui sono stati caricati a bordo di pick up armati di mitragliatrici e portati in un campo di prigionia – un vero e proprio “campo di concentramentosecondo il procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia – dove sono stati torturati con manganelli e scariche elettriche. Alcuni di loro, raccontano i migranti sopravvissuti, sono stati legati dai trafficanti con delle corde collegate tra piedi e collo, “in modo che anche il minimo movimento creava un principio di soffocamento”. Si tratta di campi illegali come quello di Agedabia, a sud di Bengasi o di Agadez (Niger) dove i migrati vengono letteralmente parcheggiati in attesa delle migliori condizioni – atmosferiche ed economiche – per continuare il viaggio.

I campi di concentramento del terzo millennio. In questi centri, le donne vengono violentate, quando non vengono date “in dono a gruppi paramilitari, armati di mitragliatori Ak-47”. “Una sera”, ha raccontato una giovane vittima delle violenze agli inquirenti italiani, “dopo essere stata allontanata dal mio gruppo sono stata costretta con la forza, dal somalo [Muhidin, ndr] e da due suoi uomini, ad andare fuori.

Scoperto il primo “carcere” della mafia, la tonnara di Santa Panagia (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 9 novembre 2013

23 settembre 2011: 80 migranti di nazionalità egiziana sbarcano a Rutta e Ciauli, nel siracusano. Ventidue di loro verranno ritrovati dalla Polizia di Stato otto giorni dopo nella tonnara di Santa Panagia, territorio controllato dall’omonimo gruppo mafioso e dagli Attanasio, “non inseriti organicamente in cosa nostra” come si legge nella relazione del primo semestre 2012 della Direzione Distrettuale Antimafia. È la prima volta che la Polizia scopre un “carcere della mafia”.

Quei 22 migranti sono infatti sequestrati da un sodalizio italo-egiziano in attesa di saldare il loro debito di viaggio (“debt-bondage”, in gergo). Funziona così: una prima parte del viaggio si paga prima di partire, il resto una volta giunti a destinazione, saldando il tutto attraverso il sistema delle rimesse, sfruttando per esempio società apposite come la Western Union. Se i migranti non possono pagare vengono utilizzati come manovalanza nei settori dell’agricoltura o dell’edilizia o sfruttati in quello della prostituzione, mentre il debito rimanente viene traslato alla famiglia.

Se neanche i familiari riescono a coprire la somma, scatta la detenzione sotto la custodia di carcerieri fidati, come la coppia vicina ai clan di Cassibile e Avola scoperta lo scorso febbraio a fare la guardia ad un garage dove erano sequestrate 25 persone, tutte di nazionalità egiziana.

Alla tonnara la Polizia ci arriva per circostanze casuali: l’arresto di uno dei carcerieri a seguito di uno scippo e la fuga di due migranti carcerati, trovati a frugare nei cassonetti in cerca di cibo.

Il ritrovamento del “carcere” ha permesso inoltre la conferma di quanto gli investigatori avevano scoperto tra il 19 ed il 20 marzo 2011, quando la Guardia di Finanza aveva intercettato al largo della costa di Fondachello il trasbordo di 132 migranti egiziani da una nave-madre – modalità nota fin dagli anni Novanta, quando veniva utilizzata dagli scafisti provenienti dalla ex-Jugoslavia – alla “Fenice”, di proprietà di Massimo e Giuseppe Greco, affiliati alla cosca Brunetto di Fiumefreddo di Sicilia, alleati storici del clan catanese dei Santapaola.

Questo episodio permette di aprire una pista nuova nei rapporti tra mafie italiane e straniere: l’esistenza di un sodalizio italo-egiziano interno al traffico di esseri umani, in cui agli italiani spetta il compito di sostegno logistico ed assistenza a terra.

Sull’altra sponda del Mediterraneo, emissari delle organizzazioni criminali – secondo gli investigatori non è possibile definire quella egiziana una vera e propria “mafia” strutturata – si recano nei villaggi egiziani prospettando la possibilità di arrivare in Italia e, da lì, nel resto d’Europa, sulla falsariga di quanto avviene con il sistema delle madame” nigeriane. Definiti i dettagli del viaggio, i migranti vengono privati di soldi e documenti ed inviati – nei modi che spesso le immagini televisive hanno mostrato – in Europa. Una volta sbarcati vengono poi portati nelle regioni del Nord Italia e, dopo una telefonata di conferma, la seconda parte del debito passa dalle famiglie dei migranti ai trafficanti.

La politica del land grabbing crea una crisi umanitaria globale (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 4 novembre 2013

Uscire da una crisi generandone altre, anche più gravi. È questo, in sintesi, quanto avviene con il land grabbing, la politica di accaparramento delle terre portata avanti – soprattutto in Africa – dai Paesi sviluppati o in via di sviluppo per far fronte alla crisi economica. Una risposta che porta con sé la distruzione di interi ecosistemi sociali ed ambientali, migrazioni e violenza, in quella che in molti definiscono una nuova forma di colonialismo.

In questo sistema, evidenzia un dossier dell’associazione Re:Common – figlia della Campagna per la riforma della Banca Mondiale – a giocare un ruolo di primo piano c’è l’Italia, superata solo dalla Gran Bretagna tra quelli che il rapporto realizzato lo scorso anno da Giulia Franchi e Luca Manes definisce senza mezzi termini gli arraffaterre.

Jatropha: il nuovo corso del Made in Italy
Al centro degli affari italiani, soprattutto in Africa, la Jatropha Curcas, un arbusto velenoso considerato per anni “la nuova frontiera della sostenibilità”. I fautori del suo utilizzo, infatti, sostengono che la sua coltivazione non crei alcun tipo di ostacolo o pericolo per la sicurezza alimentare. I semi di questa pianta producono un olio che, pur non commestibile, può essere utilizzato come combustibile o trasformato in biodiesel. È questo il business che fa gola ai governi, Italia inclusa.

Negli anni varie ricerche hanno però ridimensionato il potere “sostenibile” della Jatropha, le cui aspettative di rendimento sono fortemente disattese per il forte uso di acqua, pesticidi e fertilizzanti per la coltivazione industriale. Un mercato dal segno spesso negativo influenzato anche dalla speculazione.

Inoltre, la coltivazione di questa pianta porta all’emissione di alti livelli di anidride carbonica – rendendo di fatto nulli risparmi economici e vantaggi ambientali – nonché alla violazione di diritti umani dei quali, però, ben poche tracce si trovano nei media, nonostante il land grabbing porti ad economie locali distrutte; comunità indigene sfollate nei campi di reinsediamento, arresti arbitrari, torture e governi che stringono accordi migliori con gli investitori stranieri che con le proprie popolazioni.

Chevron-Ecuador, a dicembre il caso davanti alla Corte de L’Aja (BlogLive.it)

Questo articolo è uscito su Bloglive.it il 30 ottobre 2013

9.510 milioni di dollari. È quanto dovrà pagare la Chevron-Texaco per il disastro ambientale perpetrato tra il 1964 ed il 1990 in Ecuador, che a fine anno dovrà presentare la documentazione contro la multinazionale alla Corte Penale Internazionale dell’Aja.

680.000 barili di greggio sversati nei fiumi, nella flora e nella fauna delle province amazzoniche di Orellana e Sucumbios, per un totale di 15.834 milioni di galloni di acqua tossica altamente cancerogena versata nell’ecosistema nonostante la Texaco – acquisita dalla Chevron nel 2001 ed oggi terza più grande impresa degli Stati Uniti -avesse la tecnologia adatta per evitare il disastro ambientale, una spessa membrana necessaria ad evitare che il petrolio estratto contaminasse l’ambiente, brevettata dalla stessa società.
In Ecuador vennero invece usati dei tubi di evacuazione, che drenavano le acque tossiche verso i fiumi, abbattendo così i costi.

Secondo il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, il disastro è superiore di ben 85 volte alla fuoriuscita di petrolio della British Petroleum nel Golfo del Messico.

Al danno ambientale vanno aggiunti gli effetti del disastro sulla popolazione, dove si registra una percentuale di malati di cancro tre volte superiore al resto del paese. Stessa percentuale registrata nei bambini di età compresa tra 0 e 4 anni affetti da leucemia. Nelle zone direttamente colpite, uno studio del 2008 definisce in 6 a 1 il rapporto tra cittadini malati e sani. Uno studio dell’Istituto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Guayaquil ha evidenziato come in un raggio di 200 metri dalle installazioni petrolifere le donne registrino il 147% in più di aborti rispetto a chi vive in zone del territorio nazionale non contaminate.

I focolai epidemici rappresentano peraltro una delle poche possibilità concrete di individuare i pozzi. Fin dal 1972, infatti, la Texaco li copre, nascondendoli alla popolazione e ad eventuali indagini. Secondo la Corte di Sucumbios, la cifra ufficiale è di 356 pozzi, ciascuno dei quali collegati a quattro o cinque piscine per eliminare i rifiuti tossici, per un totale di 820 buche. 157 quelle coperte attraverso bastoni, terra e cemento dalla Chevron. Un procedimento che permette ancora oggi al petrolio di fuoriuscire e continuare a contaminare.

Per qualche anno, la multinazionale ha usato come bracciante anche Pablo Fajardo, oggi principale avvocato dei querelanti in Ecuador, laureatosi nelle aule del tribunale prima che in quelle universitarie. Quando è iniziata la causa nel suo paese, la Chevron si è presentata in aula con ben otto avvocati, pagandone in totale 39 solo per questo procedimento. “Io avevo un vantaggio. Non dovevo inventarmi niente. Dovevo solo raccontare una storia“, raccontava nel 2011 Fajardo a Pablo Ximénez de Sandoval del quotidiano spagnolo El País (qui la traduzione di Beatrice Ruscio per Peacelink).

Nonostante questo, però, la causa giudiziaria va avanti tra singolari giustificazioni della multinazionale – passata nel corso degli anni a sostenere che il petrolio non inquini e sia addirittura biodegradabile ad imputare il cancro alla scarsa igiene degli indigeni – e veri e propri tentativi di mettere a tacere i querelanti, come la richiesta di applicare la RICO (Racketeer Influenced and Corruption Organization) una legge federale statunitense contro il crimine organizzato richiesta dalla Chevron-Texaco in quanto, a suo parere, i malati farebbero parte di una associazione criminaleformatasi allo scopo di estorcergli denaro.

Inoltre, a fine aprile 2003, otto giorni prima dell’inizio del processo a Sucumbios che ha dato origine alla storica sentenza di colpevolezza, viene torturato ed ucciso William Fajardo Mendoza, fratello di Pablo, il quale ha sempre ripetuto di non poter affermare con certezza che dietro a ciò ci sia la Chevron.

Lewis Kaplan, giudice del Distretto Sud di New York – dove nel 1993 la Texaco venne querelata per la prima volta – ha dichiarato non applicabile la sentenza negli Stati Uniti finché non avrà deciso sulla competenza dei tribunali. L’indennizzo però può essere riscosso in uno qualsiasi dei 50 paesi dove la multinazionale investe e possiede beni. In attesa del nuovo procedimento che si aprirà davanti ai giudici de L’Aja a dicembre.