Capodanno col "mostro": quello che i media scordano di dire sul caso Cesare Battisti

Programma bipartisan: la forca
Italia: paese di santi, poeti, navigatori e...comici (che di solito siedono in Parlamento).
Il prossimo spot per invogliare cittadine e cittadini stranieri a visitare il nostro Paese potrebbe avere quello appena citato come pay-off, viste le ultime esternazioni (delle quali bisogna sottolineare l'anima bipartisan, a conferma di una moda ormai consolidata...).
Dopo le voglie “operaie” di Fassino (se andasse davvero a lavorare in catena di montaggio ne avremmo giovamento tutti) ecco arrivare il lato destrorso del Palazzo che, nella figura del Ministro della Difesa Ignazio La Russa che – forse dimentico di non essere nei salotti mediatici nostrani – ha minacciato il (per ancora poche ore) Presidente della Repubblica Federativa del Brasile Luiz Ignácio Lula da Silva di possibili ritorsioni (un eventuale no all'estradizione dal Brasile in Italia di Cesare Battisti «non sarà senza conseguenze», come ha annunciato in un'intervista al Corriere della Sera) chiedendo addirittura il boicottaggio commerciale verso il Brasile.

È di poco fa la decisione brasiliana sul processo storico-mediatico-politico che ormai da anni si sta portando avanti nei confronti dell'ex militante dei P.A.C. (Proletari Armati per il Comunismo) Cesare Battisti. Sgombro subito il campo da possibili fraintendimenti: Battisti, come individuo, mi sta profondamente sulle scatole, mentre non posso nutrire uguale antipatia per quel tentativo di modifica dello status quo degli anni '70 che ha utilizzato la lotta armata come forza di resistenza alla violenza strutturale dello Stato (e qui vi rimando alla definizione triangolare della violenza di Johan Galtung: http://www.reteindra.org/BN0201/09.htm).

Lo definisco processo storico (e politico) perché quello a cui stiamo assistendo non è il tentativo di chiudere i conti con il processo a Battisti in quanto individuo, ma a Battisti come simbolo. Incarcerare lui è – de facto – incarcerare gli anni '70. È, ancor meglio, un processo agli anni di piombo in quanto tali, un processo che si configura come la migliore tra le non-soluzioni di una ferita ancora aperta che invece dovrebbe stare nel posto che più propriamente le compete: i libri di storia.
Si pensi alla stessa Repubblica Federativa del Brasile, che tra poche ore vedrà il passaggio del testimone tra Lula e Dilma Vana Rousseff, guerrigliera ai tempi della dittatura brasiliana (1964 – 1985) e che – addirittura – proprio per quella scelta che in Italia passerebbe sotto il fattispecie di “terroristimo” è stata carcerata dal 1970 al 1972.

Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costingono. [Bertolt Brecht]

Che dal voto di fiducia del 14 saremmo entrati in una nuova fase era facilmente prevedibile. Altrettanto prevedibile era la risposta antidemocratica (ma esiste davvero la democrazia?) del governo che avendo ancor meno argomenti del solito – non che ne abbia poi così tanti in generale – applica la regola aurea di qualsivoglia forma di autorità: la repressione.
È in quest'ottica che il Ministro dell'Interno Maroni, imboccato dal sottosegretario Alfredo Mantovano, si è detto possibilista verso l'estensione del D.A.SPO. (acronimo che sta per Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) anche alle manifestazioni di protesta come quelle a cui stiamo assistendo (e partecipando) in questi giorni.
Misura di prevenzione atipica e caratterizzata dall'applicabilità a categorie di persone che versino in situazioni sintomatiche della loro pericolosità per l'ordine e la sicurezza pubblica con riferimento ai luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive, ovvero a quelli, specificatamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle competizioni stesse.(...)Il D.A.SPO. può essere comminato anche nei confronti di soggetti minori di anni 18, che abbiano compiuto il quattordicesimo anno di età (in tal caso, il divieto è notificato a coloro che esercitano la patria potestà)” dice l'Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del Ministero dell'Interno.

La repressione non mi stupisce di certo, e questo non perché – per usare uno slogan tanto caro ad una certa parte politica – saremmo sotto “dittatura”, ma semplicemente perché la repressione non è altro che una delle tante forme espressive con cui si manifesta lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, conditio sine qua non di una struttura sociale composta da non-eguali come la nostra. Per cui finché non si deciderà un cambio drastico dell'intero sistema (quale miglior momento di questo?) la repressione, così come lo sfruttamento e qualsivoglia forma di inegualità continueranno ad esistere.
Quel che mi stupisce, in positivo, è che finalmente ci si sta iniziando a rendere conto che il nostro paese ha il vizio di erigere statue (di cartapesta) ad eroi (di carta, per usare il titolo di un libro di Alessandro Dal Lago) solo perché salgono agli onori della cronaca personaggi che dicono esattamente quelle parole che il c.d. popolo vuol sentirsi dire.

Di campi rom, stati-nazione e amianto...

«Si lamentano degli zingari? Guardateli come vanno in giro a supplicare l'elemosina di un voto! Ma non ci vanno a piedi, hanno autobus che sembrano astronavi, treni, aerei. E guardateli quando si fermano a pranzo o a cena: sanno mangiare con coltello e forchetta e con coltello e forchetta si mangeranno anche i vostri risparmi. L'Italia appartiene a cento uomini, siamo sicuri che questi cento uomini appartengano all'Italia?»

No, queste parole non rappresentano la dichiarazione di questo o quell'antipolitico. A pronunciarle – anzi, per essere precisi a scriverle (http://www.fondazionedeandre.it/zingari.htm) – fu Fabrizio De André che, tra le tantissime perle che ci ha regalato, ha scritto anche la struggente “Khorakhanè”.
Durante il concerto al Teatro Brancaccio, quello che erroneamente viene considerato come il suo ultimo concerto, ebbe a dire che «(il popolo rom) sarebbe un popolo da insignire con il Nobel per la pace per il solo fatto di girare per il mondo senza armi da oltre duemila anni».
E c'è qualcuno a cui anche solo a sentirli nominare viene il vomito...

Si chiama Clarissa Lombardi, è consigliera del PdL per la circoscrizione est della città di Prato e, qualche giorno fa ha così commentato il furto della borsa dalla sua auto da parte di un indefinito “qualcuno”.
Forse sarò anche banale, ma a me le cose che fanno venire il vomito sono altre: la mafia e le altre forme di criminalità organizzata insieme a chi le tutela a livello istituzionale, chi sfrutta gli altri per mero vantaggio personale (e qui guardo proprio in casa – partitica – della suddetta: http://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/economia/2010/10-agosto-2010/operai-cinesi-senza-stipendio-lavorano-sasch-cenni—1703552415435.shtml), chi comanda bombardamenti a distanza di chilometri per un paio di firme su un contratto, eccetera eccetera eccetera.
E poi c'è l'ignoranza. Non quella di chi non ha avuto la possibilità di andare a scuola per mancanza di possibilità economiche, come succedeva fino a qualche decennio fa a noi italiani o, perché, se ci andasse verrebbe perennemente dileggiato e perseguitato per colpa di uno stereotipo, proprio come succede ai bambini ed alle bambine rom. Se foste costretti ad andare in una scuola in cui tutti i giorni vi chiamano con i peggiori appellativi e vi tengono in disparte senza che voi abbiate fatto qualcosa di male come vi sentireste? Sareste così felici di andare a scuola?
L'ignoranza che mi fa vomitare è quella di chi, pur sapendo quel che succede, si gira dall'altra parte o sfrutta, da una posizione di privilegio, l'ignoranza altrui.

Porrajmos: l'olocausto dimenticato degli zingari (di Pino Petruzzelli)


Ci sono parole che vengono usate con leggerezza, anche se il loro utilizzo dà al testo una determinata connotazione (per lo più negativa): "clandestini", "nomadi", "zingari" sono alcune di queste.
Ce ne sono altre che invece sono dimenticate. Una di queste è "porrajmos", che in lingua romanes significa "devastazione" ed indica l'omicidio di circa 500.000 persone appartenenti alla popolazione romaní (rom e sinti in particolare) avvenuta durante il secondo conflitto mondiale. Se oggi conosciamo questo genocidio nascosto lo dobbiamo agli ebrei, che ne dettero testimonianza mentre ci insegnavano la Shoah.
Nonostante questo, però, le vessazioni contro rom e sinti continuano ancora oggi, sottoforma di "campi nomadi" in cui mancano le più elementari norme igieniche o sottoforma di un qualcosa che è forse ancor peggiore dello sterminio fisico: la discriminazione. Molti sinti (italiani) sono costretti a "dimenticare" la propria origine per meglio integrarsi nel nostro paese, così come in pochi sarebbero disposti a dare fiducia a chi viene definito "zingaro" (per poi lamentarsi che "loro" rubano e non vanno a lavorare).

La discriminazione - si sa - è generata dall'ignoranza, che ha un'altra figlia pericolosa: la paura. Una delle più gravi (nella quale però molto incide il lavoro xenofobo di media e politica) è proprio quella verso le popolazioni romaní, che si inscrive nella più atavica paura verso "l'altro".
Proprio per questo da qualche mese è partita la campagna "Dosta!" ("Basta!" in romaní) con la quale si cerca di cancellare tutti i pregiudizi razziali verso rom e sinti.
Non servono campi di marginalità. Serve integrazione. E per rendere possibile un'integrazione che non sia annessione il primo passo è la conoscenza.

Il prezzo della solidarietà? A Firenze un euro



Prima colazione, cena e pernottamento notturno al costo di un euro a notte.
Un'offerta che definire allettante sarebbe riduttivo. Per chi, naturalmente, può permetterselo.
Questa, infatti, non è l'offerta natalizia di qualche villaggio vacanze o – visti i tempi – meta sciistica per far fronte alla crisi ma è la proposta – ideata dall'assessore alle politiche sociosanitarie Stefania Saccardi – del Comune di Firenze in risposta alla c.d. “emergenza” freddo.

Circa 200 posti letto (175 dallo scorso 22 novembre al 3 aprile 2011 più altri 25 a Natale) messi a disposizione per i tanti senza dimora fiorentini. I primi 15 giorni saranno gratuiti, dal sedicesimo gli ospiti saranno costretti a pagare l'”obolo”.
«Serve per responsabilizzarli» - dice Saccardi - «sono troppi i senza casa non residenti a Firenze: che si rivolgano ai propri Comuni». Insomma: dai tempi dell'ordinanza anti-lavavetri dell'ex assessore Cioni sembra essere cambiato davvero poco. Ad essere cambiato è il modo in cui viene presentata l'iniziativa: se ai tempi delle ordinanze anti-lavavetri ed anti-accattonaggio si era nel pieno della corsa “a chi fa meglio lo sceriffo”, la giunta Renzi sostiene l'aspetto pedagogico di quella che appare come una vera e propria tassa sui senza dimora: «si tratta di un pagamento simbolico» - continua l'assessore della giunta Renzi - «con cui l'Amministrazione non copre assolutamente le spese del servizio. Rappresenta piuttosto una forma di responsabilizzazione delle persone che utilizzano le strutture: vorremmo che capissero che questi servizi hanno un costo per la collettività».

Stando ai dati dell'Osservatorio della Società della Salute del 2009 gli abitanti della città di Firenze sono 365.000, di cui 10.000 galleggiano sulla soglia di povertà ed altri 5.000 vivono in situazione di povertà assoluta. Oggi, con l'incidenza della crisi mondiale la situazione è anche peggiore.
Sono dunque molto spesso cause esterne (problemi familiari, difficoltà nel trovare lavoro, la stessa crisi economica) che causano il fenomeno dell'”homelessness”, entrato a partire dal 2005 anche tra le priorità dell'agenda dell'Unione Europea, che ha chiesto agli stati membri di sviluppare strategie di integrazione sociale per fronteggiare l'emergenza. Questo ci porta a due considerazioni: l'idea del senza dimora “per scelta”, per quanto possa apparire “romantica”, è un'idea derivante da stereotipo e – seconda considerazione – bisognerebbe chiedersi se la proposta della giunta fiorentina ricada nella fattispecie della solidarietà.

Italia-Libia-Egitto: il triangolo dove spariscono gli “illegali”

El Hassnah (Deserto del Sinai) - «Ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro, ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: fargli la guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo. [...] L’esperienza di tanti anni trascorsi in mezzo agli altri di paesi lontani mi insegna che la benevolenza nei loro confronti è l’unico atteggiamento capace di far vibrare la corda dell’umanità».

Se fosse ancora vivo, probabilmente oggi Ryszard Kapuściński dovrebbe rivedere questo passaggio del suo meraviglioso libro “L'Altro”, inserendo una quarta possibilità: l'indifferenza totale, come quella che da circa un mese nasconde uno dei più gravi casi di violazione dei diritti umani che sta avvenendo a pochi passi da casa nostra, al confine tra Egitto ed Israele, dove un gruppo di beduini tiene in ostaggio circa 250 persone tra sudanesi, somali, nigeriani, etiopi ed eritrei la cui unica caratteristica comune è quella di essere profughi. Chi - come i sudanesi - scappa da una guerra e chi, semplicemente, scappa da situazioni di povertà estrema, ma tutti accomunati dal sogno di arrivare in quella terra promessa che risponde a nomi come “Libertà”, “Pace” e “Democrazia”.
Un sogno che – come ci ha magistralmente raccontato Fabrizio Gatti in “Bilal” (libro che dovrebbe essere inserito in tutti i programmi d'istruzione del mondo) – spesso si trasforma in incubo, come quello che dagli inizi di novembre stanno vivendo 80 eritrei – tra cui bambini e donne incinte – incappati nella doppia tagliola del traffico di esseri umani e degli accordi internazionali che trasformano migranti, richiedenti asilo e profughi in “illegali”.

Duemila euro. È questo il prezzo della libertà. È questa, infatti, la somma richiesta dai beduini per traghettare i 250 migranti attraverso il golfo della Sirte, il Nilo e poi Suez, attraversando illegalmente il confine dell'Egitto dopo essere scampati alla giustizia libica. Libia, Egitto, Italia: è questo – oggi – il vero Triangolo delle Bermuda. È su queste rotte che spariscono i “clandestini per legge”, arrivati ai confini della Fortezza Italia voluta dal ministro Maroni e da Gianfranco Fini (a cui, però, va solo l'onere e l'onore di aver aggiornato una legge “di sinistra” come la Turco-Napolitano) e spediti immediatamente verso la Libia e l'Egitto, terre dalle quali difficilmente ne tornano indietro notizie.

Bocche cucite (e non è un modo di dire)

Le immagini che seguono sono decisamente forti. Perché ci raccontano ancora una volta quel che non vogliamo sentirci raccontare. Raccontano quello che non vogliamo vedere e che, per sentirci superiori abbiamo iniziato a definire, di volta in volta, "extracomunitari" o "clandestini" senza renderci conto - o rendendocene perfettamente conto, dipende dai punti di vista - di quanto questo imbarbarimento faccia male a loro, ai migranti rinchiusi nei Centri di Identificazione ed Espulsione per una legge idiota che solo questo stato poteva ideare, e faccia male a noi, che ogni giorno diventiamo sempre più miserevolmente xenofobi, ignoranti e vuoti.
Loro - i migranti - ogni giorno tentano il suicidio ingoiando tutto quello che possono, dai pezzi di vetro alle pile. Ma quel che hanno fatto in quattro al C.I.E. di Torino e poi altri cinque in quello di Gradisca d'Isonzo  è un passo ulteriore verso il baratro a cui la "civile" Italia si sta avvicinando:

Sono immagini che ci pongono di fronte alla "solita" domanda: tra esseri umani diventati "clandestini" con un tratto di penna ed i cittadini che continuano a credere nel berlusconismo come fonte di tutti i mali chi è il più criminale?

Se noi ci siamo autodefiniti dalla parte del "bene" allora chi tutela il male quando il bene si prepara ad ammazzare (o a cucire le bocche, come in questo caso...)?

Lettera ad un poliziotto che ieri era in piazza

Caro poliziotto che ieri eri in piazza,


Perché li difendi? Ti guardavo, ieri, e non riuscivo a capire.
Eri lì con il tuo bel casco lucido, il tuo scudo antisommossa, la tua divisa linda e pulita a difendere chi non si può difendere.
Perché ieri, mentre caricavi i cortei di chi "non era rimasto a casa a studiare" caricavi il futuro. Il nostro, il tuo e quello di questo Paese.


Se non te ne frega niente del nostro futuro pensate al tuo, a quello dei tuoi figli.
Perché stai negando un futuro decente ai tuoi figli? Perché gli impedisci di avere un futuro diverso - forse migliore - del tuo presente? Perché vuoi assicurargli un futuro da sottopagati, sfruttati, con contratti di collaborazione a pochi euro per anni ed anni? Perché vuoi negargli di diventare qualcuno attraverso lo studio?
Magari - chissà - tua figlia o tuo figlio avrebbero potuto vincere il Premio Nobel per aver trovato la cura a qualcosa di incurabile, o magari tua figlia o tuo figlio creerà una teoria economica che migliorerà il mondo. Ma questo non lo saprai se difendi chi è indifendibile. Non lo saprai mai se continui a stare dalla loro parte. Perché vuoi costringere altri figli di questo paese, figli di quel Sud usato come pattumiera nazionale in molti casi, a non avere altra alternativa che un lavoro per il cui accesso non vale alcun titolo di studio? Perché vuoi costringerli ad una nuova epoca di emigrazione? Così, come succedeva un secolo fa.
Io lo so come lavori: lo so che sei costretto a turni massacranti, che sei costretto - quando esci con l'auto di servizio - a metterci la benzina di tasca tua e che spesso non ti danno la divisa nuova perché il Governo ha tagliato i fondi e non ci sono soldi per comprarle.
Ma allora perché continui a difenderli?



Se neanche il futuro dei tuoi figli ti sta a cuore pensa a quello di questo paese. Perché questo paese lo ami, altrimenti non lo difenderesti per quello che è.
Davvero vuoi perpetrare questo sistema in cui, come cento anni fa, il futuro è deciso per nascita? Davvero vuoi continuare a difendere un sistema clientelare e corrotto come questo? Davvero lo consideri "il migliore dei paesi possibili"?


Se la tua risposta a queste domande è no, al prossimo corteo, ai prossimi scontri in piazza togliti il casco, getta a terra lo scudo antisommossa e vieni da quest'altra parte della barricata.
Se la tua risposta a queste domande è no, perché continui a difenderli?

Settimana Internazionale: Il caso Tareq Aziz (da Radio Radicale)



Torniamo ancora sul "caso" Tareq Aziz. Dalla trasmissione "Settimana Internazionale" di Radio Radicale...

"Oltre l'Apocalisse" - Come non farsi imprigionare dalla paura del nuovo (Capodarco di Fermo 26-28 novembre 2010)

XVII Seminario di formazione per giornalisti a partire dai temi del disagio e delle marginalità.


Dal disorientamento alla consapevolezza. Nell' edizione 2010 di Redattore Sociale prosegue, da un nuovo punto di vista, il dibattito sui temi più urgenti del giornalismo.
Le cose cambiano sempre più velocemente; la carta stampata è in declino; il futuro delle nuove e affascinanti piattaforme di contenuti è ancora incerto (e la sua lettu ...ra esclusiva di pochi addetti); i "produttori" di informazione sono sempre più frammentati. Eppure, basta tutto questo per lasciarsi sopraffare da un senso di apocalisse che sembra a volte paralizzante?
La paura del nuovo è connaturata alla natura umana e allo sviluppo di tutte le professioni. Ma essa non dovrebbe condizionare solo in negativo chi ha scelto proprio il mestiere di raccontarlo, il nuovo. I giornalisti dovrebbero anche usare questa paura, adattando ai cambiamenti delle forme di trasmissione gli scopi immutabili del proprio lavoro. E non, viceversa, lasciando che diventi più importante il mezzo rispetto al messaggio.
Esperienze interessanti degli ultimi tempi testimoniano che la "rivoluzione del web" può essere benefica e che le nuove tecnologie sono anche l'opportunità per un'informazione migliore, più completa e democratica. Purché non si continui a fruirne con la passività di oggi...
In questa prospettiva, si partirà dalle paure per parlare della loro costruzione e decostruzione. Nella sessione tematica si affronteranno tre grandi aspetti della struttura stessa della nostra società, spesso rappresentati in termini ansiogeni: l'invecchiamento e la tenuta dello stato sociale, le non più "adeguate" disuguaglianze di genere, la crescente difficoltà di capire gli adolescenti. Infine, dopo un approfondimento sul lavoro dei cronisti minacciati in Calabria, si rifletterà sulle caratteristiche del giornalismo nella post modernità. Per esempio, sul venir meno dei riferimenti della "grande narrazione" (ideologie, teorie dominanti, sintesi tramandate da generazioni) a vantaggio della ricerca personalizzata. E su come, nel nuovo scenario, si evolverà una delle funzioni essenziale del giornalismo, che è quella di dare un ordine al flusso indistinto delle notizie e delle idee.



Per maggiori info:
http://www.giornalisti.redattoresociale.it/le-edizioni-di-capodarco/2010.aspx

Anche Señor Babylon sarà presente, per tentare di capire come si possa fare giornalismo in Italia a prescindere dalle "beghe di corte" della politica "politicante". Per chi c'è (e può) ci vediamo là.

Come si diventa terroristi? La storia di Omar Hammami



Come si diventa terroristi? Quali sono i processi - psicologici e sociali in particolare - che portano un giovane americano come tanti a diventare uno dei leader di Harakat al Shabaab al-Mujahideen (o, più semplicemente, Al Shabaab), cioè una delle più accreditate sigle della "galassia" quaedista?
Christof Putzel di CurrentTv ci conduce in un viaggio tra Daphne, in Alabama e Mogadiscio, Somalia, per scoprire la storia di Omar Hammani, meglio noto come Abu Mansur Al-Amriki. Ma siamo davvero di fronte a "terrorismo"? O forse quella di Omar, alla base, è solo la volontà di un giovane di non accettare i valori della comunità nella quale è nato?

Graziato Tareq Aziz. Ma potrebbe non bastare...

Baghdad (Iraq) - Partiamo da un dato di fatto, ultimo in ordine di tempo: Jalal Talabani, attuale Presidente della Repubblica parlamentare dell'Iraq si è detto assolutamente contrario – da socialista – all'uccisione tramite impiccagione dell'ex numero due del regime baathista Tareq Aziz. Per cui, almeno per quanto riguarda la giustizia irachena, l'8 di picche (questa la carta assegnata all'ex vicepresidente nel famoso mazzo durante la prima fase dell'invasione) è salvo. Magra consolazione, però: Talabani si era espresso in termini simili anche per Saddam Hussein, e tutti sappiamo come è poi andata a finire. Questo dovrebbe farci capire il vero peso politico che l'attuale governo iracheno ricopre, e quanto concetti come “autodeterminazione” e “democrazia”, mere utopie nell'attuale Iraq, siano ancorati tutt'ora ai voleri di Washington. C'è poi un'altra particolarità nella vicenda di Tareq Aziz:

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questa è l'homepage che presentava qualche giorno fa il sito dell'Ong Amnesty International, organizzazione sulla cui obiettività ed imparzialità credo si possa difficilmente sindacare. O forse no? Nella versione italiana del sito (http://www.amnesty.it/index.html) compaiono aggiornamenti e azioni urgenti sul caso di Sakineh, la donna iraniana fino a poche settimane fa presente sulle prime pagine di tutti o quasi i nostri quotidiani così come sul caso di Asia Bibi, la donna che in Pakistan rischia la pena di morte per blasfemia o notizie sui detenuti nel braccio della morte americano. Dell'ex numero due dell'Iraq, però, non si trova traccia. Né in homepage né nella cronologia degli articoli presenti, e la cosa mi suona decisamente strana. Delle due l'una: o quelli dell'organizzazione – una volta letta la notizia della grazia – si sono prodigati nel cancellare qualsiasi riferimento a Tareq Aziz oppure non se ne sono occupati minimamente, cosa che porterebbe ad un'ovvia quanto fondamentale domanda: se i diritti umani sono universali, ed il diritto alla vita è il diritto umano per antonomasia (per cui diritto universale per antonomasia...) perché la vita di una donna iraniana – prendo sempre Sakineh come esempio perché giudico la vicenda archetipo della non-universalità con cui si tutelano i diritti umani nel mondo – viene salvata anche grazie ad una campagna mediatica che ha coinvolto tutto l'Occidente, mentre per Tareq Aziz vi è quasi un vuoto pneumatico nei media? Che forse la tutela dei diritti umani sia inversamente proporzionale alla quantità di vittime che il “salvato” ha fatto od al suo – eventuale – ruolo istituzionale?

Un bilancio in rosso per Obama

Una Casa Bianca ostaggio dei supporter del neoliberismo. Un passaggio tratto da "America, no we can't", il nuovo libro di Noam Chomsky in cui il padre della grammatica generativa e tra i pensatori più importanti del movimento altermondialista ci ricorda una cosa semplice ma che molto spesso ci dimentichiamo: che l'unico voto che davvero conta è quello dato nei Consigli di Amministrazione delle grandi multinazionali (come spesso dice Manu Chao...). L'articolo lo trovate anche a pag.11 dell'edizione odierna del quotidiano "Il Manifesto".

di Noam Chomsky

L'azione più importante di Barack Obama prima di assumere la carica è la scelta dello staff dirigente e dei consiglieri. La prima scelta è stata per la vice-presidenza: Joe Biden, uno dei sostenitori più tenaci dell'invasione in Iraq tra i senatori democratici, da lungo tempo addentro al mondo di Washington, che vota coerentemente come i compagni democratici - sebbene non sempre, come quando ha portato allegria negli istituti finanziari appoggiando un provvedimento per rendere più difficile agli individui cancellare i debiti dichiarando la propria condizione di insolvenza.
Il primo incarico post-elettorale è stata la nomina cruciale del capo di gabinetto: Rahm Emanuel, anch'egli uno dei più strenui sostenitori dell'invasione in Iraq tra i deputati democratici e, come Biden, buon conoscitore di Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale. Il Center for responsive politics riferisce che «è stato il massimo beneficiario, tra i rappresentanti, dei contributi per la campagna del 2008 provenienti da fondi a rischio, società private con capitale di rischio e le maggiori società finanziarie e di assicurazione». Da quando è stato eletto al Congresso nel 2002, «ha ricevuto più soldi da singoli e da comitati di sostegno elettorale nel mondo degli investimenti e delle assicurazioni che da altri settori dell'industria»; che sono anche quelli che hanno dato i contributi più consistenti ad Obama. Il suo compito era quello di controllare il modo in cui Obama affrontava la peggiore crisi finanziaria mai verificatasi dagli anni '30, per la quale i suoi finanziatori e quelli di Obama condividono ampie responsabilità.


La sinistra ai margini
In un'intervista di un editorialista del Wall Street Journal ad Emanuel fu chiesto che cosa avrebbe fatto la nuova amministrazione Obama riguardo alla «leadership democratica al Congresso, piena di baroni di sinistra con il loro proprio programma»; che contempla il taglio delle spese per la difesa e le «manovre per applicare esorbitanti tasse sull'energia per combattere il riscaldamento globale»;

Quanto costa un giudice? Più o meno un genocidio silenzioso...

Il carcere minorile di Wilkes-Barre (versione PA Child Care)
Wilkes-Barre (Contea di Luzerne, Pennsylvania) – In un vecchio pezzo – datato 1998 – il gruppo napoletano della 99 Posse si poneva un interrogativo di difficile soluzione: «Chi tutela il male quando il bene si preapara ad ammazzare?» e, aggiungo io, chi lo tutela questo bene si mette una toga addosso ed impersona la Giustizia?

Per rispondere a questa domanda andiamo a Wilkes-Barre, Pennsylvania, nel cuore degli Stati Uniti d'America, il paese che esporta democrazia nel mondo pur non avendone per il fabbisogno interno.

Nel 2008 scoppia uno scandalo – riportato alla luce in “Capitalism: a love story”, l'ultimo lavoro di Michael Moore – che viene presentato dai media con il nome di “Kid for cash”. In pratica succede questo: il signor Michael Conahan, che di professione fa il giudice, decide che il carcere minorile della Contea di Luzerne non va più bene. D'altronde, lavorando nella città con il più alto tasso di minori in carcere c'è anche da capirlo, lui un posto adeguato dove raffreddare i bollenti spiriti di imberbi delinquentelli dovrà pur averlo, no? E quando il posto che hai non ti basta più – naturalmente – devi costruire un altro carcere! Ci sarebbe anche la possibilità di rivedere la casistica dei reati, abrogando magari quelli “stupidi”, ma questo sarebbe un processo per paesi civili e democratici (che l'intero globo terrestre ancora deve conoscere...).
Ecco, appunto: la Democrazia. Espressione poetica e suggestiva, avrebbe detto il buon Giorgio Gaber. Se gli Stati Uniti fossero una Democrazia – e non una “finanziocrazia” come del resto il 99 per cento dei paesi nel mondo – tutto quello che sto per scrivere non sarebbe accaduto...

Non sarebbe accaduto, ad esempio, che il signor Robert Powell – proprietario della Pennsylvania (PA) Child Care - ottenesse un appalto per costruire un nuovo carcere minorile. Prezzo dell'edificio 8 milioni di euro, costo dell'affitto che la PA fa pagare alla Contea di Luzerne: 58 milioni di euro (e noi che ci lamentavamo di quattro peracottari nostrani...). Già semplicemente questo basterebbe per far agitare più d'uno. Ma si sa che quando gli americani si mettono in testa di combinare un disastro, o lo combinano alla perfezione o non lo combinano proprio, ed ecco che entrano in scena gli ultimi due personaggi di questa storia: uno, lo abbiamo già visto, è il giudice Michael Conahan, nato ad Hazleton, Pennsylvania, dal 1994 al 2008 giudice presso la Corte delle udienze comuni e dal gennaio 2008 presidente della corte della Contea di Luzerne.

Paco: la droga da discount

Buenos Aires (Argentina) – Viene chiamata “Paco” in Argentina, “Basuco” in Colombia, “Kete” in Perù. Una dose costa meno di un euro, ma se ne può trovare in dosi di minor quantità in vendita a 20 centesimi. Dal 2002, anno in cui ha fatto il suo ingresso nel mercato sudamericano – in particolar modo in quello argentino – ha di fatto soppiantato droghe ben più costose come la “sorella maggiore” cocaina, motivo per cui si è soliti definirla come “la droga dei poveri”. A queste cifre il volume d'affari per gli spacciatori, nella sola Argentina, si aggira intorno ai 270 milioni di euro annui.

Il paco, questo il nome più diffuso, è ottenuto dal processo di trasformazione del PBC (pasta base di cocaina) in cloridrato di cocaina (cioè la cocaina pura). Composto con elementi di scarto come acido cloridrico, ammoniaca e cherosene, viene tagliato con sostanze dall'altissimo grado di tossicità quali la polvere di vetro delle lampade alogene. A differenza della più famosa polvere bianca, però, ha una “potenza di fuoco” di 400 volte superiore.

È lo strumento principale con cui le grandi imprese del mercato della droga – che elaborano nelle stesse cucine in cui si prepara il Paco anche la cocaina che sbarcherà negli Stati Uniti ed in Europa – stanno aprendosi a nuovi mercati. È la riproposizione, in scala, di quel che avviene nel processo del capitalismo globale : ci si apre prima ai “grandi” mercati, quelli delle piazze più importanti e poi, quando ci si è fatti un volume d'affari (ed un nome) di tutto rispetto in questi luoghi si cerca fortuna in mercati minori – ancor meglio se sconosciuti – con un'offerta che, pur ricalcando quella principale, pone sui nuovi mercati prodotti “di serie b” o – come in questo caso – prodotti di scarto.

«Inizi con una dose» - dice Francisco, 19 anni - «l'effetto è fortissimo ma dura pochi secondi. Allora ne vuoi subito un'altra, e poi un'altra ancora e così via. Non esistono vie di mezzo: dal primo giorno diventi un “adicto”, un dipendente». Francisco è uno di quelli che ce l'ha fatta. Dopo mesi di cura a Casa Flores (il primo centro di recupero per dipendenti del Paco) le mani non tremano più e sono scomparse anche le bruciature sulle labbra - dovute al fatto che l'unico modo per assumere questa sostanza è fumarla attraverso delle pipe, spesso ricavate dagli strumenti più disparati quali tubi di metallo ed antenne tv – sono ormai un lontano ricordo.

Aung San Suu Kyi libera


Rangoon (Birmania), 13 novembre 2010.

Da Sakineh ad Omar Khadr: c'è un uso (geo)politico dietro le campagne per i diritti umani?

Nelle scorse settimane il mondo occidentale era pronto a mobilitarsi per Sakineh, la donna iraniana che – accusata di omicidio – sarebbe stata lapidata se non fosse intervenuta la c.d. “opinione pubblica internazionale”. Poi, come succede solitamente quando anche l'agenda setting dei diritti umani viene decisa in base a ragioni geopolitiche, la sua storia è caduta nel dimenticatoio...

Quella specifica situazione – che ha avuto un nuovo passaggio infinitamente meno “strillato” sui nostri media nei giorni scorsi – può avere due chiavi di lettura: quella di una donna che, accusata di omicidio, viene messa a morte secondo le leggi in vigore in Iran, oppure la si può leggere come l'ennesima vetrina utile per descrivere la teocrazia iraniana nella sua forma mefistofelica, operazione che si rende necessaria a livello geopolitico per creare nell'opinione pubblica occidentale (non ho modo di verificare se la stessa cosa avvenga anche nel resto del mondo...) le basi per un futuro attacco – più o meno celato – al regime degli ayatollah.
Da qui la domanda: non è questo, forse, un uso politico – e geo-politico – dei diritti umani? Quanti “casi-Sakineh” (o forse sarebbe meglio dire quanti “casi-Teresa Lewis”) ci sono quotidianamente? E di quanti di essi veniamo realmente informati?

Non ho intenzione di aprire il casellario di “nera” e citarvi quello che credo sarebbe un lungo elenco (anche perché quando nasci nel paese in cui la cronaca nera è usata come peep show con cui intrattenere il pubblico ne sviluppi una certa idiosincrasia...) . Per rispondere a queste domande, però, dobbiamo fare un salto all'indietro:

Afghanistan, 27 luglio 2002. Durante uno degli innumerevoli scontro tra le forze della Coalizione ed i taleban, avvenuto a seguito dell'omicidio di un soldato americano di nome Speers viene arrestato Omar Khadr, di anni 15. Omicidio, tentato omicidio, cospirazione, affiliazione terroristica e spionaggio sono i cinque capi di accusa che costano al giovane (sangue pakistano e cittadinanza canadese) il soggiorno presso il carcere di Guantánamo Bay, Cuba, dove ha trascorso gli ultimi sette anni della sua vita.

«Io ho l'obbligo di mostrare al mondo ciò che succede quaggiù. Sembra che quanto fatto finora non sia bastato, ma forse funzionerà se il mondo vedrà gli Usa condannare un bambino al carcere a vita. E se nessuno dovesse accorgersi di nulla, in quale mondo verrei rimesso in libertà? In un mondo fatto di odio e di discriminazione».

I nuovi padroni dell'Afghanistan, parte II: Gulbuddin Hekmatyar e Hizb-ul-Islami

«Bisogna fare la pace con i propri nemici, non con gli amici».
A dirlo è il generale David Petraeus, dal 23 giugno scorso uomo di fiducia di Barack Obama in Medio-Oriente, dove ha sostituito il generale Stanley Allen McChrystal, reo di aver rilasciato al magazine Rolling Stone una intervista molto critica verso l'amministrazione dell'attuale inquilino della Casa Bianca.

Suona un po' come il vecchio detto “se non puoi batterli unisciti a loro”, ed è quello che sembra stia accadendo in Afghanistan dove – dopo 9 anni di una guerra lanciata all'insegna della caccia al taleban – tra poco tempo quegli stessi uomini una volta inseriti nella “black list” andranno a formare il governo della probabile era post-Karzai o, quanto meno, ne andranno a rinsaldare i pilastri.
Abbiamo già parlato dell'influenza del clan Haqqani (qui il post: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/10/i-nuovi-padroni-dellafghanistan-il-clan.html), la cui importanza potrebbe rivelarsi utile – visti gli stretti rapporti con Al Quaeda – anche in un futuro conflitto con il Pakistan. Ma questa, per ora, è fanta-geopolitica.

Attenendoci invece alla realtà, un altro dei personaggi che quasi sicuramente andranno a far parte del nuovo esecutivo – vista anche la sua sovraesposizione mediatica – è una vecchia conoscenza dello zio Sam. Un amico molto speciale potremmo quasi affermare, visto che ai tempi della guerra anti-sovietica è stato il principale destinatario degli aiuti americani alle milizie afghane, aiuti che passavano proprio da quel Pakistan che sempre più diventa “croce e delizia” per l'amministrazione di Washington. Il nome di questo signore della guerra è Gulbuddin Hekmatyar.

  • Chi è Gulbuddin Hekmatyar

Pashtun, nato nel 1947 a Kunduz (Afghanistan del Nord, capitale della provincia omonima) da una ricca famiglia di proprietari terrieri, già ai tempi dell'università di ingegneria di Kabul si fa notare per il suo radicalismo: non è difficile sentirlo minacciare di raschiare via il rossetto dalle labbra delle studentesse con la carta vetrata o decantare altre “gentilezze” simili. Negli anni '70 diventa uno degli uomini di spicco del partito islamico moderato Jamiat-i-Islami (il partito più vecchio dell'Afghanistan il cui nome significa “Società Islamica”), a quel tempo capeggiato dall'ex presidente (il primo dell'Afghanistan post-comunista) Burhanuddin Rabbani e dove spicca il principale nemico interno di Hekmatyar, quell'Ahmad Shāh Massūd conosciuto come il “Leone del Panjshir” divenuto l'”eroe per antonomasia” del popolo afghano.

La mia umanità e l'amore per la razza umana aveva superato tutto quello che mi avevano insegnato


Ethan McCord è un ex membro della compagnia Bravo 2-16, la fanteria coinvolta nell'infame "collateral murder", video rilasciato da Wikileaks nell'Aprile di quest'anno. Padre di due figli e discendente di una famiglia militare ha sognato la carriera in uniforme fin da bambino, arruolandosi "da bravo cittadino americano" all'indomani degli attacchi dell'11 Settembre 2001. Nel 2002 viene inviato in Iraq, dal quale è tornato - lui come tanti - affetto dal c.d. "disordine da stress post-traumatico", un malessere che affligge moltissimi militari che tornano dal fronte.
Quello che segue è il racconto della "sua" guerra, quella lontana dai riflettori e dalle conferenze stampa dei grandi generali di Washington.


Feci, urine, sangue, fumo ed altre cose indescrivibili. Di Ethan McCord (dal blog di Michael Moore)

L'odore era peggiore di qualunque altro odore avessi sentito prima, un misto di feci, urine, sangue, fumo ed altre cose indescrivibili.
Quel giorno era iniziato come molti altri giorni in Iraq. Ci eravamo alzati intorno alle 2:30 per prepararci per la missione, una delle tante che sembravano inutili. Il comandante del nostro battaglione le chiamava "controllo del ranger", ma molti dei soldati come me le soprannominavano "l'idiozia del ranger". Queste missioni consistevano in due battaglioni che camminavano per Baghdad nuova senza essere protetti contro cecchini e IED. Le temevamo e disprezzavamo il comandante del nostro battaglione per questo.

Quella mattina ci siamo riuniti al cancello del FOB (Forward Operating Base) Rustamiyah preparandoci per la nostra "marcia della morte" nella città. Erano circa le 4:00 quando abbiamo sentito le sirene. BOOM la prima non molto lontano da dove eravamo. BOOM questa un po' più vicina. Eravamo abituati a questo, e nonostante avessimo paura, sapevamo che se ci fossimo messi a correre per ripararci saremmo apparsi come dei vigliacchi agli occhi di alcuni dei nostri sottufficiali. Quindi la maggioranza di noi rimase lì, pregando che un colpo di mortaio non atterrasse proprio su di noi. La bravata di cercare di mantenere lo sguardo fisso era ciò per cui vivevamo. Eravamo il 1° fanteria, il vanto dell'esercito, il figlio prediletto. Noi siamo la Rangers 2-16. Ci vantavamo di essere più duri di chiunque altro! Ma guardando negli occhi di questi ragazzi di 18-19 anni potevi vedere la paura, l'insicurezza. Finalmente i mortai si fermarono.

«Sanno che stiamo arrivando!» disse uno della mia squadra. Tentai di tranquillizzarlo che non sapevano che stavamo arrivando, era solo una coincidenza, sebbene neanch'io ci credessi tanto. Iniziammo la nostra marcia nelle prime ore del mattino, non c'era quasi nessuno in strada. Tutto era tranquillo, quasi sereno, potevi rimanere fermo nel silenzio se non avevi paura di rimanere colpito alla gola o in una coscia da un cecchino. I cecchini solitamente vengono da queste parti perché siamo senza protezione. Colpiscono la gola per ovvie ragioni, e la coscia per la tua arteria femorale. Molti di noi solitamente camminavano con il calcio dei nostri M-4 vicino al collo nell'inutile tentativo di proteggerci.

La nostra missione quel giorno era recintare un area della nuova Baghdad ed eseguire quello che viene chiamato "bussa e cerca" che fondamentalmente consiste nel bussare alle porte, dicendo che stiamo cercando materiali relativi alla milizia, armi o materiale per fare le bombe.

I colloqui di pace in Afghanistan possono avere successo? Intervista con Gulbuddin Hekmatyar

In una rara intervista concessa per e-mail, il signore della guerra afghano Gulbuddin Hekmatyar – capo del più debole dei tre principali gruppi insurgenti ed il primo ad impegnarsi nei colloqui di pace con Kabul – definisce il suo piano per fermare i combattimenti.

Di Anand Gopal per “The Christian Science Monitor

Il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar
[foto Caren Firouz/Reuters]
Gulbuddin Hekmatyar, veterano tra i signori della guerra afghani e capo dell'unico tra i tre gruppi insurgenti principali a partecipare direttamente ai negoziati con il governo. Il suo gruppo, Hizb-ul-Islami ("Partito Islamico", ndt), controlla larghe parti delle regioni nord ed est ed a marzo ha consegnato a Kabul una proposta di pace in 15 punti.
Ma ogni accordo con Hizb-ul-Islami rimane lontano, a causa di disaccordi sul quando le truppe straniere dovrebbero andarsene e sul quando procedere a nuove elezioni. E non è chiaro se i talebani seguiranno l'esempio del gruppo.

Mr. Hekmatyar, presumibilmente nascosto in Pakistan, discute dei negoziati di pace con il Monitor in una rara intervista e-mail. Questi sono alcuni estratti dall'intervista.

«In marzo una delegazione dei suoi uomini è andata a Kabul per esplorare la possibilità di iniziare i negoziati di pace. Perché il suo gruppo ha deciso di dialogare proprio adesso?»

«Abbiamo iniziato i nostri sforzi per la pace subito dopo che il Presidente Obama ed altri leader occidentali hanno parlato per la prima volta della possibilità di ritirarare le proprie truppo dall'Afghanistan. Hanno detto che il caos in Afghanistan non ha una risoluzione militare, che non possono sconfiggere gli oppositori combattendo.
Abbiamo presentato la nostra proposta adesso perché con il ritiro delle truppe non vogliamo che si ripeta quello che successe dopo il ritiro delle truppe sovietiche (la guerra civile). Noi vogliamo arrivare ad un accordo di pace duraturo».

«Il ritiro delle truppe è l'unico modo per fermare i combattimenti?»

«La presenza delle truppe straniere è la ragione fondamentale per la quale continuiamo a combattere. Le truppe straniere devono lasciare l'Afghanistan. Inoltre l'interferenza dei nostri vicini e delle altre potenze deve finire, perché la loro competizione è la causa di questo caos.»

«Quale ruolo vede per se stesso nel governo post-americano?»

«Al momento voglio solo la libertà per il mio paese. Non penso ad altro. Non voglio niente per me stesso, on abbiamo chiesto niente neanche per Hizb-ul-Islami.
Vogliamo che gli afghani scelgano la posizione di ogni partito e persona. E non devono chiedere aiuto agli stranieri per questo.»

I nuovi padroni dell'Afghanistan: il clan Haqqani

Ormai è ufficiale: per uscire dall'impasse la Coalizione dei paesi che 9 anni fa volevano “democratizzare” l'Afghanistan sarà costretta ad attuare quello che da noi si chiamerebbe “rimpasto” del governo-fantoccio di Hamid Karzai riempiendolo di Taleban, proprio coloro contro i quali fu scatenata la guerra che attualmente sta diventando il nuovo incubo per l'amministrazione di Washington. Tralasciando la fatidica quanto scontata domanda sul cosa ci stiamo a fare a questo punto in Afghanistan se coloro che dovremmo combattere stanno diventando in realtà nostri alleati (corsi e ricorsi storici...), c'è un'altra domanda – forse più interessante – da porsi: chi sono i (futuri) nuovi padroni dell'Afghanistan?

Innanzitutto dobbiamo fare un po' di chiarezza, perché con il termine “taleban” - o “talebano” se vogliamo leggerla all'italiana – che altro non sarebbe che il plurale del termine “talib” cioè “studente” indichiamo erroneamente tutto il fronte degli insorti, che invece si compone di ben sette gruppi:

  • i Taleban “propriamente detti” della zona di Kandahar che rappresentano il gruppo più ampio e meglio organizzato;
  • il clan degli Haqqani;
  • il clan Mansur;
  • il fronte di Tora-Bora;
  • il gruppo di Gulbuddin Hekmatyar, noto come Hezb-e-Islami (cioè “Partito Islamico”) che ha influenza su tutto l'Afghanistan;
  • piccoli gruppi salafiti nell'Afghanistan orientale
  • il fronte dei mujāhidīn.

I primi quattro compongono il cosiddetto “Movimento Talebano”, che si rifà all'autorità del mullah Mohammed Omar ed il cui scopo è quello di restaurare l'Emirato Islamico d'Afghanistan, cioè la forma di governo precedente agli attacchi del 2001 ed al governo Karzai accusato – a ragione – di aver affidato il paese ai potentissimi signori della guerra, sconfitti proprio dagli studenti delle madrasse prima dell'avvento della “Guerra al Terrore”, di George W. Bush e di tutto quello che abbiamo potuto leggere in questi anni.

Per parlare del futuro governo afghano possiamo seguire due strade: quella del mullah Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore taleban ad Islamabad e detenuto a Guantánamo Bay fino al 2005, secondo il quale nessuno degli uomini chiave che si rifanno al mullah Omar è stato chiamato per ora in causa («Non escludo che qualche militante secondario abbia aperto un qualche dialogo con gli Usa ed il governo Karzai. Nego però che siano cominciati seri negoziati con i veri alti dirigenti che fanno capo al mullah Omar a Quetta» ha detto durante un'intervista riportata dal Corriere della Sera) e dunque dare alla notizia la poca importanza che meriterebbe, oppure possiamo intraprendere la strada che sembra stiano seguendo un po' tutti i media mondiali per la quale da qualche settimana ben quattro degli esponenti chiave dei Taleban (non certo il mullah Omar, che sembra ormai vivere di luce riflessa dal suo passato e da più parti definito come “marionetta” dei pakistani) sono stati trasportati in una località segreta nei pressi di Kabul per iniziare i colloqui di pace.

Inside the Taliban


"Inside the Taliban" è un documentario del 2007 trasmesso da National Geographic (e riproposto in italiano da Current Tv, versione che però sembra non esistere in rete se non per il trailer) scritto da Aaron Bowden e Terrence Henry e diretto da David Keane nel quale si racconta "l'ascesa, la caduta e la risalita" dei Taleban, dall'"amicizia" con gli americani negli anni della Guerra Fredda fino ai loro rapporti con Osama Bin Laden. È probabilmente uno dei pochi documentari utili per capire perché quello che veniva considerato dagli americani il "nemico pubblico numero 1", cioè il Mullah Mohammad Omar è ancora uno dei leader più ascoltati dagli afghani e per capire, principalmente, chi sono e cosa vogliono i combattenti che da 9 anni stanno sconfiggendo gli americani (dopo aver fatto la stessa cosa con britannici e russi).

La geopolitica del gas


In una delle più famose frasi attribuitegli, Albert Einstein sostiene di non sapere con cosa sarà combattuta la Terza Guerra Mondiale, ma di essere sicuro che la quarta si combatterà con bastoni e pietre.
Sarebbe stato interessante anche sapere se fosse a conoscenza dei motivi per cui le guerre future verranno combattute.
Escludendo i “fattori umanitari”, spesso usati come paravento di ben altre – e decisamente meno nobili – motivazioni, sicuramente le guerre future verranno combattute per il controllo delle risorse energetiche. I prodromi per il futuro conflitto per il controllo di gas e petrolio – cioè le nuove chiavi di volta della geopolitica internazionale e dei suoi equilibri – sono già evidenti.
  • Eni: il cane con le zampe in pasta ovunque.

È il 1953, siamo nell'Italia che tenta di ricostruire se stessa dopo il secondo conflitto mondiale. La parola chiave dell'allora governo De Gasperi VII è una sola: liquidare i vecchi carrozzoni che costano e non danno rendimenti, prima tra tutte l'AGIP, l'Azienda Generale Italiana Petroli, istituita per regio decreto nel 1926 per lo svolgimento d'ogni attività relativa all'industria e al commercio dei prodotti petroliferi. Ad occuparsi della pratica viene chiamato l'imprenditore marchigiano, partigiano e - dal 1948 al 1953 - parlamentare in quota Democrazia Cristiana Enrico Mattei, che non solo non seguì le direttive governative, ma addirittura riuscì a portare il neo-nato Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) a sfidare le grandi multinazionali petrolifere (le c.d. “7 sorelle”) sfruttando un atteggiamento politico per certi versi post-ideologico che permise a Mattei in patria di non avere un referente fisso nell'emiciclo parlamentare – è rimasta celebre la sua concezione dei partiti politici come taxi “sui quali salire, farsi portare a destinazione, pagare la corsa e scendere”- ed a livello internazionale di diventare sempre più interlocutore favorito per quei paesi che, uscenti dall'esperienza colonialista, stavano creandosi il proprio spazio nello scacchiere globale.

Di tempo dal “metodo Mattei” e dall'attentato che ne uccise l'ideatore mentre con il suo velivolo era in volo sui cieli di Bascapè (Pavia) il 27 ottobre 1962 ne è passato tantissimo, così come la natura stessa dell'ENI non è più quella con la quale Mattei l'aveva pensata. Divenuta ormai una delle principali compagnie mondiali, tanto da poter interloquire alla pari con colossi del calibro di Exxon, Royal Dutch Shell e Chevron, si distingue per un ancor più accentuato menefreghismo delle regole e delle leggi nei paesi ove si trova ad operare.

Sconfiggere il terrorismo. (da Current Tv)


Tra il 1983 ed il 2009 nello Sri Lanka si è combattuta una tra le guerre più ignorate dall'intero circuito mediatico mondiale tra la maggioranza etnica cingalese (di religione buddhista) e quella tamil (di religione induista) il cui Fronte di Liberazione - le c.d. Tigri Tamil - è considerato il gruppo terroristico che ha dato origine al terrorismo moderno e fonte di ispirazione per i gruppi terroristici moderni. Allo stesso tempo, però, migliaia di morti e desaparecidos (tra combattenti, popolazione civile e giornalisti) si sono registrati tra le fila tamil. Sono stati davvero loro i terroristi?

I vuoti di memoria di Piero Fassino

«Un esercito in missione di pace è un esercito che spara per secondo».
[Piero Fassino, esponente di spicco del Partito Democratico].

È semplicemente geniale. Un'affermazione del genere ammetto che non me l'aspettavo neanche da quelli di estrema destra. Deve essere per questo che – in bocca a chi si spaccia ancora per uno “di sinistra” - la trovo decisamente imbarazzante. Ma facciamo un passo indietro e ricapitoliamo le puntate precedenti:

Piero Fassino – ex Partito Comunista e tutto il resto – qualche tempo fa aveva fatto trasalire chi ancora ha problemi ad accostare termini come “sinistra” e “centro” ammettendo che [citazione testuale]: «Ve lo dico con franchezza, qualche volta il leghismo nel mio cuore prorompe». E già lì, come direbbe il buon Gaber, ci sarebbe da incazzarsi, perché uno dice: ci ha preso per il culo fino adesso!

Non contento di aver informato l'elettorato che se reintroducessero il voto di preferenza votare per lui potrebbe voler dire votare Lega, nei giorni scorsi il nostro ha aggiunto un'altra piccola perla al bestiario (quella in apertura di post).
La puntata di ieri di “In ½ ora” che – ahimè – ho avuto l'ardore di guardare, si è rivelata interessante per due motivi: il primo è che dopo 9 anni dallo scoppio del conflitto afghano il nostro Ministro della Difesa ci ha finalmente fatto capire che parlare di “peace-keeping”, “missioni di pace” e tutto il corollario oltre che ipocrita è anche sbagliato: noi siamo in Afghanistan per fare la guerra, ed è in quest'ottica che va letta la sua richiesta al Parlamento di armare – o meno – i nostri caccia con le bombe. Più volte durante il programma di Lucia Annunziata il ministro ha sottolineato il fatto che adesso non se la sente più di prendere decisioni da solo, ed ha perfettamente ragione: perché devono grondare sangue solo le sue mani quando possono farlo quelle di tutti i parlamentari? Perché è questo quello che verrà chiesto a deputati e senatori: fare più vittime a suon di bombe. E chisenefrega se per ogni taleban ucciso ci rimarranno sotto anche 3-4 civili: basterà prendere qualche kalashnikov precedentemente sequestrato, metterlo accanto ai corpi delle vittime civili ed in un attimo otterremo anche noi la nostra “strage” di taleban così come in uso all'Isaf [“La fabbrica dei talebani” - PeaceReporter 20/09/2006, articolo presente nei documenti alla fine del post].

Il secondo motivo, ovviamente, sono state le esternazioni di Fassino, che ancora racconta la storiellina delle “missioni di pace”. Non contento, peraltro, in un'intervista concessa a Daniela Preziosi su Il Manifesto di ieri si prodigava nel richiedere la creazione di un “monumento ai caduti”.

War on (T)Errorism: la guerra in Iraq e l'esilio vietato a Saddam Hussein

[http://www.youtube.com/watch?v=KwfDHXT7RBM per chi non riuscisse a visualizzare il video]

Baghdad (Iraq) - È il 30 dicembre 2006. Il leader iracheno Saddām Husayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī viene giustiziato per impiccagione dalle forze alleate che ormai da tre anni gli danno la caccia.

Con quell'impiccagione il mondo vedeva uno dei suoi peggiori incubi – il regime iracheno e le armi di distruzione di massa in suo possesso – definitivamente concluso. Il cittadino medio poteva finalmente tornare a dormire sonni tranquilli perché, come nelle migliori produzioni hollywoodiane, il bene aveva trionfato di nuovo. O forse no?

Siamo ai primi di febbraio del 2003: Colin Powell – allora Segretario di Stato del primo governo di George W. Bush – presenta in sede ONU le incontrovertibili prove in possesso degli americani che testimoniavano non solo le innumerevoli violazioni della risoluzione 1441 [http://www.un.org/News/Press/docs/2002/SC7564.doc.htm] ma anche la presenza delle armi di distruzione di massa che, si diceva, in breve periodo il leader iracheno avrebbe di certo venduto ad Al Quaeda, con la quale certe erano le connivenze.

«Saddam ha scorte per armare almeno 16.000 testate con agenti chimici o biologici. L'iraq ha già testato le armi chimiche sulle persone utilizzando dei condannati a morte come cavie e non ha giustificato neanche un cucchiaio dell'antrace che ha prodotto» disse Powell durante la sua “deposizione”. Già, l'antrace. In quel periodo c'era una vera e propria psicosi (ovviamente ben alimentata dal sistema mediatico mainstream) ed ogni giorno si potevano leggere notizie di casi in cui anonime buste da lettere erano riempite con questa strana polverina dall'altrettanto anonimo – almeno in termini mediatici – passato. «Ogni mia affermazione è suffragata da prove», ebbe anche l'ardore di dire il Segretario di Stato prima che – dovrà comunque passare qualche anno – il mondo si accorgesse che tutto quello che dall'11 Settembre 2001 fino a quella data era stato “trovato” in merito ai rapporti Iraq-Al Quaeda era una bufala, costruita ad arte con l'unico scopo di togliere di mezzo il leader iracheno. Di lì ad un mese – con l'appoggio di un'opinione pubblica messa all'angolo dalla “Strategia della tensionea stelle e strisce – sarebbe partito il conflitto iracheno che portò alla deposizione di Saddam Hussein, ma che di armi di distruzione di massa non ne trovò neanche mezza! D'altronde Hans Blix e Mohamed El Baradei, allora responsabili del programma di ispezione dell'ONU per accertare la presenza di tali ordigni erano stati più che chiari: l'Iraq, almeno sotto questo aspetto, era pulito.

One weapon per child


«La pratica del mondo sportivo militare, veicolata all'interno delle scuole, oltre ad innescare e ad instaurare negli studenti la “conoscenza e l'apprendimento” della legalità, della Costituzione, delle istituzioni e dei principi del diritto internazionale, permette di evidenziare, nel percorso educativo, l'importanza del benessere personale e della collettività attraverso il contrasto al “bullismo” grazie al lavoro di squadra che determina l'aumento dell'autostima individuale ed il senso di appartenenza ad un gruppo».


Quando un paio di mattine fa ho letto questa frase pensavo fosse uno scherzo. Sapevo che il premier ieri doveva presentarsi in Parlamento e dunque credevo che fosse un passaggio delle tante barzellette che avrebbe raccontato in quella sede.
Ho avuto qualche sentore che ci fosse poco da ridere quando ho letto che l'idea era del duo Gelmini-La Russa. In realtà parlare di “idea originale” del duo forse è eccessivo, visto che – come sostiene il dott. Giuseppe Colosio, direttore scolastico per la Lombardia in un'intervista a PeaceReporter – questa della militarizzazione delle scolaresche è un'attività diffusa nel nord Europa ed in particolare in Gran Bretagna (almeno la Ministra della (D)Istruzione questa volta non si è limitata a Wikipedia come nel caso dell'opuscolo per il 150° dell'Unità d'Italia [http://informarexresistere.fr/la-gelmini-copia-da-wikipedia-l%E2%80%99opuscolo-per-le-scuole]) e, udite udite, quello che sta(rebbe) per iniziare è il quarto anno di sperimentazione. Il progetto “Allenati per la vita” così come è stato presentato è infatti idea risalente al settembre 2007, anche se nel 2005 era già in fase di sperimentazione in quel di Brescia. Poi uno dice che pensa male...
Dopo l'introduzione della mini-naja, questo corso – per adesso attivato nella sola Lombardia – va ad inserirsi nelle politiche governative per i giovani, che prevedono alla fine della legislatura la trasformazione dei giovani in un branco di pecore ammaestrate. Però con la divisa addosso!

In cosa consiste questo corso è presto detto. Innanzitutto iniziamo dalle cifre: 120 volontari dell'Unione Ufficiali in Congedo avranno il compito di educare (o ri-educare?) gli studenti alla cultura militare con corsi sia teorici che pratici, tra i quali da segnalare sicuramente sono i corsi “sopravvivenza in ambienti ostili” (anticipazione del futuro da precari sottopagati nel quale tutti sembra dovremo passare...), “difesa nucleare, batteriologica e chimica” (perché tutti sappiamo che questo paese quotidianamente subisce attacchi di questo tipo) e “insegnamento all'arma” con archi, frecce e pistole ad aria compressa.

Munnezza in emergenza e profitti al sicuro.


[qui: http://vimeo.com/6000381 per chi avesse difficoltà nella visualizzazione]

Chiaiano (Napoli) - 'A munnezz è turnata. O forse sarebbe meglio dire che non se n'è mai andata. Chi se n'è andato, invece, è quel signore che un paio di giorni fa in quel di Cesena ha organizzato un mega-concerto “verde”, nel quale – stando a quanto sostenuto dal palco – persino i pensieri erano solo ed esclusivamente di natura ecologica. Date un'occhiata qui:

[qui per chi non riuscisse a visualizzare il video: http://www.youtube.com/watch?v=a20Ptc0KEqo].

Questo video – stando allo staff di Grillo – è datato febbraio 2009. Di acqua sotto i ponti ne è passata un po' dunque. Durante la due giorni cesenate i tumulti che arrivavano dalla Campania si iniziavano già a sentire, ma che io sappia – ho cercato di seguire il “Woodstock” quasi per intero – nonostante l'impronta ecologica non una parola è stata spesa su questa vicenda. Ora: d'accordo che l'imprimatur che il nostro vuol dare al suo partito (checché lo chiami movimento) è di tipo apolitico – da qui lo slogan “né destra, né sinistra ma sopra” - dunque non c'era da aspettarsi niente di veramente militante nell'una o nell'altra direzione, ma almeno un accenno – non so, magari qualche minuti dedicato all'intervento di chi in queste ore sta prendendo le manganellate – credo non sarebbe stata poi cosa sgradita, considerando anche l'intervento dei familiari di Federico Aldrovandi (e per il quale va un applauso a Grillo ed agli organizzatori...).

Perché nonostante il nostro si sia dimenticato di quella promessa fatta durante l'intervento ripreso nel video («tornerò e faremo ancora più casino»)la gente di Chiaiano, di Marano, di Terzigno non si è mai dimenticata di scendere in strada a protestare, nonostante la repressione di Stato stia diventando sempre più feroce, come è ben visibile in questo video: http://www.youtube.com/watch?v=bedvtRoqurw. Ma si sa che i c.d. leader – veri o presunti, acclamati dal popolo od auto-proclamatisi tali – conoscono il solo verbo della propaganda, per cui è meglio parlare di qualcosa di più serio. Innanzitutto il video che trovate in apertura di post, dal titolo “Una montagna di balle”. È il lavoro, anzi il lavoraccio – visti tempi e tema trattato – di un gruppo di videomakers (e la partecipazione speciale di Ascanio Celestini come voce narrante e di Marco Messina della 99 Posse alle musiche) che dal 2003 al 2009 ha documentato la lunga formazione di quella che poi ci è stata venduta – dalle forze politiche in combutta con l'apparato mediatico mainstream – come “emergenza”. Già, perché nel “caso munnezza napoletana” di tutto si può parlare tranne che di “emergenza”, a meno che non ci sia qualche imbroglio semantico in corso di cui non mi sono accorto. «Circostanza o eventualità imprevista» recita il mio buon Zingarelli nell'edizione 2007.

Il nuovo ordinamento dell'università italiana

[qui: http://www.youtube.com/watch?v=EHZTtYvRXhw per chi avesse difficoltà nel visualizzare il video]

Prima di entrare nel vivo dell'articolo devo segnalare un'iniziativa: “La Notte dei Ricercatori 2010”, un appuntamento promosso dalla Commissione Europea. «Una notte bianca per proporre le storie di chi lavora giorno per giorno nei laboratori e centri di ricerca con competenza e passione. Una notte per presidiare uno dei temi strategici per la crescita culturale ed economica del nostro Paese. Una notte aspettando una nuova alba per la ricerca in italia», come recita il promo. Un evento che si terrà a Bologna, dove Via Zamboni, Piazza Scaravilli, Palazzo Poggi e Piazza Verdi, dalle 18 alle 23, saranno invase alla grande festa della ricerca [qui il dettaglio degli eventi: http://www.nottericercatori.it/2010/bologna/]. A questa iniziativa parteciperanno personaggi come Riccardo Iacona e Piero Angela, con talk-show condotto da Piazza Verdi da Enrico Bertolino. Sarà anche proposta un'intervista a Claudio Zarcone, padre del dottorando che si è suicidato a Parlermo lo scorso 13 settembre.
Dalle ore 18 partirà un pre-evento sul circuito delle web-radio universitarie che andrà poi a sfociare nella vera e propria diretta “a rete unificata” che potrà essere seguita – da chi non può essere a Bologna – collegandosi ai siti AltraTv.tv [http://www.altratv.tv/] e Rita101 [http://www.rita101.tv/] con irradioazione anche da parte delle web-tv del Corriere della Sera, Il fatto quotidiano, L'Unità, RaiNews24 ed altri media che si stanno aggiungendo col passare del tempo.

Detto questo, invitando nuovamente chi può ad andarci, partiamo con l'articolo.
Partiamo da una questione che chi – come lo scrivente – si trova in quel “magico e tragico” mondo noto come Università Italiana sta imparando a conoscere molto bene in questi giorni di inizio (parolone...) delle lezioni.
Il nome tecnico sarebbe Disegno di Legge (ddl) 1905, ed è la proposta con cui il Ministro della (d)Istruzione Pubblica Mariastella Gelmini di fatto sta revisionando la struttura portante del sistema universitario italiano mettendo sul patibolo – letteralmente – i ricercatori, spesso il vero punto di forza della didattica degli atenei.
Per prima cosa però voglio analizzare in breve l'unico aspetto positivo – anche qui siamo al livello dei paroloni – che trovo in questa proposta di legge: quella cioè di riportare in superficie il dibattito su una medio-piccola mafia con cui il mondo universitario fa i conti ormai da anni, e cioè il fatto che ai ricercatori – oltre alle mansioni per le quali sono qualificati, cioè fare ricerca – da anni viene anche demandato l'obbligo all'insegnamento in maniera totalmente gratuita (viene fatto passare addirittura come “volontariato”).

La scuola stuprata (dagli sponsor)

Grande scalpore sta suscitando in questi giorni la scuola formato Lega Nord ideata da Danilo Oscar Lanciani sindaco di Adro (Brescia) che ha – come scriveva Liberazione ieri – infettato il  polo scolastico con simboli leghisti. Come fanno notare i compagni di Militant sarebbe forse il caso di scandalizzarsi ancor di più nello scoprire a chi il polo è stato dedicato: tal Miglio Gianfranco che, per chi non lo sapesse, è uno degli ideatori del secessionismo padano. Non essendo esperto di questioni leghiste ho fatto un giro in rete, trovando – mi è bastato Wikiquote – materiale abbastanza interessante su questo “intellettuale”:

«Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola. C'è la giustizia dei legulei, che è il modo di imbrogliare il prossimo, e c'è la giustizia popolare che si esprime nei moti rivoluzionari. Quando il sistema non garantisce più la giustizia, è il popolo che si appropria del diritto di punire. Il linciaggio è un fatto estremo e riprovevole, per etica e stile».

A parte la capriola linguistico-dialettica con la quale definisce il linciaggio sì la forma più alta di giustizia ma al contempo un fatto riprovevole per etica e stile (che d'altronde fa parte del bagaglio ideologico di un partito che urla “Roma Ladrona” non solo mandando propri uomini a fare i ministri ma anche facendosi finanziare lautamente proprio dalla capitale ladrona...) sarebbe interessante chiedere non tanto ai leghisti ma al resto del mondo politico dove sia l'aspetto encomiabile in una definizione come quella appena citata od in una come questa:

«Il presunto impegno alla solidarietà non fa altro che legalizzare la violenza a danno dell'onesto possidente, costretto a rendere partecipi della sua fortuna coloro che guadagnare non sanno...»

Insomma: proprio un personaggio “educativo”, non c'è dubbio. Mi chiedo dove siano state le opposizioni fino ad ora, ma ho paura di venire a conoscenza della risposta.

Come da più parti ci si chiede, comunque, sarebbe interessante studiare la reazione della popolazione nel momento in cui – in un universo parallelo – al posto della lega e dei suoi simboli ci fossero stati il Partito Comunista e la falce&martello. Con questo non voglio assolutamente dire che la politica nelle scuole faccia male, rinnegherei in tal caso il mio “sessantottismo”, mi chiedo solo quanta ideologia pseudo-sinistrorsa ci sia in questa vicenda. Domanda che diventa ancora più interessante nel momento in cui vengo a scoprire che se Adro ed il suo sindaco folkloristico (è infatti lo stesso della mensa solo per chi può permettersela e del “menù padano” in una scuola che, non si sa fino a quando, è ancora aperta a tutti...) campano ormai da qualche giorno sulle prime pagine dei giornali, la stessa cosa non avviene per un altro tipo di sponsorizzazione che sta violentemente entrando nelle scuole e che, a mio modo di vedere, può essere ancora più pericolosa.

Scegli il parto cesareo solo se necessario...al medico!

Settembre, si sa, solitamente è il mese delle novità. Quest'anno stiamo assistendo ad un nuovo filone pubblicitario: dopo quelli ormai notissimi della pubblicità a sfondo commerciale e quella sociale (la c.d. “Pubblicità Progresso”) stiamo assistendo alla nascita della Pubblicità “presa per i fondelli”. Qualche post fa mi ero soffermato sul nuovo spot del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (qui l'articolo:http://senorbabylon.blogspot.com/2010/09/lotta-di-classe-e-pubblicita-sicurezza.html e qui: http://www.youtube.com/watch?v=PcnvE98iDKA lo spot) che interessandosi – per così dire – del problema della sicurezza sul lavoro fa passare il messaggio che le scarse condizioni di sicurezza sul lavoro non siano dettate dai tagli dei Padroni ma dal poco amor proprio dei lavoratori. Oggi invece ve ne voglio mostrare un altro di questi spot, che io però non ho ancora visto in televisione (anche perché la mia è diventata ormai né più né meno un soprammobile...) che riguarda un fenomeno molto molto strano che avviene in questo paese: l'alta – anzi altissima – percentuale di parti cesarei.

[qui:http://www.youtube.com/watch?v=Fct6pLi0WaM per chi non riuscisse a visualizzare il video]

Qualcun@ potrà – a ragione – obiettare che il sottoscritto non ha le competenze per parlare di parto (per ovvi ed evidenti motivi...), ma quando anche il parto diventa materia in qualche modo politica il tutto diventa estremamente interessante...
Il filone sanità – o sarebbe meglio dire malasanità – è probabilmente uno di quegli argomenti che più dovrebbero interessare il giornalismo nostrano, quanto meno quello dalla denuncia facile che tanto va di moda e che invece viene riportato in auge in maniera estemporanea per presentare l'ennesimo caso di errore medico e consimili di cui le cronache delle ultime settimane ci hanno raccontato.
I media, per come la vedo io, non fanno male ad essere presenti su questo aspetto – ci mancherebbe altro – ma puntano l'obiettivo sull'aspetto sbagliato. Ma d'altronde, se sapessero fare il loro mestiere saremmo in un altro paese. Un esempio? Prendiamo proprio il problema malasanità: si arriva alla denuncia del fatto singolo – per essere al pari con quella moda che vuole la denuncia di tutto e tutti senza che il sistema che genera tale episodio venga intaccato minimamente – ma mai nessuno si è mai addentrato, ad esempio, ad analizzare il problema dell'ingresso della politica negli aspetti decisionali della sanità o il problema della “meritocrazia” per amici, parenti e questuanti dei baroni universitari che proclamano grandi medici non i più bravi ma i più asserviti al loro potere, e gli esempi potrebbero – ahimé – continuare a lungo...

Per i fumogeni citofonare ore pasti




«Non faremo più perdere soldi ai lavoratori, da oggi solo scioperi di sabato o di sera»
[Raffaele Bonanni, "leader" Cisl].

Per i fumogeni, invece, citofonare ore pasti...

Lo Stato "ruba" i bambini

Di solito i fatti di cronaca non mi interessano granché, anche perché in questo paese c'è questa cultura del “peep show” per cui un fatto di cronaca locale (un omicidio o quel che vi pare a voi...) diventa subito “il” fatto, quello per cui ci sorbiamo speciali di “Porta a Porta”, “Matrix” e tutta questa robaccia dove, dopo aver detto quanto è pericoloso sto paese – tanto per far capire all'italiano medio l'importanza della repressione di Stato – si passa a raccontare quanto è importante la liposuzione ad una certa età. Naturalmente tutto questo viene fatto allo scopo di distogliere l'attenzione dai fatti importanti (non è certo una novità...), e mentre i cittadini creano teorie tutte loro su Cogne, Garlasco etc per le quali neanche Colombo o Perry Mason saprebbero fare tanto ci dimentichiamo delle e dei tante/i a cui quotidianamente vengono sottratti i diritti fondamentali.

Capitano però anche quei fatti di cronaca che in qualche modo ti fanno pensare, esulandoli dal contesto specifico diventano in qualche modo indicatori di un fenomeno più generale e che, dunque, se osservato da quest'altro punto di osservazione assume un'importanza decisamente diversa.
L'ultimo di questi casi è quello – sicuramente ne avrete letto o sentito al tg – della ragazza alla quale è stata sottratta la figlia appena partorita perché giudicata incapace di svolgere il suo ruolo di educatrice. È una storia accaduta nello scorso luglio, per la quale non avevo trovato modo e tempi per scriverne. Ne approfitto dunque oggi visto che la storia è stata riportata in auge da alcuni media.

Possiamo leggere questa vicenda in due modi: da un lato come dramma “individuale” di una giovane donna alla quale viene sottratto il figlio appena nato, dall'altro come fatto “collettivo”, “sociale”, di una madre per la quale viene decisa da una forza terza (i servizi sociali) «l'incapacità nello svolgere il ruolo genitoriale», incapacità dettata principalmente da uno stipendio – 500 euro - che in Italia è basso anche per una persona sola, figuriamoci per una madre con figlio appena nato!

Naturalmente tra i due l'aspetto che mi interessa analizzare è il secondo, cioè lo “scontro” tra una persona che non chiede altro che esercitare un proprio sacrosanto diritto (quello di essere madre oltre l'aspetto puramente fisico) e l'integerrima burocrazia che attanaglia i gangli di questo paese.

Il privato è politico, si urlava dalle strade durante le contestazioni negli anni '70. E quale esempio migliore di questo per ribadirlo ancora oggi, dopo trent'anni?

La historia es nuestra y la hacen los pueblos.


Oggi non c'è bisogno di dire che giorno sia. Oggi ci sorbiremo l'ennesima ipocrita corsa dei media a chi si sente più americano, a chi commemora meglio.

A volte mi chiedo - con una punta di cattiveria - se il World Trade Center (che siano stati poi quelli di Al Quaeda è tutto da dimostrare, e la florida bibliografia che è nata sull'argomento è quanto meno una buona domanda di partenza) non sia stato in qualche modo una sorta di vendetta storica per l'appoggio che gli americani dettero al golpe di Augusto José Ramón Pinochet Ugarte con il quale si tarparono le ali al sogno cileno di Salvador Allende (nonostante molti cileni rimpiangano più il generale, come molti qua da noi rimpiangono i tempi fascisti...). Dell'11 settembre cileno - una commemorazione che sento molto più mia rispetto a quell'altro 09/11 - se ne parlerà poco, così come se n'è sempre parlato poco.
Fortunatamente ci rimane la musica. Quella musica che - quando ha contenuti diversi dalle canzoncine smielate che infestano le radio (e che però fanno vincere un sacco di premi) - sa essere insegnante migliore di qualsiasi libro, a pari merito - forse - con i racconti degli anziani che quelle storie le hanno vissute sulla pelle.

In questo senso fu importante, per il Cile di quel tempo, l'opera di un grande cantante e uomo come Victor Jara che, dalla sua cella nello stadio di Santiago dove fu prigioniero (lo stadio di Santiago equivale un po' all'ESMA argentino) scrisse questo (riporto anche la traduzione per chi non conoscesse lo spagnolo). Un ufficiale fece condurre Jara nel mezzo del campo di calcio obbligandolo a porre le sue mani da chitarrista sul tavolo. A colpi di ascia l'ufficiale gli troncò le dita delle due mani: «Cosa aspetti ora a cantare?», gli disse. Girandosi verso le tribune dove erano ammassati i prigionieri, Jara brandì i suoi monconi insanguinati ed iniziò l'inno dell'Unità Popular,cantato in coro da tutti i detenuti, mentre una raffica di mitra reprimeva nel sangue lo smacco di Jara al Potere.