Stefania Noce, vittima di femminicidio

foto di Riotclitshave
«LICODEA EUBEA (CATANIA), 27 DIC - Duplice omicidio per motivi passionali a Licodia Eubea, in provincia di Catania, dove un giovane di 24 anni, Loris Gagliano, che non si rassegnava alla fine della relazione sentimentale, avrebbe ucciso a coltellate l'ex fidanzata, Stefania Noce, di 24 anni, il nonno della ragazza, Paolo Miano, di 71, e ferito al torace la moglie della vittima, una donna di 60 anni, ricoverata con ferite da taglio al torace ma non in pericolo di vita». Questo riportava l'agenzia Ansa alle 14:38 di due giorni fa[1] per raccontare l'ennesimo femminicidio. Dietro a quelle poche righe, però, c'è – ci sarebbe – molto altro da dire.

C'è, ci sarebbe, come prima cosa, da chiedersi quanto durerà il cordoglio per Stefania, vittima di chi con troppa faciloneria viene definito “pazzo” ma che pazzo non lo è, così come non lo era Gianluca Casseri, il militante di Casapound che due settimane fa, a Firenze, ha ucciso Samb Modou e Diop Mor, la cui unica colpa è stata quella di essere migrati in uno dei paesi più ignoranti e retrogradi dell'intero globo.
Ma lo sappiamo, “pazzia” - espressione-contenitore che può voler dire tutto come può voler dire assolutamente niente – è un ottimo appellativo da affibbiare quando non si vuole, o non si può, addentrarsi in approfondimenti che richiedono un livello minimo di studio e comprensione. Non esattamente quello che richiede chi ti vende “Il Grande Fratello” ed altre dabbenaggini simili.

137(in aumento), il numero della bestia. Un'altra delle parole più utilizzate in questi casi è “bestia”, che forse è anche più pericolosa del classico “pazzo” o del “raptus”. Perché la “bestia” rimanda ad una cosa giocoforza diversa da chi quella parola l'ha usata, qualcosa di “diversamente umano”, “disumano”. È per compensare le “bestie” – perché in ogni storia che si rispetti, se c'è il “cattivo” deve esserci anche il “buono” che lo sconfigge – che si è allora creata la figura dell'”eroe”, quel soggetto grazie al quale ci “sgraviamo” le coscienze, «nel momento in cui ci abbandoniamo all'idea che ci sia l'eroe che con la sua parola cambierà il mondo abbiamo creato un fatto di specie ma commesso un errore enorme», come disse il magistrato Raffaele Cantone in un'intervista di un paio di anni fa.

Mentre a Catania “la passione” uccideva Stefania, a Chieti quella stessa cosa che qualcuno ha definito in questi termini (ma “passione” e “amore” sono cose ben diverse) uccideva Silvia Elena, 20 anni, rumena. Il suo assassino, Luca D'Alessandro, di anni ne ha 18. L'ha uccisa per un bacio negato, forte del fatto che Silvia Elena si prostituisse per professione (o forse per costrizione professionale, che è un'altra cosa anch'essa) e che quindi, nell'ottica del “maschio”, certe cose non c'era nemmeno bisogno di chiederle.

Gita "no Tav" con polemica

Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/gita-no-tav-con-polemica/22589/

foto: Stefano Trucco
Chiomonte (Torino) – Portare in gita due scolaresche e ritrovarsi denunciati. È quanto accaduto lo scorso 23 dicembre a due insegnanti di religione del liceo “Lorenzo Federici” di Trescore Balneario, nel bergamasco, che hanno scelto un luogo decisamente insolito per la gita: quella Val di Susa dove da tempo la cittadinanza resiste ad un progetto, quello della Tav, da più parti definito come inutile, eccessivamente costoso e, soprattutto, nocivo per la salute.

Ma il PD non ci sta. O, per meglio dire, è di un esponente del Partito Democratico – Stefano Esposito, convinto sostenitore della Tav così come gran parte del suo partito – la polemica più feroce. In una lettera al ministro dell'Istruzione, infatti, l'esponente democratico si è detto “sconcertato” dal fatto che sia stata autorizzata una gita didattica «in un luogo dove da mesi si commettono reati». Ad “aggravare” la situazione, probabilmente, anche il fatto che la guida scelta non fosse esattamente un esponente di quel “partito della par condicio” ormai da anni diventata riferimento di una parte della politica nazionale (e dunque locale) come Guido Fissore, attivista no-Tav e consigliere comunale a Villar Focchiardo. «Portare degli studenti, peraltro minorenni, a violare un'ordinanza prefettizia e ad ascoltare “sermoni” contro lo Stato non ha nulla a che vedere con l'approfondimento del fenomeno sociale e politico dell'opposizione alla Tav» - è il fulcro della tesi di Esposito, che ha anche accusato i due docenti di aver “strumentalizzato” le scolaresche.

Dall'istituto, invece, difendono l'operato dei due docenti. «È giusto far capire ai ragazzi quello che succede. La scuola non può essere slegata dalle notizie». I due insegnanti hanno, semplicemente, fatto quello che l'insegnamento imporrebbe: non solo tenere i ragazzi sui libri riempiendogli la testa con nozioni teoriche, ma anche – e soprattutto – insegnare ai ragazzi ad essere cittadini. E dunque portarli in uno dei luoghi che da mesi, e per mesi, ha trovato spazio nelle cronache deve essere stata una conseguenza logica. Interessante, peraltro, sarebbe capire se la meta sia effettivamente stata decisa dagli insegnanti o se – come spesso capita – i ragazzi abbiano chiesto una “deviazione” dal percorso originario.

Un'altra cosa interessante – che si trova facilmente navigando in rete – è che nei giorni scorsi proprio Esposito (di cui Dario Ferri su “Giornalettismo.com” tratteggia una brevissima biografia politica[1]) abbia partecipato ad un dibattito con gli studenti di Pinerolo per spiegare e confrontarsi sulle ragioni di chi è a favore o contrario alla Tav, non facendoci esattamente una gran figura.

La domanda, a questo punto, è spontanea: se invece che portati in gita nella parte “no Tav” della Valle di Susa la scolaresca fosse stata portata ad ascoltare un “sermone” di qualche amministratore delegato o di qualche dirigente delle aziende “sì Tav”, la reazione politica sarebbe stata la stessa?SB


Note
[1] Quel bulletto del deputato Pd, Dario Ferri, Giornalettismo.com, dicembre

Le undici famiglie di Messina Montagne hanno risolto il loro problema abitativo. Palermo no



Palermo – Quello appena passato è stato il loro quarto Natale nei container, il Capodanno 2012, invece, le undici famiglie di via Messina Montagne lo passeranno lontano da quel groviglio di metallo che avevano occupato nel 2008 e che da quel momento è stata la loro casa. Il Comune ha convocato i capi famiglia per consegnargli le chiavi degli appartamenti a cui già oggi potranno accedere. Per i container, invece, è già pronta la ruspa che dovrà demolirli.

L'impegno ufficiale era stato preso dal sindaco Cammarata lunedì scorso, dopo una riunione necessaria per individuare gli appartamenti da assegnare alle famiglie, avvenuta con gli assessori Michele Pergolizzi (assessore alle Manutenzioni) ed Eugenio Randi (assessore alle Risorse Immobiliari ed ai Beni Confiscati). «Da settimane lavoro per fare alle famiglie questo regalo di Natale» - ha detto il sindaco - «Adesso abbiamo le case per trasferire tutti e smantellare definitivamente il campo, assegnando alle famiglie senza una casa il numero di immobili confiscati alla mafia». Oltre alle famiglie che da oggi, dunque, lasceranno i container – ha evidenziato comunque il sindaco – ci sono altre 900 famiglie iscritte nella graduatoria di emergenza.

Nel 2008 l'”emergenza” dei container era costata al Comune circa 520 mila euro, ma nei quattro anni fin qui trascorsi pochi erano stati gli interventi per la messa in sicurezza di quegli spazi, così che anche scarafaggi, topi e cani randagi avevano iniziato a frequentare il campo.

Al di là del caso specifico, comunque, la questione abitativa è tutt'altro che risolta. A Palermo come nel resto della Sicilia, così come in tutta Italia. Nel capoluogo siculo sono migliaia le famiglie che nel corso degli anni hanno occupato case, vecchi edifici, asili, appartamenti sfitti, così come la Cattedrale e l'assessorato. Eppure, a Palermo come nel resto del Belpaese, l'emergenza sarebbe decisamente più modesta se si ricominciasse con una seria politica in materia, in particolare alla voce “edilizia popolare” - dove a fronte di più di due milioni 500 mila richieste l'offerta non raggiunge il milione di alloggi – ridottasi negli ultimi trenta anni di circa il 90 per cento, con un mercato che veniva spostato esclusivamente verso l'edilizia “per proprietà” ed alla voce “speculazione”, con le centinaia di abitazioni lasciate vuote non certo perché nessuno le richiede.SB

Il lavoro "a click" e la competitività del mercato globale

New Delhi - L'ultima moda è quella del lavoro in “outsourcing telematico”. Attraverso piattaforme nate per il lavoro informatico in rete, le aziende – per lo più americane – offrono lavoro a persone che svolgono tutto attraverso software di video-conferenza, in un gioco al ribasso (di salari e diritti) che qualcuno si ostina a chiamare “competitività”.

A scriverne è, oggi, Antonello Mangano su Terrelibere.org[1]: grafici, traduttori, giornalisti, programmatori si iscrivono a piattaforme come oDesk, Getacoder, Elance in maniera completamente gratuita. Le aziende, in base alle caratteristiche di cui hanno bisogno, selezionano il lavoratore/i lavoratori – solitamente giovani indiani che hanno il vantaggio di essere altamente formati e di richiedere stipendi bassissimi – pagandoli attraverso il metodo Paypal. «Una rupia» - scrive Mangano nell'articolo - «equivale a un centesimo di euro e a due di dollaro. Uno stipendi di 345 dollari (1800 rupie) è considerato discreto». Basta fare due conti per capire come questo sistema sia ben visto da chi predica il contenimento dei costi di gestione dei lavoratori.

Modello eBay. Funziona così: l'impresa inserisce il classico annuncio “Cercasi”, scrivendo nella richiesta di cosa necessita. Dall'altro lato, gli iscritti non devono fare altro che inserire il proprio curriculum allegando una scheda dettagliata delle sue competenze e, eventualmente, sostenere un esame on-line per vedere se quello che dichiara è effettivamente quello che sa fare. Niente di più e niente di meno, in realtà, di quello che un po' tutti facciamo quando, in cerca di lavoro, passiamo intere giornate portando curriculum in giro per la città. L'unica differenza è che nel caso di siti come Elance (27.706 nuove offerte negli ultimi 15 giorni) o Getacoder (2.472 nell'ultimo mese) l'unica cosa a spostarsi fisicamente sono le dita sulla tastiera.
Le imprese che assumono si trovano di fronte al “solito” dilemma: conciliare il minor costo possibile con la più alta professionalità possibile. Per questo si utilizza il “sistema eBay”: oltre al costo, infatti, valgono l'esperienza e le referenze (o “feedback”, adattando ai tempi). Se un iscritto lavora male o, dall'altro lato, un datore di lavoro non rispetterà gli impegni, i feedback negativi faranno in modo che sarà per lui più difficile trovare lavoro o lavoratori.

Un vantaggio in un modus operandi simile, comunque, c'è. Quello cioè che permette ai giovani di poter rimanere a lavorare nel loro paese, magari senza nemmeno doversi spostare troppo tra una città e l'altra, piuttosto che intraprendere viaggi oceanici senza avere la sicurezza che quello sarà un viaggio a buon fine.

Gli italiani, ricorda l'articolo, sono pochi, in particolare per l'endemica diffidenza, la scarsa conoscenza dell'inglese ed il fatto che il cambio euro/dollaro non è certo conveniente come quello dollaro/rupie. Ed anche perché, ad esempio, per il comparto giornalistico c'è chi offre dieci centesimi di euro a parola. In questo, evidentemente, la “rivoluzione” del lavoro “a click” non ha cambiato poi molto.SB

Note
[1] Come affittare un freelance da un continente all’altro. Online e a basso costo, Antonello Mangano, Terrelibere.org, 21 dicembre 2011

Messico, la Dea americana ricicla il denaro dei narcos. Dal 1984



Città del Messico - «No, il governo messicano non ne era a conoscenza, e comunque è bene evidenziare come la Procura Generale della Repubblica ha già iniziato un'indagine per fare luce sulle responsabilità». Con queste parole Alejandra Sota, portavoce del governo messicano, ha risposto – all'interno del programma “Al Punto” della Univisión – alla domanda sul riciclaggio di denaro che gli uomini della Dea (“Drug Enforcement Administration”), l'agenzia federale antidroga degli Stati Uniti farebbero per i cartelli del narcotraffico fin dal 1984. A denunciarlo per primo è stato il New York Times, che nelle scorse settimane ha raccontato come agenti sotto copertura prendano in consegna il denaro in territorio messicano due o tre volte a settimana, per poi depositarlo su conti correnti aperti, negli Stati Uniti, dagli stessi agenti o dai cartelli. Con il denaro “lavato”, poi, vengono acquistati beni o servizi utilizzati direttamente dai cartelli. Secondo la fonte anonima intervistata dal quotidiano, in alcuni casi i riciclatori si farebbero pagare delle vere e proprie commissioni per i servizi forniti o, in altri casi, arrestando i narcotrafficanti al momento dello scambio (che è poi l'unica cosa che dovrebbero realmente fare).
Tali operazioni erano state rese illegali nel 1998, quando alcuni agenti americani avevano condotto un'operazione senza il permesso del ministro della Giustizia. Con il maggior coinvolgimento degli Stati Uniti nella narco-guerra, però, sarebbero nuovamente riprese.

La versione ufficiale, naturalmente, “discolpa” i funzionari statunitensi, sostenendo che solo così si possa arrivare a capire come i cartelli trasferiscono negli Stati Uniti il denaro, data anche l'impenetrabilità delle reti finanziarie da loro create. Al di là della fondatezza di questa tesi, comunque, i risultati del lavoro della Dea sono assolutamente negativi. Come se non bastasse, poi, lo scandalo “Fast and Furious”[1] è tutt'altro che concluso, così da alimentare ancor di più le voci sull'ambiguità dell'amministrazione americana nei confronti dei cartelli.

I record dell'Amministrazione Calderón Hinojosa. 28.025 morti classificati dal Sistema nazionale di sicurezza pubblica come “senza dati” o “altro”. Ciò significa che per il 46,38 per cento dei morti della “narcoguerra” degli ultimi cinque anni non sono state definite generalità e risultano, quindi, anonimi. È quanto risulta da una indagine tenuta dal settimanale Zeta, che ha incrociato i dati delle schede informative della segreteria di Sicurezza Pubblica, sia municipale che statale e le statistiche in possesso delle procure e del ministero della Giustizia con le informazioni del Sistema Nazionale di Informazioni. Dai dati, dunque, risulterebbe qualcosa come 60.420 morti per la lotta al narcotraffico voluta da Felipe Calderón Hinojosa (il cui mandato è iniziato nel 2006 e si concluderà il prossimo anno) che nel giro di pochi anni è passato dai quasi tremila del 2007 ai quasi ventimila di quest'anno (dati compresi tra gennaio ed il 31 ottobre), che rappresentano – stando sempre a quanto sostengono dal settimanale – a circa il 75,5 per cento di tutti gli omicidi commessi durante il periodo “calderonista”[2].

Alla “lista” dei record negativi – è Historiasdelnarco.com a parlarne[3] - va aggiunto anche l'aumento degli attentati contro funzionari dello stato, passati dai 274 del 2007 ai 625 del 2010. Gli stati più colpiti Michoacán, Chihuahua, Nuevo León, Guerrero, Tamaulipas, Coahuila e Hidalgo. Per il secondo anno di fila inoltre, il Messico si conferma come il paese dove è più pericoloso fare il giornalista. Secondo un report della Press Emblem Campaign, una organizzazione non governativa svizzera che ha fissato in 106 – uno in più dello scorso anno – i giornalisti uccisi in tutto il mondo nel 2011. di questi dodici sono messicani, «ma la cifra sarebbe molto più alta se si includono anche i giornalisti spariti», sottolineano dalla ong.SB

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/11/messico-arrivano-i-panuelos-blancos.html;
[2] Quinto año de gobierno: 60 mil 420 ejecuciones, Settimanale Zeta, 12 dicembre 2011;
[3] Se duplican en tres años ataques a funcionarios y sedes policiacas, Historiasdelnarco.com, 19 dicembre 2011;

Conferenza Wto di Ginevra, tra sovranità alimentare e nuovi ingressi


Ginevra – Erano stati definiti come “i negoziati del ventunesimo secolo”. Si sono rivelati niente di più che la solita riunione in cui poco o nulla viene veramente definito. Stiamo parlando dell'ottava Conferenza ministeriale dell'Organizzazione mondiale del commercio (il Wto) tenutasi tra giovedì e sabato scorsi nella città svizzera.

Si è parlato di temi mai toccati fino ad oggi, come la sovranità alimentare e la lotta ai cambiamenti climatici, ma l'unica cosa a cui questi temi hanno portato è stato lo scontro tra Olivier De Schutter, relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto all'alimentazione e Pascal Lamy, direttore del Wto, accusato di non avere legittimità per toccare simili temi. «La globalizzazione crea grandi vincitori e grandi perdenti» - ha sostenuto De Schutter - «Quando sono in gioco i sistemi alimentari, perdere significa sprofondare nella povertà e nella fame. Una visione di sicurezza alimentare che allarga il divario tra regioni con sovrabbondanza di cibo e regioni in deficit alimentare, tra esportatori e importatori e tra vincitori e vinti non può essere accolta», ha concluso (per un paio di approfondimenti vi invito a leggere “Gli speculatori del cibo”[1] e la campagna “Sulla fame non si specula”[2]).

Una lettura «economicista e liberista di questioni che attengono ai diritti umani e che proprio per questo devono essere esclusi dai negoziati» quella del Wto secondo Monica Di Sisto, vicepresidente di Fair – una delle organizzazioni accreditate alla conferenza e parte della rete internazionale “Our World is not for sale".

De Schutter è entrato poi nel merito della questione, evidenziando come «bisogna stare attenti a ciò che determina realmente la sicurezza alimentare: chi produce per chi, a quale prezzo, a quali condizioni e con quali ripercussioni economiche, sociali ed ambientali».

Oltre alla questione alimentare, a suscitare più di un rumors è stata l'istituzionalizzazione delle “coalizioni di volenterosi”, cioè di pochi paesi che si accordino su settori specifici senza la necessità di passare attraverso l'intera organizzazione, facendo così sorgere a più d'uno la domanda su quanto sia davvero utile l'Organizzazione.

Da registrare anche il definitivo ingresso nel Wto della Russia (insieme a Montenegro e Samoa), un ingresso di cui si parlava da quasi vent'anni, a patto di monitorare il commercio alle frontiere con l'Abkazia e l'Ossezia del Sud e l'eliminazione dei sussidi per l'esportazione nel settore agricolo. Il Parlamento russo avrà tempo fino al 15 giugno 2012 per la ratifica, dopodiché bisognerà aspettare trenta giorni per l'ingresso effettivo nell'organizzazione.SB

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/12/gli-speculatori-del-cibo.html;
[2] http://sullafamenonsispecula.org/

Gli speculatori del cibo


Secondo Fao ed Ocse, i prezzi di alcune materie prime del comparto agricolo aumenteranno sensibilmente nel giro di un decennio, nonostante la produzione sia in aumento. Dalle campagne africane fin dentro ai nostri supermercati, chi - e come - specula sul cibo?


Daadab (Kenya) - 450.000 persone su un territorio di circa cinquanta chilometri quadrati, con un incremento di oltre mille persone al giorno che si stanziano su quel fazzoletto di terra che è circa la metà della città di Firenze. Sarebbe, per estensione, la terza città più popolosa del Kenya. Se solo fosse una città.

Siamo a Dadaab, un'ottantina di chilometri dal confine con la Somalia, nella zona nord-ovest della Repubblica kenyana, in quello che è considerato il campo profughi più grande del mondo. Aperto nel 1998, dati grandezza e popolazione è stato suddiviso in tre campi più piccoli – Hagadera, Ifo e Dagahaley – ai quali si stanno via via aggiungendo altri campi, come Ifo II, da quando è stato dichiarato inadeguato ad accogliere nuove persone. Cosa che succedeva tre anni fa.
Tre ospedali, quindici ambulatori e una ventina di scuole. Questo offre la “città dei rifugiati” a chi scappa da una guerra – quella somala – mai realmente placatasi dal 1991. Nonostante l'ampio dispiegamento di forze “umanitarie”, però, la crisi nel campo non è affatto risolta. Basti considerare che solo la metà dei bambini riesce ad accedere all'istruzione primaria e un terzo a quella secondaria, anche per i tentativi di esclusione verso i nuovi arrivati, ai quali viene imputato di abbassare il livello di istruzione di cui è possibile usufruire.
I rifugiati sono costretti a rimanere all'interno dei campi, nei quali sono identificati solo attraverso un braccialetto giallo e un pass di identificazione. Questo però comporta che coloro che risiedono da più tempo all'interno dei campi siano completamente dipendenti dagli aiuti umanitari distribuiti dalle tantissime organizzazioni non governative presenti a Dadaab. Capire se siano loro ad aver bisogno degli aiuti o, al contrario, le ong a “campare” sui rifugiati diventa impresa assai ardua.

L'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (UNHCR), che gestisce il campo insieme ad alcune organizzazioni non governative come Oxfam e Medici senza frontiere, ha definito in 43,7 milioni le persone che scappano dai propri paesi per il clima – cambiamenti climatici e, nello specifico, la peggiore siccità registrata nel Corno d'Africa negli ultimi sessant'anni - le guerre o la fame. A questi vanno poi aggiunti altri 27,5 milioni di sfollati che rimangono però all'interno dei propri paesi d'origine.

A questo punto – data anche la vicinanza con il periodo festivo – potremmo mettere la questione in termini “umanitaristi” e sfruttare il senso di colpa che viene a noi occidentali (o quanto meno dovrebbe venire) quando vediamo le immagini dei bambini che subiscono l'essere nati nel continente povero del mondo dalle brochure o dagli spot da trenta secondi che passano in televisione ma che servono – parzialmente – solo per lenire in parte la colpa di essere nati nel “ricco e democratico” Occidente. Sono ormai decenni che queste campagne vengono fatte, che schiere di organizzazioni non governative ci invitano a donare, ad adottare a distanza e tutte queste belle cose che, però, non migliorano di un millimetro la situazione generale.

Plan Condor II. Come il nord del mondo sta ricreando il debito del Sud.


Undici anni fa, in occasione del Giubileo, una campagna d'opinione chiese ai paesi del Nord del mondo di cancellare il debito che verso di loro avevano contratto i paesi del Sud. Ad oggi, però, non solo quel debito non è stato cancellato, ma si assiste ad una sempre maggiore opera di ri-colonizzazione, in particolare attraverso l'acquisizione delle terre o l'uso dei titoli "tossici". Un procedimento che, oggi, viene usato anche nella "cara e vecchia" Europa

«Io adesso mi rivolgo all'onorevole D'Alema/approfitto del microfono per parlarle di un problema/Chissà quanti già le avranno sottoposto la questione/ma io vorrei usare il microfono e la televisione/per chiederle da qui di dare un segno profondo/alla questione del debito estero/di molti paesi del Sud del mondo(...)»[1]

Queste erano le parole – qualcuno ricorderà – con cui Jovanotti si presentò, ormai undici anni fa, al Festival di Sanremo e con le quali chiedeva, a nome dei tanti che in quel “movimento di opinione” si riconoscevano, di cancellare il debito che i paesi del Sud del mondo avevano contratto nei confronti del ricco Nord. A distanza di una decade e qualche briciola, però, quell'”appello” a D'Alema – allora presidente del consiglio italiano – è evidentemente rimasto inascoltato (forse perché l'epistola aveva completamente sbagliato il destinatario, ma questo è un altro discorso...) ed oggi quel debito è vivo più che mai. Non solo, peraltro, i paesi del cosiddetto Primo mondo non lo hanno cancellato, ma stanno sempre più tentando di metterci le mani sopra. Perché senza il Sud del mondo, inteso nella sua accezione economica e geopolitica che in quella geografica, non esisterebbe alcun Nord.

Negli anni Settanta-Ottanta, il Nord si assicurava questa posizione anche – e soprattutto – attraverso l'uso della forza militare. La storia di paesi come Argentina, Cile, Brasile e molti altri paesi dell'America Latina è lì a testimoniarlo. Lo chiamarono “Plan Condor[2]. Servì agli Stati Uniti per combattere il comunismo – e l'opposizione in genere – nel “cortile di casa” dell'America Latina.
Oggi che i regimi amici si instaurano attraverso le rivolte pacifiche (o “colorate”, fate voi), l'immagine dei cattivi è affidata ad agenzie pubblicitarie (leggasi alla voce Rendon Group o Bell Pottinger Public Relations) e dove gli equilibri geopolitici stanno dando origine ad un mondo tendenzialmente multipolare – non ultima la creazione della Celac in America Latina[3] – bisognava trovare uno strumento che modernizzasse il plan Condor. E cosa c'è di meglio – lo vediamo tutti i giorni anche nella cara vecchia Europa – della “moda” dei fondi speculativi (in inglese “vulture funds”, “fondi avvoltoio”, guarda caso...)?
Fondi speculativi e land grabbing. Sono questi gli strumenti del colonialismo del ventunesimo secolo.

Un cane che si morde la coda. 227 milioni di ettari. A tanto ammonta, stando al rapporto di settembre dell'organizzazione Oxfam[4], la quantità di terra che attraverso contratti di vendita o locazione ha subito un vero e proprio passaggio di proprietà negli ultimi dieci anni.

Next stop Tunisia: Profughi a Ras Jedir (di Nicola Angrisano)



Oltre mezzo milione di profughi durante la guerra in Libia sono passati nel campo di Coucha, al confine meridionale della Tunisia, nella regione di Ras Jedir.
Rifugiati precedentemente trattenuti in Libia contro la propria volontà e lavoratori stranieri scappati dalla guerra e impossibilitati a tornare nei paesi di origine. Nell'indifferenza ipocrita della comunità internazionale.
Così, nei primi sei mesi del 2011, secondo stime del' UNHCR almeno 1615 persone sono scomparse nel canale di Sicilia cercando di arrivare in Europa su imbarcazioni di fortuna.
Nel mese di aprile Insu^Tv (telestreet napoletana già autrice di "Una montagna di balle") è stata nel campo di Coucha per documentare la situazione dei profughi e riportarne la voce.SB

Quella "narcovia" che somiglia tanto alla Salerno-Reggio Calabria



Durango (Messico) – Parlare di quel che oggi avviene nel Messico dei narcos significa, in qualche modo, parlare anche dell'Italia. Perché la criminalità, in Messico come in Italia, influenza gran parte della quotidianità dei cittadini. Che si ritrovano a fare i conti con essa anche quando, semplicemente, percorrono l'autostrada.

Il progetto. Parte del corridoio economico interoceanico tra i mercati asiatici e quelli del NAFTA (l'Accordo nordamericano per il libero scambio), sarà la rotta più corta e più efficiente per il transito delle merci tra l'Oceano Pacifico e l'Atlantico, andando così ad interessare un mercato potenziale di 20 milioni di persone, concentrando più del 60 per cento del flusso commerciale dell'America del nord e darà origine a poco più di un quarto (il 22 per cento) del Prodotto interno lordo messicano.
È stata presentata così l'autostrada Durango-Mazatlán, i cui lavori sono iniziati durante la presidenza di Vicente Fox Quesada (2000-2006) e, ad oggi, ne è stato realizzato circa l'80 per cento. Negli intenti del governo, all'opera – di cui fa parte anche “El baluarte” (“Il baluardo”), il ponte sospeso più alto dell'America Latina (terzo al mondo) con 152 cavi d'acciaio – è affidato il compito di far esplodere lo sviluppo degli stati su cui passerà il tracciato, cioè Sinaloa, Chihuahua, Durango, Zacatecas, Coahuila, Nuevo León e Tamaulipas e permetterà di attraversare con meno difficoltà la zona conosciuta come “El espinazo del diablo” (“La spina dorsale del diavolo”), anche se le condizioni del manto stradale vanno a peggiorare quando ci si allontana dal chilometro zero, tanto che – come scrive Patricia Dávila sul settimanale “Proceso” - «è impossibile godere del panorama pubblicizzato dagli spot del governo federale che invitano ad addentrarsi nella Sierra Made Occidentale usando i ponti panoramici di “La Noria”, “El Indio” o “El Otinapa”».
“El baluarte” è, poi, il simbolo di quella “malapratica” che dal Messico ci riporta al Belpaese. Alto 1124 metri e strutturato con quattro corsie sospese ad un'altezza di 390 metri, il costo iniziale era stato preventivato in circa 280 milioni di pesos. Consegna entro il 2010. Ad oggi, quando i lavori non sono ancora stati completati, sono già stati spesi più di due miliardi di pesos.

Ricordarsi degli amici. I lavori del ponte sono affidati alla Tradeco, vincitrice dell'appalto nel 2006. La società appartiene a Federico Martinez, ex funzionario di Pemex (l'azienda pubblica messicana per il petrolio) che acquistò Tradeco quando ministro dell'Energia era Felipe de Jesús Calderón Hinojosa, che da quando è diventato Presidente ha affidato proprio a Martinez molte delle opere per la creazione delle infrastrutture messicane.

Nel frattempo, lo abbiamo detto, i cartelli non stanno certo a guardare. «Non possiamo negare» - dice Pablo Rivas, rappresentante a Durango per la Camera dell'Industria e della Costruzione messicana - «che l'autostrada sarà a beneficio della criminalità organizzata» che, comunque, ha già trovato il modo per guadagnarci già sopra.
Sinaloa, Beltrán Leyva, Golfo e Los Zetas sono i cartelli che si stanno interessando ai lavori. Non sono entrati direttamente nei lavori – come invece avvenuto per la costruzione della Salerno-Reggio Calabria, dove ogni 'ndrina ha avuto la sua “quota lavori”. A loro basta sequestrare, rubare gli autoveicoli a trazione integrale – gli unici che possono essere utilizzati nella parte più impervia della strada – e, soprattutto, tenere lontani gli “estranie” dalle piantagioni di marijuana e papavero che circondano l'opera (tra gli stati di Durango, Sinaloa e Chihuahua c'è infatti il considdetto “Triangolo dorato”).

«Quotidianamente ci scontriamo con uomini dei cartelli», dicono alcuni operai. «In una occasione abbiamo scoperto vari uomini che viaggiavano armati sulle camionette. Ci hanno chiesto documenti e credenziali di lavoro per lasciarci passare. Ora che ci conoscono ci lasciano lavorare».
L'anno passato alcuni esponenti dei Los Zetas – chiamati “Los amigos” (“Gli amici”) - hanno assaltato il campo di Chavarría Viejo (dove alloggiano alcuni operai, che spesso lavorano in nero), fermando i lavori ed esigendo di sostituire le ditte che si occupano della sicurezza sui cantieri. Da qualche tempo hanno cambiato approccio. Chiedono una mazzetta tra i 5 ed i 10 mila pesos “una tantum”, più combustibile, birra e il “prestito” dei veicoli, che restituiscono dopo tre o quattro giorni. «Forse li usano per i traslochi» dice, ironico, un ingegnere.

«Calderón» - dice il ministro delle finanze Carlos Emilio Contreras Galindo - «dovrà creare un programma di sicurezza speciale per evitare che questi gruppi prendano il controllo dell'autostrada». Riuscirci davvero, però, sarà un'impresa molto difficile, alla luce dell'esplosione dei cartelli avvenuta proprio sotto il mandato dell'attuale presidente.SB

Chiude il "giardino di casa" degli Stati Uniti. Nasce la Celac



Caracas (Venezuela) – 33 i paesi che ne fanno parte, per un “bacino di utenza” di circa 550 milioni di abitanti ed un prodotto interno di 6,3 bilioni di dollari. È questo il “biglietto da visita” della Celac, la Comunità dei paesi dell'America Latina e dei Caraibi formatasi ufficialmente nella capitale venezuelana nell'ambito del progetto di totale emancipazione dei paesi dell'America Latina dal controllo – più o meno esplicito e legale – degli Stati Uniti. Il “giardino di casa degli Stati Uniti” è stato ufficialmente chiuso. Per sempre?

L'obiettivo – dichiarato – del nuovo organismo è quello di dar vita ad un'organizzazione regionale alternativa all'Organizzazione degli Stati Americani (l'Osa), considerata da molti nient'altro che il prolungamento delle politiche di Washington.

L'idea parte da lontano, precisamente dagli anni '80, quando i ministri degli esteri di Venezuela, Panama, Messico e Colombia crearono il Gruppo di Contadora con lo scopo di porre fine ai conflitti armati (in particolare a quello dei “contras” in Nicaragua) che infuocavano l'area. Da lì, nel corso degli anni, il gruppo si è via via allargato ai paesi che uscivano dalle dittature militari (in molti casi appoggiate in maniera più o meno diretta dagli Stati Uniti) fino ad arrivare – l'anno è il 1986 – al cosiddetto “Gruppo di Rio”. «Con l'integrazione dei paesi anglo-carabibici» - ha sottolineato Álvaro Colom Caballeros, presidente social-democratico del Guatemala - «si creerà uno spazio di dialogo politico più ampio». Tra i sicuri leader del nuovo organismo il presidente venezuelano Hugo Rafael Chávez Frías, sempre più avviato a raccogliere (o quanto meno a tentare di raccogliere) l'eredità di Simón Bolívar, “padre ideologico” degli ultimi movimenti politici nell'area. «Questo è il risultato dopo duecento anni di battaglia. Qui era stata imposta la dottrina Monroe: l'America agli americani, ossia agli Yankee. Hanno imposto il loro volere per duecento anni, ma ora è abbastanza».
È chiaro, dunque, che Stati Uniti e Canada non saranno né i benvenuti né invitati. «È tempo di avere un forum che sia più nostro, più vicino alla nostra realtà, senza un'influenza a favore del Nordamerica», ha dichiarato il presidente ecuadoriano Rafael Correa Delgado, a cui ha fatto eco il messicano Felipe Calderón Hinojosa, che nel discorso con cui si sono aperti i lavori per la costituzione della Celac ha sottolineato come questo «sarà un gruppo per lavorare a favore dell'unità e della prosperità».

Interessante, peraltro, notare come l'organizzazione non faccia caso agli schieramenti politici dei governi che ne fanno parte, dai già citati Chavez e Correa – esponenti di quel “socialismo in salsa latinoamericana” che sta ormai da anni tentando di fare dell'area un polo geopolitico indipendente ed alternativo agli Stati Uniti – a Felipe Calderón Hinojosa e Sebastian Piñera (quest'ultimo eletto presidente pro-tempore) rappresentanti invece dei movimenti di destra, non esattamente antagonisti agli statunitensi.
Un ruolo importante sarà destinato – quanto meno questa è l'intenzione – alla Cuba dei fratelli Castro. A Miraflores – sede del governo venezuelano dove la Celac è stata costituita – Raúl Castro Ruz ha “vestito i panni” del fratello Fidel, attaccando gli Stati Uniti sul “bloqueo”, il blocco economico, commerciale e finanziario che attanaglia da decenni l'isola, sottolineando come agli Stati Uniti non sarà più permesso di trattare l'America Latina come in passato.

Mercosur, Unasur, Alba e, ora, Celac. L'introduzione di meccanismi che eliminino il dollaro e – appena il parlamento urugayano ne avrà ratificato il documento costitutivo – la Banca del Sur. Il processo di emancipazione dei paesi dell'America Latina prevede le stesse tappe previste da quello che, stando a quanto sosteneva in un'intervistaJean Paul Pougala[1], sarebbe il processo di emancipazione del continente africano. La prossima “primavera araba” si svolgerà nell'ormai ex giardino di casa degli Stati Uniti?SB

«L’estrema gravità della crisi che colpisce attualmente l’Europa, in particolare la zona euro davanti all’esplosione dei debiti cosiddetti “sovrani” di Grecia e Italia, tra le altre cose ci porta a farci una domanda: non è che i popoli europei hanno una lezione da imparare dalle esperienze vissute da certi paesi del Sud, lezioni che vengono dalle strategie anticrisi che sono state adottate là? E finora sono state le ricette del Nord, con pretesa di validità universale, quelle che sono state rifilate abitualmente alle economie del Sud – anche in quei, molto rari, casi in cui convenivano anche ad esso. Ma quei tempi sono cambiati»

[Remy Herrera]


Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/11/our-democratic-boys-piccola-storia.html, 28 novembre 2011

La guerra dei "narco-numeri" di Obama, Obama risponde



Washington - Due giorni fa[1] vi raccontavo dei “problemi in matematica“ dell'amministrazione Obama che, attraverso il Dipartimento di Stato, dava delle cifre completamente sballate – e smentite dagli altri attori coinvolti nella vicenda – in merito ai dati sul traffico di cocaina. Ieri l'Office of National Drug Control Policy ha inviato la propria replica[2] ai giornalisti italiani, parlando di “difetti sistematici”.

La comparazione dei dati. Tra i punti principali dell'”attacco” dei giornalisti di Narcoleaks c'erano 34 tonnellate di cocaina sequestrate, inesistenti però secondo il Dipartimento di Stato americano, secondo il quale la quantità totale di cocaina prodotta da gennaio a novembre – il periodo in cui sono stati svolti i controlli – era di “sole” 700 tonnellate e non di 734 come denunciato dai giornalisti.
Scrive Terry Zobeck della National Drug Control Policy che in questo caso bisogna intendersi su quale cocaina è stata presa in considerazione. Quella su cui si basano i dati di Narcoleaks sarebbe infatti la cocaina “tagliata”, «Le nostre stime» - scrive - «sono espresse in termini di cocaina “pura”, questo ci permette di fare confronti nel tempo. I trafficanti di droga diluiscono la cocaina deliberatamente, “tagliano” la cocaina con altre sostanze per aumentare la sua massa in varie fasi della sua distribuzione dal Sud America agli Stati Uniti. Ciò significa che un chilo di cocaina sequestrata a Los Angeles non contiene la stessa quantità effettiva di cloridrato di cocaina pura come un chilo di cocaina sequestrata dalla Guardia Costiera in alto mare». La valutazione fatta dai giornalisti, conclude in merito Zobeck, «è confrontare le mele con le arance».

Il contratto di lavoro dei trafficanti. Il secondo punto evidenziato dai giornalisti riguardava lo specifico dei dati sulla produzione colombiana che – sostenevano dagli Usa – negli ultimi tempi è stata sorpassata dalla produzione peruviana. «A differenza dei coltivatori di prodotti legittimi» - replica di Zobeck - «i i trafficanti di droga non presentano delle relazioni annuali sulla capacità di produzione e delle perdite. La maggior parte dei dati – compresa la produzione potenziale di cocaina, la disponibilità e il consumo – devono essere stimati. Per esempio, la nostra stima di produzione potenziale di cocaina di circa 700 tonnellate (di cocaina pura e circa 850 tonnellate di cocaina da esportazione), è in realtà il punto finale di una serie di stime a cui può corrispondere più o meno il prodotto effettivo». Insomma: le stime, sostengono dall'America, essendo tali vanno prese con beneficio del dubbio.

Sempre a cifre “stimate” bisogna attenersi, concludono dal National Drug Control Policy, quando si parla del flusso di cocaina introdotta nei confini statunitensi. Un dato che non può essere evidenziato “anno per anno” perché «la cocaina che viene consumata negli Stati Uniti di oggi potrebbe essere stata prodotta fino a un massimo di due anni fa in Sud America. Fare un calcolo anno su anno è impossibile».

Pronta, naturalmente, la contro-replica pubblicata dai giornalisti di Narcoleaks, che hanno definito del tutto insufficiente quanto replicato da Zobeck:«Il nostro monitoraggio ha riguardato unicamente sequestri di rilevante entità ignorando quelli inferiori a 20 pounds per evitare di conteggiare cocaina fortemente tagliata con altre sostanze. Perciò è improprio l'esempio della cocaina “tagliata” che circola nelle strade di Los Angeles», così come sarebbe “campata in aria” la “teoria degli stoccaggi” - quella cioè che vorrebbe la cocaina introdotta in un paese derivante dalla produzione di più anni – in quanto «i grandi sequestri hanno quasi sempre riguardato cocaina in movimento (via mare, terra o aria) e quasi mai cocaina giacente e rinvenuta in nascondigli» ed anche perché da molti anni le forze armate americane «stimano un flusso della cocaina annualmente diretta verso gli Stati Uniti molto superiore alla stima Usa della produzione mondiale (ad esempio, per il 2008, il Generale Douglas Fraser ha stimato il flusso tra 1.200 e 1.400 tonnellate, mentre la stima degli Stati Uniti della produzione mondiale era di 695 tonnellate, sia pure di cocaina pura al 100%)».
Ultima “contro-replica” sulle stime: «Per la stima della produzione gli Stati Uniti riconoscono che si può, tutt'al più, indicare un range piuttosto ampio ma, nonostante ciò, continuano ad affermare categoricamente, da mesi, sui media internazionali, il presunto sorpasso della produzione peruviana rispetto a quella colombiana per qualche decina di tonnellate». Senza risposta, infine, le altre domande rivolte all'amministrazione Obama (con le quali avevamo concluso l'articolo di due giorni fa). «Far chiarezza sul traffico di cocaina è il dovere che ognuno di noi ha nei confronti della collettività internazionale».

La guerra dei “narco-numeri” sembra tutt'altro che conclusa. E mentre l'amministrazione Obama si preoccupa di ben apparire sui media internazionali – o, quanto meno, su quelli italiani – la cocaina continua ad essere prodotta e ad invadere le strade del mondo, indipendentemente dal fatto che siano 700 o 734.SB

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/12/la-guerra-dei-narco-numeri-di-obama.html;
[2] Cocaine Seizures Outstripping Production? Not Exactly, di Terry Zobeck, Office of National Drug Control Policy, 7 dicembre 2011;

Perù, sciopero a oltranza per l'ecosistema


Lima (Perù) - Si chiama “progetto Conga” il motivo per il quale gli abitanti della parte nord del Perù sono scesi in piazza, ormai da giorni, in segno di protesta. Qualora andasse in porto, il progetto – la creazione di una miniera d'oro a cielo aperto – provocherebbe la distruzione dell'ecosistema di tutta la regione e gravissime conseguenze sociali ed economiche per le famiglie coinvolte.

Il progetto – considerato l'investimento minerario più importante della storia del Paese - dovrebbe costare 4,8 miliardi di dollari alla Newmont Mining Corporation di Denver, in Colorado, che ha stabilito nel 2015 la fine dei lavori e l'inizio della produzione aurifera. Troppi soldi in ballo perché Ollanta Humala, dal luglio scorso presidente del Perù, potesse schierarsi dalla parte della popolazione, che infatti si è vista schierare contro l'esercito. La risposta della popolazione è stata chiara: mobilitazione pacifica permanente e sciopero indefinito nella zona di Cajamarca, una delle quattro zone colpite dal progetto insieme alle province di Celendin, Hualgayoc e Contumaza, i cui corsi d'acqua saranno invece convogliati in un grande bacino costruito appositamente dalla compagnia statunitense, che ha dato mandato alla peruviana Yanacocha di lavorare sul territorio

Si scrive Humala, si legge Fujimori? Questo – come ricorda il sito PeaceReporter – è il primo banco di prova del presidente, «e il fatto che abbia indetto lo stato di emergenza nazionale, inviando militari a placare la manifestazione», come scriveva ieri Alessia Marucci, è già un segnale abbastanza chiaro di quale sarà la sua politica, nonostante la legge di consulta previa varata lo scorso 7 settembre parlava apertamente dell'obbligo per lo Stato di raggiungere per determinati interventi il consenso delle popolazioni indigene. La mente torna così ai tempi della dittatura di Alberto Fujimori, che ha percorso la storia del paese negli anni Novanta, contraddistinguendo il proprio mandato con la svendita delle ricchezze naturali peruviane.
La miniera – scrive Isabel Guerra sul blog “Palabras van y Vienen”[1] - dovrebbe produrre tra le 580 e le 680 mila once d'oro all'anno, creando cinquemila nuovi posti di lavoro per una guadagno compreso tra gli 800 ed i mille milioni di dollari dalle sole concessioni e tasse minerarie per i governi locali.

Vista la forte opposizione sociale, al terzo giorno di protesta la Buenaventura-Newmont si era vista costretta a dichiarare la sospensione del progetto. Questo però non è bastato per concludere la protesta della popolazione, che vede invece come unico obiettivo raggiungibile la cancellazione totale dello stesso. Il blog “El Maletero – Red Verde Cajamarca”[2] dà le cifre della protesta: «Si tratta di 68.39 ettari di lagune piene d'acqua. Vi potete immaginare quanti metri cubici sono contenuti da una simile estensione di acqua? E quanti ettari di patate, mais, grano, orzo, piselli ed erba non verrebbero più coltivati?»

L'eco della protesta è arrivato fin nella capitale, dove sono stati indetti presidi e manifestazione in solidarietà con la popolazione di Cajamarca. Anche questa protesta, come quelle che hanno coinvolto – e stanno ancora coinvolgendo – il Nord Africa, vede un forte uso di internet, dove fioriscono pagine web e blog che ospitano la campagna per la cancellazione del progetto Conga.

Insomma, chi sostiene che la prossima guerra sarà per l'acqua, forse, non ha tutti i torti.SB

Note
[1] Minas Conga: oro, agua, inversiones… y diálogos de sordos. di Isabel Guerra, "Palabras Van y Vienen", 8 novembre 2011;
[2] ¿“Prótesis" hídricas por lagunas y manatiales naturales? di Andres A. Caballero H., "El Maletero" "Red Verde Cajamarca", 7 novembre 2011

La guerra dei "narco-numeri" di Obama

Washington - Sequestrare più cocaina di quanta se ne è (ufficialmente) prodotta. È quello che è avvenuto nei giorni scorsi tra Washington, Bogotà e l'Onu, che hanno aperto un nuovo fronte della lotta al narcotraffico. Quello delle cifre.

Le 34 tonnellate fantasma. Sembra un po' l'italianissima diatriba sulle manifestazioni di piazza, quando le associazioni che scendono in protesta danno ai media determinate cifre, che non sono mai identiche a quelle degli organi istituzionali. 734 sono le tonnellate di cocaina sequestrate da gennaio alla fine di novembre. Una cifra sostanzialmente impossibile da raggiungere, stando a quanto sostiene il Dipartimento di Stato americano, secondo il quale vengono prodotte “solo” 700 tonnellate di cocaina. E la riappacificazione numerica sembra lontana dall'essere sanata, come evidenziano da Narcoleaks (www.narkoleaks.org), il progetto – nato dal lavoro di alcuni giornalisti e ricercatori italiani in collaborazione con l'agenzia di stampa Redattore Sociale per analizzare gli sviluppi del traffico di cocaina nel mondo – che ha dato la notizia.
Al 31 dicembre, stimano dall'agenzia, verranno sequestrate tra le 744 e le 794 tonnellate di polvere bianca. «Come dire: il contadino dice di avere dieci polli e la volpe gliene mangia dodici. E tuttavia il contadino riesce a vendere comunque polli al mercato».

Proprio da fonti americane arriverebbe la smentita ufficiale. La capitaneria di porto americana ha infatti evidenziato in un documento[1] che la quantità di cocaina transitata o in transito verso i confini statunitensi sarebbe di ben 771 tonnellate, di cui l'85 per cento trasportato via mare. Il Dipartimento di Stato – in compagnia dell'Ufficio Onu per la droga e la criminalità (Unodc) – sostiene invece che il traffico verso il paese a stelle e strisce si sarebbe ridotto a 200 tonnellate.
Unodc e autorità americane, poi, avrebbero anche stilato la classifica dei paesi produttori, dove il Perù avrebbe superato la narco-produzione colombiana. «Un'affermazione smentita dai dati sui sequestri» - rispondono invece i giornalisti di Narcoleaks - «L'ultima stima fornita dagli americani sulla produzione annua di cocaina in Colombia parla di 290 tonnellate. Ad oggi, però, i sequestri di cocaina colombiana effettuati da diversi paesi è parti a 351,8 tonnellate, cioè al 121,3 per cento della produzione colombiana stimata dal Dipartimento di Stato americano».

La smentita, questa volta, arriva dai diretti interessati con un comunicato ufficiale della Policia Nacional de Colombia[2] nel quale si evidenzia il ritrovamento di un “maxi cristalizadero” (come si chiamano i laboratori di produzione della cocaina) con una capacità produttiva tra i 500 e gli 800 chili di cocaina al giorno, cioè tra le 182 e le 292 tonnellate annue. «Se prendiamo per vera la produzione annua stimata dal Dipartimento di Stato americano di 290 tonnellate», continuano da Narcoleaks, «vuol dire che in Colombia esiste un solo laboratorio di cocaina. E questo è davvero ridicolo».

In conclusione, le domande che Narcoleaks rivolge direttamente a Barack Obama, al Segretario di Stato Hillary Clinton ed al direttore dell'Office of National Drug Control Policy, Gil Kerlikowske:
  1. Come è possibile che la quantità di cocaina sequestrata sia superiore a quella prodotta secondo i vostri dati ufficiali?
  2. Come è possibile che il Dipartimento di Stato affermi che nel mondo si producano 700 tonnellate di cocaina, quando la U.S. Guard Coast afferma che il solo traffico di cocaina dal Sud America agli Usa è di ben 771 tonnellate?
  3. Come è possibile che diverse autorità americane siano in netta contraddizione tra di loro?
  4. Perché si continua ad affermare che la produzione di cocaina colombiana è calata quando tutti i dati disponibili dicono il contrario?
  5. Alla luce di queste contraddizione, sono giustificati i miliardi di dollari spesi per finanziare il Plan Colombia? SB

Note
[1] Coast Guard Cutters Bertholf, Boutwell nab drugs, smugglers on high seas, U.S. Coast Guard, 1 dicembre 2011;
[2] Contundente golpe a la banda criminal “ERPAC”, Policia Nacional de Colombia, 14 ottobre 2011

Ossezia del Sud, a un voto dalla guerra civile

Tskhinvali (Ossezia del Sud) - In questi giorni, lo abbiamo visto dai principali media, la Russia è stata al centro di una tornata elettorale che ha visto – come era prevedibile – la vittoria del partito Russia Unita di Vladimir Putin, nonostante un sostanzioso calo nei consensi forse meno prevedibile (anche se qualcosa era intuibile dai fischi ricevuti da quest'ultimo allo stadio Olimpiski di Mosca qualche giorno prima del voto[1]).
Nelle stesse ore, però, la Corte suprema decideva di annullare la tornata elettorale tenutasi in Ossezia del Sud, dove l'auto-proclamazione a presidente di Alla Zhioieva potrebbe portare presto ad una nuova guerra civile.

Vincitrice al ballottaggio con il 56 per cento delle preferenze , la campagna elettorale della Zhioieva si era basata sulla promessa che i soldi che il governo russo stanzia per la ricostruzione del paese a seguito dell'aggressione georgiana del 2008 non sarebbero finiti in mano a burocrati corrotti ma sarebbero serviti per ricostruire case, ponti, ospedali, scuole e tutto il necessario.
Vittoria che, dunque, è rimasta indigesta per tante persone. Innanzitutto per Anatoly Bibilov, designato successore – cioè con un piede e mezzo alla presidenza - dell'ex presidente Eduard Kokoity. E poi alla “casta” osseta, che ha – attraverso il ministro degli Esteri russo – preteso che la Zhioieva accetti l'annullamento del voto e si ripresenti alle nuove elezioni fissate il prossimo 25 marzo.
Zhioieva che, da quell'orecchio, proprio non ci sente. «Se la corte suprema non ritirerà entro oggi il suo verdetto la leadership della repubblica si prenderà tutta la responsabilità di futuri sviluppi. Mi appello al presidente russo Medvedev perché si scongiuri una guerra civile».

L'opposizione ha quindi deciso di istituire sit-in di protesta permanenti di fronte ai palazzi del governo. In attesa della prossima mossa.
Dall'Unione Europea, nel frattempo, si limitano a «non riconoscere il quadro costituzionale e legale nel quale si sono svolte le elezioni», che è poi la stessa posizione tenuta dalla Georgia.SB

Note
[1] Putin fischiato a torneo arti marziali, censura in tv>, Euronews 21 novembre 2011

Pugnala un bambino afghano che gli chiede del cioccolato, 18 mesi al granatiere Daniel Crook

Distretto di Nad 'e Ali, Provincia di Helmand (Afghanistan) - La vicenda risale a marzo del 2010, ma le autorità britanniche ne hanno dato notizia solo nei giorni scorsi. Il ministero della Difesa britannico ha reso nota l'espulsione dall'esercito, con relativa condanna a 18 mesi di carcere, per Daniel Crook, che in servizio in Afghanistan lo scorso anno ha, sotto gli effetti dell'alcol, accoltellato un bambino. Il motivo? Apparentemente nessuno.

Stando a quanto racconta Haji Shah Zada, padre del piccolo assassinato, Daniel Crook, che nell'esercito ricopriva il ruolo di granatiere, avrebbe fermato due persone in bicicletta, tra i quali il piccolo Ghulam Nabi, 10 anni, ai quali il militare avrebbe intimato di tornare indietro.
Secondo quanto riportato dalla Procura che ha indagato sul caso, il bambino stava chiedendo a Crook – che stando la ricostruzione fatta dal The Telegraph[1] non stava pattugliando e si trovava da solo – di comprargli un dolce di cioccolata. Per tutta risposta è stato pugnalato con la baionetta nella zona lombare.

Secondo quanto emerge dalla ricostruzione fatta dalla corte marziale che lo ha processato, il soldato era così ubriaco da essere stato costretto a ricorrere alle cure mediche prima di iniziare il suo turno di pattuglia. Proprio l'evidente stato in cui si trovava rendeva necessaria la confisca del suo fucile, confisca alla quale Crook aveva sostituito una baionetta e due granate. Si deduce, alla luce di questo, anche il motivo per cui al momento del fatto Crook si trovasse da solo.

Tornato alla base, Crook avrebbe fatto rapporto sull'accaduto, pur non sapendo spiegare – né ai suoi commilitoni né, successivamente, alla corte marziale – il motivo di quel gesto.

«I militari britannici sono in Afghanistan per ricostruire il paese e scovare gli insorti, non per pugnalare un bambino», ha detto il padre di Ghulam, che ha anche raccontato come il piccolo, nonostante siano passati ben diciotto mesi, non sia ancora tornato a scuola e che i militari abbiano “chiuso la pratica” indennizzando la famiglia con 800 dollari, nonostante le spese sostenute per le cure siano state ben più alte e la richiesta di risarcimento di 40mila dollari. «Lo abbiamo portato di corsa all'ospedale di Lashkar Gah, ma i dottori ci hanno detto che non potevano curarlo e ci hanno mandato a Kandahar», ha concluso.

Un portavoce del ministero della difesa britannico ha comunque tenuto a sottolineare come il primo obiettivo delle truppe britanniche e dell'Isaf sia quello di proteggere i civili, e che ogni trasgressione subisce profonde ed accurate indagini.

La vicenda, evidenzia il Guardian[2], è solo l'ultimo episodio di una serie di procedimenti aperti contro militari britannici, accusati di causare vittime tra i civili afgani, come quello che ha coinvolto il sergente Mark Leader ed il capitano Jody Wheelhouse della Royal Marines, artefici dell'aggressione a Mohammad Ekhlas, 48enne prigioniero «ferito e disarmato», come ha evidenziato Michael Hunter, il giudice della corte marziale a cui è stato affidato quest'ultimo procedimento. Dal marzo 2010 sono sei i militari britannici finiti davanti alla corte marziale, per un totale di 99 procedimenti dal 2005 al marzo di quest'anno.

I militari delle forze nazionali e dell'Isaf sono in Afghanistan per «ricostruire il paese e proteggere i civili». Ma con quali standard? È davvero così semplice, per un militare, prelevare delle armi ed andarsene in giro? E se, per ipotesi, invece che un bambino in bicicletta il Daniel Crook della situazione avesse trovato un mercato e avesse iniziato a sparare a casaccio, cosa sarebbe successo? Se fosse stato “dall'altro lato della democrazia”, se fosse stato un kamikaze saltato nel bel mezzo di un mercato la risposta è ben nota. Ma il piccolo Ghulam non è altro che uno dei tanti – troppi - “effetti collaterali” dell'esportazione della democrazia.SB

Note
[1] British soldier jailed for stabbing 10-year-old Afghan boy, di Sean Rayment, The Telegraph 3 dicembre 2011;
[2] British soldier fired for stabbing Afghan boy, di Nooruddin Bakhshi, Rob Evans, Richard Norton-Taylor e Jon Boone, The Guardian 2 dicembre 2011