Processo Lea Garofalo, l'onore e l'acido



Milano, 31 ottobre 2011 – Lea Garofalo è una collaboratrice di giustizia, compagna di Carlo Cosco, 'ndranghetista, scomparsa tra il 24 ed il 25 novembre 2009 a Milano. Era passata dalla parte della giustizia per testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella rivale dei Mirabelli. Tre anni prima, per stare vicino a Denise, la figlia oggi 19enne che con tenacia si batte affinché il nome della madre non venga infangato, decide di abbandonare il programma di protezione, lasciando la località segreta nella quale viveva per tornare in famiglia. Ma per i mafiosi chi parla non può poi tornare indietro, e per questo gli uomini di Cosco uccidono Lea, dopo averla torturata, e la sciolgono nell'acido.

A parlare, lo scorso 27 ottobre, è Angelo Salvatore Cortese, affiliato alla 'ndrina calabrese dei Dragone (poi passato con Nicolino Grande Aracri, boss appartenente alla famiglia operante tra Cutro, la Lombardia, il Veneto ed alcune zone dell'Emilia Romagna) arrestato nel 2000 nell'ambito dell'operazione “Scacco matto” e pentitosi il 17 febbraio 2008.

«Fin da subito» - ha esordito Cortese - «ho instaurato con Cosco un buon rapporto: chiacchieravamo, cucinavamo insieme all'interno della cella. Io lo conoscevo già, un mio compaesano mi aveva parlato di lui e mi aveva detto che aveva problemi con la moglie, che non lo andava più a trovare in carcere impedendogli di vedere anche la figlia e che aveva instaurato una relazione con un altro uomo. E questa cosa qui, signor giudice, per un uomo è un disonore, a maggior ragione per un uomo di 'ndrangheta».
Proprio l'onta del disonore è, secondo Cortese, il motivo per cui Lea Garofalo fu uccisa. L'idea, come spesso capita nelle questioni di mafia (o di 'ndrangheta, come in questo caso) era quella di far passare l'omicidio come un delitto passionale, ma prima bisognava chiedere l'autorizzazione. «Secondo le nostre leggi», ha infatti evidenziato il teste, «la decisione di uccidere un'adultera spetta per prima cosa alla sua stessa famiglia, però se non si decide allora può intervenire la famiglia della persona tradita che può anche chiedere ad altri di ucciderla, come ha fatto Carlo Cosco. È una questione di onore e rispetto».

A Cortese è seguito Carmine Cosco – per il quale non è stato specificato alcun grado di parentela con gli imputati, per cui dovrebbe trattarsi di semplice omonimia – carabiniere chiamato a rispondere dell'accesso alla banca dati del ministero dell'interno avvenuto dalla sua postazione informatica alla caserma di Lissone alle ore 21.20 del 20 novembre 2004 in cui sarebbe stata effettuata una ricerca su Denise Cosco, figlia di Carlo Cosco e Lea Garofalo. «La password che permette l'accesso l'avevo appuntata su un'agenda che avevo messo in un cassetto non chiuso a chiave, quindi accessibile a chiunque. Non ricordo di aver fatto quella ricerca, non ricordo se qualcuno me l'ha chiesta, però chiunque da qualsiasi computer abilitato può entrare avendo username e password, anche da un'altra città». Il carabiniere ha poi aggiunto di non aver mai sentito parlare di Denise, e di avere rapporti con il cognome Garofalo solo perché un suo collega – che seguirà nelle deposizioni – si chiama così.

Gennaro Garofalo e Lea erano cugini, e il teste ha evidenziato i rapporti di stima e amicizia che lo legano a Carlo e Vito Cosco, sottolineando come Denise la vedesse solo durante le feste. Anche lui, però, non ricorda se sia stato lui a fare la ricerca o se, al contrario, lo abbia chiesto a qualcuno (di cui, ovviamente, non ricorda il nome).

Ultima a parlare Francesca Ferrucci, comandante del nucleo operativo dei Carabinieri di Campobasso, alla quale è stato chiesto di ricostruire i momenti successivi l'aggressione a Lea Garofalo del 5 maggio 2009 che, ha evidenziato la teste, «seppur visibilmente sconvolta, era riuscita ad asserire con certezza che il mandante dell'aggressione era senz'altro Carlo Cosco».

La prossima udienza, che si svolgerà il prossimo 24 novembre, si concentrerà invece sulle tante intercettazioni a carico di Massimo Sabatino, che secondo l'accusa entrò in casa della Garofalo, fingendosi tecnico della lavatrice, con il chiaro intento di ucciderla.

Ma la strage di via D'Amelio c'è stata davvero?



Caltanissetta, 31 ottobre 2011 – Le indagini per la strage di via D'Amelio sono da rifare. Nei giorni scorsi, infatti, la corte di appello catanese ha sospeso la pena – così come richiesto dal procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato – per sei degli otto detenuti a cui era stata inflitta la pena dell'ergastolo per la strage del 19 luglio 1992. Rimangono in carcere Gaetano Scotto, che deve espiare altre condanne definitive, e Vincenzo Scarantino, il pentito che pentito non è, anch'egli alle prese con altre condanne.

I giudici etnei, adeguandosi alla giurisprudenza in materia, hanno sostenuto come le nuove rivelazioni di Gaspare Spatuzza ribaltino il quadro sull'attentato al giudice Paolo Borsellino, ma che queste, da sole, non bastino a chiedere la revisione dei verdetti di colpevolezza. Le responsabilità di quelli che – a questo punto – diventerebbero i nuovi accusati per la strage (in primis proprio Spatuzza), devono essere accertate con sentenza passata in giudicato, altrimenti non può rifare alcun processo. Da qui la decisione di scarcerazione, dato che i sei sarebbero dovuti rimanere in carcere, in maniera ingiusta, come sottolineano i giudici, fino alla definitiva sentenza di punizione dei veri colpevoli.

Ancora una volta si rivela fondamentale il ruolo dei pentiti. Gaspare Spatuzza da un lato, Vincenzo Scarantino dall'altro. Il primo, infatti, auto-accusandosi del furto della Fiat 126 utilizzata come autobomba sconfessa le dichiarazioni del secondo (e scagionando così il gruppo del boss Pietro Aglieri).

Il ruolo di Scarantino, a questo punto, passa da pentito-chiave per i magistrati a falso pentito, nonostante fin da subito fossero state denunciate le pressioni con cui gli inquirenti avrebbero estorto le confessioni necessarie a creare la posizione di Scarantino, i cui familiari parlarono da subito di verbali studiati a memoria, di istruzioni scritte a margine dei verbali, di suggerimenti e aggiustamenti delle dichiarazioni fornite. Lo stesso (ex) super-teste aveva raccontato di essere stato più volte minacciato di morte (per impiccagione o per iniezione del virus dell'Aids) e di sevizie degne delle prigioni di Guantanamo Bay, come la privazione del sonno. Nella sua prima ritrattazione – siamo nel 1998 - sostenne addirittura di non sapere nemmeno dove fosse via D'Amelio. I poliziotti che, ai tempi, si occupavano delle deposizioni, sono oggi indagati come autori del depistaggio in un'inchiesta ancora lontana dall'essere chiusa.

Le nuove indagini si starebbero concentrando, nuovamente, sulle modalità di esecuzione dell'attentato, che stando alle nuove ricostruzioni – fornite dal nuovo pentito Fabio Tranchina – vedrebbero Giuseppe Graviano (colui che, stando alle ricostruzioni, azionò il pulsante dell'autobomba) nascosto in un giardino a ridosso di via D'Amelio, ricostruzione che escluderebbe anche il filone legato al Castello Utveggio e dunque all'interesse dei “settori deviati” di Bruno Contrada nella vicenda, anche se sul ruolo dei servizi i magistrati non hanno trovato ancora un punto di accordo.

Per accertare la vera importanza delle dichiarazioni dei pentiti, già a pochi mesi dalla strage, sarebbero bastati dei semplici sopralluoghi, come quello che sarebbe stato necessario per verificare la fondatezza delle informazioni fornite da Salvatore Candura, il primo ad auto-accusarsi del furto dell'autovettura e che non ha saputo neanche indicare dove l'auto fosse stata parcheggiata. Sopralluogo che non fu mai fatto.

Se non si arriverà, in un tempo ragionevole, alla verità, qualcuno potrebbe anche iniziare a raccontare la storia che, in realtà, la strage di via D'Amelio non c'è mai stata.

Messico, di giudici collusi e "muschilli"


Città del Messico, 30 ottobre 2011 – Quando si parla di giornalisti messicani, lo si fa per lo più per raccontarne le minacce o, peggio, l'omicidio. Oggi, invece, parliamo di giornalismo messicano per una buona notizia. La Fundación Internacional de Mujeres en los Medios de Comunicación (IWMF, Fondazione Internazionale delle donne nei mezzi di comunicazione), lunedì scorso ha infatti consegnato il premio “Courage in Journalism” alla direttrice del settimanale Zeta, Adela Navarro Bello (nella foto), per continuare a raccontare i cartelli nonostante due giornalisti del settimanale siano stati uccisi e lei stessa sia stata minacciata. «È meglio non pensare di avere paura, perché con la paura non si fa giornalismo, si pensa solo ad amministrare l'informazione e a cosa conviene pubblicare in base a questo timore», dice la giornalista, da sei anni alla guida del settimanale e che l'anno scorso ha ricevuto, a Ferrara, il premio Anna Politkovskaja[1].
«Abbiamo un impegno preso 31 anni fa con la fondazione del settimanale Zeta. Un impegno con chi ci ha preceduto, con chi ha dato la vita e con la nostra società» ha dichiarato, ricordando Héctor Félix, co-fondatore del settimanale assassinato nel 1988, ed il co-editore Francisco Ortiz, assassinato nel 2004 ed accettando il premio a nome di tutta la redazione del settimanale.

Narcocavilli. Proprio il settimanale Zeta, nelle scorse settimane[2], ha raccontato la storia di Hugo Carlos Mendoza Núñez, promosso per aver fatto male il suo lavoro. Ma partiamo dall'inizio. Il 26 luglio 2007 René Pinal, imprenditore, denuncia l'espropriazione di 244 ettari di un terreno, recuperato al mare, in una zona conosciuta come “San Cristóbal”, a Cabo San Lucas (all'estremo sud dello stato della Bassa California del Sud) facenti parte di un terreno – 857 ettari – acquistato nel maggio 1983 da María Cristina Orduño Durán per 450mila dollari. All'interno dell'appezzamento, Punal creò un campo per tartarughe, creando un associazione per la tutela di questa specie. Per rientrare degli investimenti, decise di mettere in vendita 100 ettari della sua proprietà. Il primo interessato fu il suo vicino, Dagoberto Gil Tlatelpa, che di mestiere comprava e rivendeva terreni rustici della zona a clienti per lo più stranieri e che da subito presentò a Pinal alcuni acquirenti, tra i quali Carlos Antonio Sosa Valencia, interessati al terreno. Qualche mese dopo – e torniamo al momento della denuncia – René Pinal riceve una telefonata, dall'altro capo tal Mike Houston, che aveva saputo da Dagoberto Gil Tlatelpa dell'avvenuta vendita del terreno.

Parlamento Europeo, approvata la relazione sulla criminalità organizzata in Europa


Palermo, 30 ottobre 2011 – La criminalità organizzata arriva al Parlamento Europeo. No, nessun parlamentare indagato o arrestato, ma nei giorni scorsi è stato approvato, in quella sede, il rapporto sulla criminalità organizzata presentato da Sonia Alfano[1], che costituisce il primo riferimento ufficiale delle istituzioni europee al problema. Sonia Alfano, relatrice sull'argomento, ha dedicato il suo lavoro alle vittime innocenti della mafia.

584 favorevoli, 48 astenuti e 6 contrari. Questo è stato il risultato della votazione con cui Strasburgo consegna alla Commissione Europea, al Consiglio ed agli Stati membri un quadro transnazionale di misure preventive e di contrasto del fenomeno mafioso che però non rappresenta altro che il primo passo di una presa di coscienza – e della relativa normazione politica – che ormai non può più attendere, data la comprovata globalizzazione del fenomeno.

Tra gli strumenti di cui si doterà l'Europa, è prevista entro gennaio la creazione della Commissione parlamentare antimafia europea, che entro i primi sei mesi di attività dovrà fornire i risultati relativi alle indagini sulle organizzazioni criminali operanti sul continente.
A ciò dovrebbe aggiungersi anche la creazione di una “super procura” europea, correlata con la Corte di giustizia, ed il potenziamento dell'Ufficio europeo antifrode e dell'Ufficio di Polizia europeo (Europol).
Nei prossimi mesi, poi, il Parlamento Europeo è chiamato a creare un corpus normativo che uniformi ogni stato membro, così da non rischiare di dover mandare all'aria operazioni fondamentali per le leggi diverse presenti in due paesi europei (e di cui si lamentava il procuratore Nicola Gratteri nell'intervista a Gianluigi Nuzzi allo scorso Festival del giornalismo di Perugia[2]). È bene sottolineare, comunque, che la trasformazione delle direttive comunitarie in leggi nazionali spetta ai singoli Stati, senza che vi sia alcun limite temporale (si pensi alla ratifica della convenzione sul “traffico d'influenza”, che punisce anche l'atto di mediazione tra corrotto e corruttore, firmata dal nostro paese nel 1999 e non ancora ratificata).

Nella relazione sono state anche definite – guardando evidentemente allo specifico del caso italiano – le norme sulla incandidabilità delle persone condannate per reati correlati alla criminalità organizzata, compresi favoreggiamento e corruzione. Previsti anche l'estensione del reato di associazione mafiosa, ed una norma unitaria in merito alla confisca dei beni.

«Al momento con il mandato europeo non si possono nominare periti, non si possono fare interrogatori, non si possono neanche utilizzare le impronte digitali: in pratica non è possibile indagare», ha dichiarato il procuratore Generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato durante il dibattito organizzato sul tema a Strasburgo.


Note
[1] Relazione sulla criminalità organizzata nell'Unione Europea
[2] http://webtv.festivaldelgiornalismo.com/doc/1057/viaggio-nella-ndrangheta-del-nord.htm

Fondi neri per appalti, parla Di Vincenzo



Caltanissetta, 25 ottobre 2011 – È stato presidente di Confindustria Caltanissetta, oggi Pietro Di Vincenzo (nella foto) si ritrova davanti alla Direzione distrettuale antimafia nissena con l'accusa di riciclaggio, estorsione ed intestazione fittizia di beni, dopo che il Gruppo d'investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di Finanza lo ha arrestato nel giugno dello scorso anno. E fa i nomi.

Al momento dell'arresto, vennero ritrovate presso la sua abitazione una lista dettagliata di esponenti politici – dalla Dc al Pci passando per Forza Italia ed i Ds – ed una annotazione del Gico contenente i beni da sequestrargli. Documento che, come racconterà negli interrogatori del 6 ed 11 agosto dello scorso anno, gli è stato fatto pervenire attraverso don Pippo Macrì, che di Di Vincenzo è il confessore.
«La politica» - racconta - «faceva da copertura con la pubblica amministrazione per consentire la realizzazione dei pubblici appalti conseguiti dalle mie società, perché essa interveniva sulla burocrazia».

I rapporti con la politica – di destra come di sinistra senza disegnare il centro – vengono intrattenuti in modi diversi, dal pagamento dei manifesti elettorali al finanziamento di intere campagne elettorali nonché veri e propri regali in denaro effettuati tramite fondi neri che l'imprenditore cataloga in libri contabili con un nome in codice per ogni politico presente sulla lista, tra i quali – come scrive il mensile “S” nell'edizione in edicola – l'attuale presidente dell'Enac Vito Riggio, il vice presidente dell'Antimafia Siciliana Rudy Maira, l'ex deputato forzista Ugo Grimaldi fino ai democratici Mirello Crisafulli e Beppe Lumia, che avrebbe ottenuto 100 milioni di lire attraverso l'intercessione del presidente del consorzio Asi che stava costruendo l'impianto di depurazione di Carini. «Conoscevo personalmente Lumia che avevo avuto parola d'apprezzamento nel consiglio comunale di Gela, l'ho incontrato a Roma un mese dopo all'edicola di piazza Argentina e ho capito che il denaro era arrivato a lui», ha confermato l'imprenditore.
Beppe Lumia, comunque, ha da subito smentito – con una nota del 21 ottobre 2011[1] – ha seccamente smentito la vicenda, dichiarando peraltro di essere stato il primo, insieme all'onorevole Crocetta, ad imputare la collusione mafiosa all'imprenditore.

Tutto questo, spiega Di Vincenzo, per velocizzare le operazioni burocratiche delle sue ditte per i lavori degli appalti vinti. «Il ministro o l'uomo politico trasmette un messaggio positivo alla burocrazia, da quel momento il contratto anziché impiegarci 8 mesi per essere stipulato si stipula subito».

Alla magistratura, ora, il compito di accertare la verità.

Note
[1] http://www.sudpress.it/wp-content/uploads/2011/10/21/di-vincenzo-ho-dato-soldi-a-lumia-e-a-burtone/Nota-Lumia3.jpg

White list, l'antimafia dei fatti e delle attese


Palermo, 25 ottobre 2011 – In Parlamento, tra una legge ad personam ed un processo breve, si trovano anche alcune proposte degne di nota. Tra queste un interessante strumento che, se applicato, permetterebbe di rivedere la forza della criminalità organizzata in settori strategici dell'economia italiana, in primis nell'edilizia.
Ma questo strumento – white list, si chiama – giace però a prendere polvere in qualche faldone parlamentare.

Cos'è la white list? È una lista, redatta dalle singole prefetture, nelle quali vengono inserite le imprese “pulite”, quelle cioè che non fanno accordi con la criminalità e tantomeno ne sono diretta espressione.

«Al momento» - sostiene Ignazio Giudice, della Federazione italiana lavoratori legno edili e affini (Fillea) della Cgil - «il sistema delle white list è, per così dire, in stand by. Molte prefetture non hanno mai stilato elenchi in grado di raccogliere i riferimenti alle imprese sane e, per questa ragione, da tutelare nell'assegnazione soprattutto degli appalti pubblici».
Questo, nonostante la direttiva del ministro Maroni – del giugno 2010 – con la quale si richiamava esplicitamente la necessità di redigere tali liste, in particolare in un settore, quello dell'edilizia, che sembra essere tra i più facili da infiltrare.

«È vero che, soprattutto al sud, le prefetture sono impegnate su vari fronti» - continua Giudice - «ma è altrettanto ver che senza queste liste difficilmente le amministrazioni pubbliche potranno sempre compiere i necessari controlli volti ad impedire l'assegnazione di appalti a società perlomeno grigie».

Se le Prefetture non brillano per velocità di redazione delle liste, il Parlamento non se la passa poi tanto meglio.
Stando all'Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance), infatti, l'articolo 5 del disegno di legge che dovrebbe andare direttamente a prevenire e reprimere “la corruzione e l'illegalità nella pubblica amministrazione” è invece troppo generico sia nell'individuare i metodi che nella periodicità dei controlli.
In particolare – solleva il caso Vincenzo Bonfanti, delegato Ance per i rapporti con le istituzioni – la legge non prevede l'obbligo di iscrizione a queste liste che dunque, qualora diventassero realtà, non sarebbero altro che delle “raccomandazioni” delle quali si potrebbe tranquillamente non tener conto all'atto dell'assegnazione dell'appalto, senza contare che in questo modo si creerebbero solamente dei veri e propri “cartelli” e niente più.
A riprova dell'inutilità di liste senza obbligato di iscrizione i costruttori portano, inchieste giudiziarie alla mano, quel che è avvenuto e sta avvenendo nella ricostruzione in Abruzzo.

Movimento terra, smaltimento rifiuti, fornitura materiali, autotrasporti, servizi di guardiania sarebbero alcuni dei settori “colpiti” dall'applicazione delle liste. Settori che, come sempre più raccontano le cronache, sono ormai diventati “ad alta infiltrazione mafiosa”.
Con le white list, invece, ogni impresa fornitrice viene analizzata dalla Prefettura in collaborazione con le forze dell'ordine.

«Il sindacato» - ha concluso Ignazio Giudice - «non può che sperare nell'avvio di un sistema effettivamente capace di innalzare un muro all'accesso nei cantieri, favorendo le vere imprese e punendo, sonoramente, quelle che impongono il loro dominio partendo da basi patrimoniali illegali. Ne va del futuro di centinaia e centinaia di lavoratori».
E dell'Expo 2015, per il quale già si parla da tempo di tentativi di infiltrazione.

Marina di Ragusa, il porto e l'inchiesta

Un porto, quello di Marina di Ragusa, costruito non si sa bene perché e non si sa bene con quali soldi. Un'azienda – la Tecnis spa – che si occupa di grandi appalti ma che utilizzerebbe materiale scadente e che, tra intercettazioni e collaboratori di giustizia, sembrerebbe essere vicina ai clan di Cosa Nostra. Nel mezzo, a Catania, i nuovi “quattro cavalieri dell'apocalisse”.


Ma questa storia, in realtà, inizia da una stalla. 104 chilometri più su.

La regola. Davanti a quella stalla ci sono due uomini, Enzo ed Angelo si chiamano, che stanno discutendo di affari. Tutti e due amano le corse, in particolare quelle dei cavalli. E forse è di quello che stanno parlando Enzo ed Angelo davanti alla stalla. O forse stanno parlando di qualcos'altro, dato che di lì a poco il corpo di Angelo verrà ritrovato da un pastore nelle campagne di Ramacca – nel catanese – insieme al corpo, anch'esso nelle stesse condizioni, di Nicola. Enzo, invece, verrà arrestato, insieme ad altre 30 persone, nell'ambito dell'operazione denominata “Arcangelo” della Direzione investigativa antimafia.

L'anno è il 2007 e quelli che abbiamo nominato fino ad ora sono affiliati del clan Santapaola. Enzo ed Angelo sono cugini di primo grado del boss Benedetto, meglio noto come “Nitto”. Nicola, ucciso insieme ad Angelo, di cognome fa Sedici e, dicono gli inquirenti, prima di essere ucciso era uno dei fedelissimi.
Di Nicola Sedici, per il resto di questa storia, non sentiremo più parlare. Enzo ed Angelo Santapaola, invece sono – secondo le intercettazioni della Dia – gli inventori della “regola”.

«La regola...gliela dobbiamo modificare. Devono avere una nuova regola...Noi soldi non ne vogliamo più, vogliamo un importo sui valori...vedete (riferendosi alle vittime, ndr) l'importo del lavoro e gli lasciate un pensiero a Messina e il pensiero a Catania». A parlare, riveleranno le intercettazioni, è Angelo, che sta spiegando al cugino Enzo come applicare un nuovo metodo di estorsione alle imprese catanesi che operavano a Messina. Sapevano, i due, che se l'operazione fosse andata a buon fine Enzo avrebbe avuto buone probabilità di diventare il rappresentante provinciale di Cosa nostra a Messina.
L'operazione, in sintesi, era quella di applicare un “extra” del due per cento alla Tecnis S.p.A., che per lavorare già pagava 3.500 euro al mese.

L'uomo che parla. C'è un uomo che quella impresa la conosce bene. E ne sta raccontando, seduto davanti ad una scrivania, a Francesco Massara e Giuseppe Verzera, che di professione fanno i pubblici ministeri. Quell'uomo racconta, anzi scrive, una trentina di pagine in cui sostiene che la Tecnis si sia rivolta a lui per capire a quali ditte rivolgersi per i lavori sul tratto dell'autostrada A20 – la Messina-Palermo – su cui l'associazione temporanea di imprese (o ati) di cui la Tecnis fa parte ha vinto l'appalto.

Rifiuta di firmare un falso certificato medico per Lombardo, il direttore dell'ospedale lo licenzia


Catania, 24 ottobre 2011 – Il 17 maggio del 2010 è una data che il dottor Alberto Lomeo (nella foto), responsabile del reparto di chirurgia vascolare dell'ospedale Cannizzaro di Catania non dimenticherà tanto facilmente. Perché quel giorno, in qualche modo, firmò il suo licenziamento, notificatogli solo lunedì scorso. Il motivo? Essersi messo “di traverso” a Raffaele Lombardo.

L'antefatto. Il dottor Lomeo, infatti, quel 17 maggio decise di non apporre la propria firma sul referto medico con il quale i suoi colleghi diagnosticavano al presidente della Regione un “aneurisma aortico”, in quanto non esisteva alcun esame che giustificasse una diagnosi simile. Oltre a questo, decise anche di denunciare l'accaduto alla Procura.
In quei giorni Raffaele Lombardo era un personaggio “a rischio”, in quanto aveva appena ricevuto la notizia di essere stato indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (reato che poi sappiamo essere stato derubricato a semplice “voto di scambio”), e dunque occorreva – dato l'evidente pericolo di arresto – un modo per evitare il carcere.

Da quel momento i rapporti tra il primario e Francesco Poli, manager dell'azienda messo lì proprio da Lombardo, divennero sempre più tesi, fino ad arrivare alla conclusione del rapporto di lavoro per «comportamento contrario alla correttezza ed alla lealtà», come scritto nelle nove pagine con cui si dà il benservito al dottor Lomeo, il quale ha sottolineato come «il presidente Lombardo, al suo insediamento, ha deciso di sostituire ogni primario o dirigente che non facesse capo a lui con i suoi fedeli. La mia sostituzione da parte del fedele Poli doveva avvenire molto prima ma è stata ritardata dalla vicenda che conosciamo».
A riprova di quanto sostiene, ci sarebbe un passaggio in quella stessa lettera di licenziamento che lascia pochi dubbi sulle reali motivazioni del licenziamento. Il direttore generale, infatti, cita come causa «una particolare vicenda, arbitrariamente resa nota all'opinione pubblica, che ha esposto l'azienda a terzi ad un grave nocumento all'immagine e ha provocato negli organi regionali e giudiziari la legittima preoccupazione e necessità di far luce sui fatti denunciati».

Il motivo “ufficiale” del licenziamento – che in realtà in un paese normale dovrebbe portare a ben altri risultati – sarebbe stata la decisione del primario di chiudere alcune stanze di degenza nel suo reparto in quanto potenzialmente a rischio infezione batterica, che dunque venivano rese inagibili in attesa di disinfestazione.

Rimane poi una interessante domanda: come può un individuo essere colpito da «aneurisma aortico di sede non specificata senza menzione di rottura» senza rendersene conto, dato che lo stesso Raffaele Lombardo dichiarò al freepress d'inchiesta “Sud” - che per aver pubblicato il referto si vide ritardare l'uscita nelle edicole - di essere in buona salute?

Mafie del nord, in arrivo il "Caporal sms"


Modena, 24 ottobre 2011 – La mafia, al nord, non esiste. O almeno questo è quello che credono in molti. E al nord, dicono questi “molti”, si lavora bene. Posto fisso e stipendio in orario. Ma il “posto fisso”, come scriveva qualche giorno fa Laura Galesi sul sito “Terrelibere.org” (Laura Galesi, "Cinque euro l’ora, benvenuti nel caporalato al Nord", terrelibere.org, 15 ottobre 2011, http://www.terrelibere.org/terrediconfine/cinque-euro-l-ora-benvenuti-nel-caporalato-al-nord) è quello di chi sta seduto a casa ad aspettare che qualcuno lo chiami a lavorare. Come a Rosarno, a Nardò e nelle altre zone in cui si lavora sotto caporale.

Lo chiamano “caporalato a squillo”, è uno dei modi in cui si crea quel “made in Italy” che in tanti ancora apprezzano ma che di fatto di italiano, sempre più spesso, ha solo l'etichetta. È il sistema su cui si basa l'industria della macellazione o dei trasporti emiliana, così come quella edilizia delle finte partite Iva lombarde. «Qui non emergono fatti eclatanti come quelli di Rosarno» - spiega Umberto Franciosi della Federazione Lavoratori Agroindustria (Flai) della Cgil modenese - «ma la presenza della mafia si manifesta anche attraverso il lavoro nero ed il nuovo caporalato».

Funziona così: un sms avvisa la sera prima i lavoratori migranti della destinazione del lavoro, così da evitare quegli assembramenti di migranti alle prime luci dell'alba che equivalevano a gridare ai quattro venti che in quella piazza si stava esercitando il reato di caporalato. Il vantaggio di un tipo di sfruttamento di questo tipo sono i 12 euro in meno che l'azienda – chiamarla cooperativa suona eccessivo – risparmia per ogni operaio. Molto spesso, data la denominazione sociale, tra i soci compaiono proprio quei migranti che in realtà svolgono un vero e proprio lavoro di subordinazione. «È una filiera viziata» - continua Franciosi - «perché i migranti sono costretti a fare parte di cooperative delle quali sono soci, anche versando solo un euro. Si tratta di una forma anomala di cooperativa, perché i soci non partecipano alle assemblee sociali e non hanno il contratto specifico, ma sono inquadrati come lavoratori che si occupano di logistica. Tra le due tipologie contrattuali c'è una differenza di circa 2mila euro l'anno a livello contributivo e, in quanto soci lavoratori, possono scendere sotto la soglia contrattuale in casi di emergenza».

I caporali del nord si sostituiscono di fatto alle agenzie interinali e le finte cooperative possono, nella più completa illegalità, affittare i propri lavoratori ad altre aziende. Lavoratori che, spesso, si ritrovano a svolgere lavori completamente diversi da quelli per i quali sono stati chiamati.
Nelle aziende di macellazione emiliane, ad esempio, dove un'alta percentuale di lavoratori provengono dallo Sri Lanka, dalla Nigeria, dal Ghana o dai paesi dell'Europa dell'Est, un migrante prende 11 euro l'ora quando dovrebbe prenderne più del doppio. D'altronde che i diritti sindacali nei loro confronti siano pura utopia non è così difficile da capire. Per loro non esistono leggi sulla sicurezza, ed il corso di formazione inizia la prima volta che ti mettono davanti ad una macchina per tagliare le carni, anche se non ne hai mai vista una prima e non sai nemmeno dove si accende. La loro busta paga, netta, è di 1500 euro, ma i due terzi di quella cifra passano come “trasferta Italia” sulla quale non si applicano contributi né premi, e quello che arriva nei loro portafogli non supera mai i 500 euro.
A Milano le cose non sono poi così diverse. Nella capitale del “caporalato sms” tra il 30 ed il 40% della manodopera in edilizia lavora in nero, e quindici lavoratori su cento vengono reclutati tramite i caporali. I manovali migranti in Lombardia prendono dieci euro l'ora per prestazioni straordinarie, notturne o festive, comprese ferie, malattie e tredicesima per i lavoratori rumeni. Ma, stando a quanto già dal 2008 denuncia la Cisl lombarda, nelle loro tasche arrivano meno di cinque euro l'ora.

Il rischio di denuncia, d'altronde, è molto vicino allo zero. Da una parte le ritorsioni mafiose, dall'altra le leggi nazionali in materia di immigrazione costituiscono spesso il doppio cappio di illegalità al quale i migranti sono costretti a sottostare per lavorare.

Processo Rostagno, le conferme della "super-perizia"


Trapani, 24 ottobre 2011 – Continuano le udienze nell'ambito del processo per l'omicidio di Mauro Rostagno ripreso la scorsa settimana con la deposizione di Giuseppe Linares, l'ex capo della squadra mobile trapanese – oggi a capo della Criminalpol – a cui si deve la riapertura delle indagini tre anni fa.
Più che le persone, in questo nuovo capitolo del processo, ad essere importanti sono i fatti. Quelli della “super-perizia”, in particolare, condotta dal professor Livio Milone, uno dei massimi esperti di scienza balistica e dall'ispettore della polizia Scientifica di Roma, Emanuele Garofalo (che nel curriculum vanta anche le indagini sui delitti di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nonché dell'agente dei servizi Nicola Calipari).

La ricostruzione fatta dai due periti confermerebbe quanto testimoniato da Monica Serra, che la sera dell'omicidio era in macchina con Rostagno, il quale sarebbe stato prima raggiunto da due o tre colpi di fucile sparati da una posizione posteriore rispetto al giornalista, che al momento dell'omicidio, a bordo della sua Fiat Duna, stava imboccando la stradina che lo avrebbe condotto alla sede della comunità terapeutica Saman, da lui fondata e dove viveva.
Alcuni pallettoni rimbalzati, sostiene la perizia, potrebbero averlo ferito anche alla mano sinistra, a conferma di quanto testimoniato dal referto autoptico e gli ultimi due colpi avvertiti dalla testimone, secondo i periti, dovrebbero essere quelli che, esplosi da una calibro 38, avrebbero di fatto “giustiziato” Mauro Rostagno.

Il “metodo” Mazzara. Il professor Milone ha poi dato più di una conferma per quanto riguarda l'esecuzione materiale dell'omicidio ad opera di Vito Mazzara, che usava un particolare modo per “firmare” i propri delitti. Sovraccaricare le cartucce è un metodo utilizzato per andare a caccia di prede particolari, «non certo cinghiali», ha chiosato a conclusione. Altra conferma della presenza di Mazzara sulla scena del crimine sarebbero le striature sulle cartucce, che però – ha precisato il perito – possono essere usate anche per controllare l'efficienza dell'arma o per tenerla sempre pronta all'uso. E chi va a caccia senza essere preda, di solito, l'arma la tiene scarica.

«Ho periziato molti omicidi di mafia, ed il rituale è stato sempre lo stesso: l'uso di un fucile calibro 12 e di una calibro 38, i primi colpi esplosi col fucile per fermare la vittima, la pistola per il colpo di grazia, e la sequenza è quella del delitto Rostagno» ha risposto il perito quando gli è stato chiesto da cosa si potesse dedurre con certezza la mano di Cosa nostra sull'omicidio. «È possibile» - ha infine concluso - «che a sparare sia stata una sola persona, ma nel caso specifico sono portato ad escluderlo».

Chi sia questo secondo uomo – un'ipotesi comunque tutta da verificare – saranno forse le prossime udienze a definirlo. Il processo continuerà il 9 novembre con l'audizione di tutti coloro che presero parte ai rilevamenti sulla scena del crimine, mentre la settimana successiva tornerò a testimoniare il maresciallo Beniamino Cannas, che avrebbe rivelato alla sorella di Mauro Rostagno, Carla, la notizia che il giornalista era andato a trovare il boss di Campobello di Mazzara Natale L'Ala, nome inserito nell'indagine sulla loggia segreta “Iside 2”, loggia i cui intrecci con la mafia erano quelli che, si dice, avrebbe dovuto svelare Mauro Rostagno se qualcuno non lo avesse ucciso prima.

From Zagabria with love. Traffico d'armi sull'asse italo-croata


Roma, 19 ottobre 2011 – Gli uomini del Nucleo operativo carabinieri della Compagnia Roma-Eur, sotto la direzione del procuratore Giancarlo Capaldo e del sostituto Carlo La Speranza della Direzione distrettuale antimafia capitolina hanno condotto, all'alba di ieri, una operazione dalla doppia valenza, con la quale si è riusciti a disarticolare un'organizzazione dedita all'importazione clandestina di armi in Italia dalla Croazia e di cocaina dalla Spagna.

A capo dell'organizzazione che trafficava armi c'era Jasminko Hasanbasic, soprannominato “il Mister” in quanto ex difensore della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado nonché della Nazionale Jugoslava dei primi anni Novanta.
E dai primi anni Novanta arrivavano anche le armi – kalashnikov, bombe a mano e pistole – introdotte in Italia. I sette trafficanti sono stati arrestati tra Viterbo, Roma e Latina. Altre ventiquattro risultano indagate.

Le armi partivano dalla Croazia, stivate nei camion che venivano poi fatti transitare dalla frontiera slovena e da lì arrivavano sul litorale laziale.
Il mercato croato è, peraltro, come sottolinea Matteo Zola in un articolo di ieri del mensile Narcomafie, uno dei preferiti dalla criminalità tricolore. Da lì arrivava infatti l'esplosivo T4 con cui Cosa Nostra fece saltare in aria il giudice Falcone, così come croate erano le armi utilizzate dal boss del Brenta Felice Maniero, amico personale di Franjo Tudjiman, l'eroe dell'indipendenza croata e, sempre dalla Croazia, arrivava il carico di armi per il clan Fidanzati di Milano.

Il gruppo si muoveva in questo modo: il “Mister” - coadiuvato da un altro appartenente all'associazione criminale – procacciava clienti, con il quale venivano organizzati vari incontri, sempre in posti diversi, per verificare attendibilità, fiducia e, soprattutto, che non si trattasse di qualche esca. Dopodiché la “lista della spesa” veniva inviata al resto del gruppo, in Croazia, incaricato di recuperare quanto richiesto.
Per dimostrare l'affidabilità del gruppo, una volta che il carico era completato, all'acquirente veniva dato un “assaggio”, gli veniva cioè recapitato un piccolo quantitativo di quanto richiesto. Una volta superato anche questo passaggio, si procedeva con lo scambio vero e proprio di armi per denaro.

Per quanto riguarda invece la droga, questa veniva trasportata – per 2,5 chilogrammi al massimo per ogni carico – occultandola nel doppiofondo delle autovetture con cui il gruppo si muoveva tra Italia e Spagna. Giunta nel nostro paese, questa veniva spacciata tra le piazze di Roma e Latina, ed una parte dei proventi veniva utilizzata per il finanziamento dei successivi viaggi.

Il Narcotic Control Board – l'agenzia dell'Organizzazione delle nazioni unite per il controllo del narcotraffico alle frontiere – nel rapporto 2010 ha evidenziato come proprio la Croazia sia, nei Balcani, il paese con il più elevato flusso di droga, nonostante le misure di contrasto create in questi anni.

Messico, insabbiare il narcotraffico nonostante i morti


Hermosillo (stato di Sonora, Messico), 18 ottobre 2011 – «10 mil por policía municipal muerto». «10 mila (pesos, ndr) per un poliziotto morto». Tanto vale la vita di un poliziotto a Hermosillo, dove qualcuno – nella Colonia del Razo, nel pieno centro della città – ha scritto questo messaggio ritrovato all'alba di martedì scorso[1]. E mentre ad Hermosillo si fa il conto di quanti pesos si possono guadagnare uccidendo poliziotti, a Veracruz, nella baia di Campeche (Golfo del Messico) si continua a fare il conto dei morti ritrovati per strada. Dieci corpi con evidenti segni di tortura, sono stati ritrovati martedì scorso nei pressi della colonia Sentimientos de la Nación[2].

Cento morti in cento giorni. È quello a cui stanno assistendo i cittadini di Veracruz, diventata uno dei principali centri della guerra per il controllo del territorio dei cartelli messicani, in particolare da quando – lo scorso settembre, con un comunicato visibile anche su YouTube[3] si è presentato un nuovo gruppo criminale, denominato “Mata-Zetas” (“Uccidi-Zeta”), il cui compito, stando alle parole del portavoce anonimo, è esclusivamente quello di sterminare il cartello dei “Los Zetas”, attualmente il gruppo più potente tra i narcos. «L'intenzione è far sapere ai cittadini veracruzani che questo flagello della società (Los Zetas) non è invincibile», continua il portavoce del gruppo, in realtà nient'altro che l'ennesimo “sottogruppo” del Cartello di Sinaloa, il più importante tra i cartelli in lotta contro gli uomini della zeta.
«L'abbandono di 35 corpi nel cuore della zona alberghiera (zona hotelera) di Boca del Rio, a Veracruz, il 19 settembre scorso rappresenta un “prima e un dopo”, un episodio chiave per il controllo di gran parte del movimento della droga in Messico», dice Arturo Matiello, presidente del Consiglio di partecipazione cittadina della Procura generale della Repubblica (Consejo de Participacion Ciudadana de la Procuradoria General de la Republica, PGR) dello stato. Questo perché le strade di Veracruz, situata a sud-est, mettono in contatto praticamente tutto il paese e, continua Matiello, «chi controlla Veracruz controlla il 50% del traffico di tutto il Messico».

Tre arresti a Palermo, Cosa Nostra mette le mani sui rifiuti


Palermo, 17 ottobre 2011 – Traffico organizzato di rifiuti nonché realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata con l'aggravante di avere favorito la mafia. È questo il risultato, comunque ancora parziale dato che l'indagine non è conclusa, dell'operazione “Dangerous hole”, che questa mattina ha di fatto rivelato l'ingresso di Cosa Nostra nel grande business dei rifiuti.

Coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia palermitana e dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, gli uomini del Nucleo operativo ecologico (Noe) di Palermo hanno scoperto quella che si può definire come una vera e propria montagna di immondizia (è infatti alta almeno dieci metri, di cui sette sottoterra).
A guidare l'affare l'Euteco srl di proprietà di Giuseppe Liga (nella foto), capomandamento di San Lorenzo fino all'arresto del marzo 2010 e considerato l'erede del clan Lo Piccolo e già detenuto, in regime di 41bis, nel carcere di milanese di Opera.

In manette sono finiti anche Amedeo Sorvillo, 58 anni, amministratore e direttore tecnico della Euteco e Agostino Carollo, 46enne, gestore della società, che era comunque ben salda nelle mani di Liga. Ambedue erano stati arrestati nell'operazione di marzo 2010 e poi tornati in libertà.
Già nel maggio dello scorso anno all'interno del cantiere intestato alla Euteco era stato rinvenuta – e sequestrata – una grasso discarica abusiva, riempita con prodotti derivanti dall'attività imprenditoriale svolta principalmente nel settore della manutenzione delle linee elettriche.

Materiali plastici da imballaggi, batterie al piombo esaurite, filtri intrisi di oli minerali esausti, fibre polimeriche sono solo alcuni dei materiali rinvenuti nella discarica, la cui superfici era stata ricoperta da una massicciata di cemento.
Oltre alla discarica, è stata sequestrata tutta la documentazione inerente ai contratti di appalto per la manutenzione della rete elettrica e alcuni certificati di prove di qualità dei materiali di reinterro e ripristino che ne accertavano l'idoneità ma palesemente contraffatti. Tale sequestro ha peraltro accertato come la documentazione sia stata prodotta fino al 2006, tanto da porre l'interrogativo di come le autorità competenti al controllo abbiano svolto il loro operato.
La Euteco, che eseguiva lavori in appalto anche per conto dell'Enel, riusciva a sbaragliare la concorrenza attraverso l'interramento dei rifiuti, eliminando così i costi relativi a trasporto e smaltimento, potendo così praticare il prezzo più basso sul mercato e mettendo fuori gioco le imprese che invece lavoravano onestamente.

«Siamo di fronte alla prima impresa eco-mafiosa» - ha commentato durante la conferenza stampa il procuratore Ingroia - «finora era stata la camorra a mostrare interesse all'attività di smaltimento illecito dei rifiuti. Con questa indagine è venuto fuori il primo business di Cosa Nostra in questo settore». Il magistrato ha inoltre sottolineato come ancora una volta fondamentale sia stato l'uso delle intercettazioni, «senza le quali l'indagine non sarebbe stata possibile».

Procura di Catania, una poltrona che scotta



Catania, 14 ottobre 2011 – Se a Palermo si muovono gli equilibri politici, a Catania in questi giorni – ed almeno fino alla prossima settimana – la partita ancora tutta da giocare ruota intorno alla poltrona di procuratore. La commissione incarichi direttivi del Consiglio superiore della magistratura (Csm), non è infatti riuscita a trovare un nome che mettesse tutti d'accordo tra quelli di Giuseppe Gennaro, Gianni Tinebra e Giovanni Salvi, che per il semplice fatto di essere esterno alla Procura è considerato il più vicino alla nomina. Ma quella, comunque, è una poltrona che scotta.

Per adesso i voti dovrebbero essere così redistribuiti, in attesa della convocazione del plenum del Csm: lo “straniero” Giovanni Salvi – sostenuto da Magistratura Democratica – a quota dieci voti, otto per Giuseppe Gennaro e sette per Gianni Tinebra, rispettivamente di Unità per la Costituzione e Magistratura Indipendente.
Dallo scorso febbraio, a reggere il tutto, è arrivato il procuratore facente funzioni Michelangelo Patanè, fortemente criticato proprio dal Csm per l'operato nell'ambito del processo “Iblis”[1], reo di aver avocato l'inchiesta sul concorso esterno in associazione mafiosa di Raffaele Lombardo e del fratello Angelo ai quattro procuratori – Iole Boscarino, Antonino Fanara, Giuseppe Gennaro e Agata Santonocito - che se ne stavano occupando derubricando poi l'accusa da “concorso esterno in associazione mafiosa” ad un più lieve “voto di scambio semplice”. Il primo compito del nuovo procuratore – chiunque uscirà vincente dalla competizione – sarà appunto quello di riprendere in mano questa inchiesta.

Gli impresentabili. Quella che può sembrare una questione tutta interna alla Procura è in realtà uno scontro cittadino, tanto che nei mesi scorsi si è assistito anche a volantinaggi, appelli sit-in ed interrogazioni parlamentari. «Giuseppe Gennaro e Giovanni Tinebra sono due magistrati impresentabili e palesemente inadatti» sostiene Sonia Alfano, europarlamentare e responsabile nazionale del Dipartimento antimafia dell'Italia dei Valori.
Ma perché sia Gennaro che Tinebra sono “impresentabili e palesemente inadatti”?

Giuseppe Gennaro, due volte presidente dell'Associazione nazionale magistrati (Anm) ed ex componente proprio del Csm sarebbe al centro del cosiddetto “caso Catania”[2] - intrecci tra criminalità e magistratura, per farla breve – e, come testimonia la fotografia pubblicata da “Il Fatto Quotidiano” sarebbe in rapporti con Carmelo Rizzo, imprenditore di San Giovanni La Punta (comune sciolto due volte per mafia e regno dell'abusivismo edilizio) organico al clan catanese dei Laudani, ucciso in un agguato nel 1997.

Mauro Rostagno, riparte il processo


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/mauro-rostagno-riparte-il-processo/18860/

Trapani, 13 ottobre 2011 – Con l'udienza numero 19 è ripartito ieri il processo per l'omicidio di Mauro Rostagno, sociologo e giornalista di Radio Tele Cine (Rtc) ucciso a Valderice dalla mafia trapanese il 26 settembre 1988. Venne ucciso con quattro colpi di fucile e due di pistola sparati ai polmoni ed al cuore. L'ultimo alla testa, come si fa nelle esecuzioni.

Tutti sanno che questo è un omicidio di mafia. Lo sostenne fin da subito Calogero Germanà, l'allora capo della squadra mobile trapanese, lo dicono i pentiti e la Procura di Palermo. Lo dice Totò “'u curtu” Riina, per il quale Mauro Rostagno era una “camurria”, una seccatura.
Sul banco degli imputati il killer – ed ex campione di tiro a volo della nazionale italiana -Vito Mazzara come esecutore materiale del delitto e Vincenzo Virga, capomafia trapanese, ritenuto uno dei mandanti dell'omicidio nonostante non sia mai comparso in un articolo del giornalista (la sua caratura criminale, infatti, venne accertata solo alcuni anni dopo).

A parlare, nell'udienza tenutasi ieri presso la Corte d'Assise trapanese, è uno dei personaggi più importanti per quanto riguarda la parte processuale dell'omicidio. Giuseppe Linares, infatti, è l'ex capo della squadra mobile (oggi a capo della Criminalpol) di Trapani a cui si deve la riapertura del caso nel 2008, quando le indagini erano ad un passo dall'archiviazione.

Interrogato dai pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Palermo Francesco Del Bene e Gaetano Paci, Linares ha spiegato come l'idea di riaprire le indagini, all'epoca, venne da una semplice constatazione: «il modus operandi simile ad altri delitti».

Da qui, dunque, la necessità di riprendere in mano tutto il materiale fin lì prodotto per accertarsi se le indagini erano state svolte nel migliore dei modi. Come primo atto, la squadra mobile chiese una nuova perizia balistica, a fini comparativi, sui bossoli ritrovati sulla scena del crimine.
Il processo attualmente in corso sta dimostrando, peraltro, come per oltre venti anni non solo le indagini sono state fatte in maniera fortemente lacunosa (quanto volutamente?) e che, addirittura, alcuni verbali ed alcune testimonianze sono irreperibili o addirittura reperibili in fascicoli sbagliati e che, se immediatamente utilizzati, avrebbero portato alla chiusura delle indagini da molto tempo.

In Italia si può comprare un bambino con 25 mila euro


Roma, 12 ottobre 2011 – Lo scorso 4 ottobre, l'operazione “Piccoli angeli” aveva portato alla luce l'esistenza di una rete internazionale di trafficanti di esseri umani che, nel nostro paese, aveva come snodi principali la capitale, Milano, Napoli e Cosenza. L'operazione, oltre ai 27 arresti, aveva portato anche alla scoperta del traffico dei documenti falsi, e venduti a prezzi esorbitanti ai migranti, con i quali poi viaggiavano verso Regno Unito, Svezia e Canada.
Tra le pieghe dell'operazione, come evidenziavano gli stessi carabinieri, non era da escludere la possibilità che all'interno del traffico di esseri umani vi fossero anche una serie di adozioni illegali (da qui il nome “Piccoli angeli”).

Oggi, come riporta il sito Redattore Sociale, a lanciare l'allarme su questo ulteriore aspetto è l'ex presidente della Corte d'appello del tribunale dei minori di Roma, Luigi Fadiga, nel corso di un convegno sul tema tenutosi a Palazzo Marini ed organizzato dall'Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie e dall'Associazione promozione sociale.

«È grave che in Italia un bambino si possa comprare con 20-25 mila euro, al costo di un'automobile di nuova cilindrata» - dice Fadiga - «ma la macchina non esce dalla concessionaria senza targa, allora perché un bambino può uscire dall'ospedale senza essere registrato? La legge consente dieci giorni di tempo per la dichiarazione di nascita, in quei dieci giorni un neonato può essere fatto sparire. L'Italia non è un paese del terzo mondo, eppure non registra i bambini alla nascita».

Tutte le partorienti, come sancisce la sentenza della Corte Costituzionale numero 405 del 2005, hanno il diritto del cosiddetto “parto in anonimato”, anche le straniere senza permesso di soggiorno. Diritto che, per quanto riguarda queste ultime, viene messo in discussione dal pacchetto sicurezza, anche perché una circolare ha forza di legge inferiore rispetto ad una legge dello Stato come il reato di clandestinità.
«Oggi gli abbandoni dei neonati non sono causati più da adulterio, ma da povere immigrate senza permesso di soggiorno e con il terrore di essere espulse» è la conclusione che fa il giurista.

Quello dei bambini non riconosciuti alla nascita è, peraltro, un fenomeno che, per quanto non possa essere basato su dati certi, è in netto aumento. Stando ai dati Istat, infatti, se nel 2000 i casi erano di 362, nel 2007 – anno dell'ultima statistica disponibile – i casi erano 647.
Le cause principali del fenomeno sono da ricercare nel contesto socio-economico in cui vivono le partorienti, che spesso necessitano di interventi assistenziali prima e dopo il parto. L'introduzione del reato di clandestinità non ha fatto altro che aggravare ancora di più il fenomeno.

Per questo le associazioni che hanno organizzato il convegno nei giorni scorsi si sono fatte anche promotrici di un appello con il quale chiedono l'approvazione urgente di un disegno di legge che garantisca questo tipo di assistenza a livello regionale, come sancito dalla legge 328 del 2000 (articolo 8 comma 5).
«Il problema più grave è la legislazione corrente» - evidenzia Giuseppe Palumbo, presidente della commissione Affari Sociali alla Camera dei Deputati - «L'assistenza sociale ora spetta alle Regioni, ciò che interrompe l'iter è il contrasto tra queste ed il Parlamento».

Le proposte di legge attualmente in discussione alla commissione sono tre: una del consiglio regionale piemontese, una della quale primo firmatario è il deputato Domenico Lucà, nonché l'articolo 18 della legge numero 1353 presentata da Livia Turco.

Il giudice stanco e l'esposto al Csm



Catania, 12 ottobre 2011 – Ne avevamo già parlato nei giorni scorsi, quando il giudice Alfredo Gari (nella foto) aveva dimenticato di depositare le motivazioni di una sentenza, del giugno 2010, permettendo così a nove esponenti del clan catanese degli Scalisi di tornare in libertà. La colpa, aveva sostenuto il giudice, era da attribuire ad una semplice dimenticanza imputabile agli eccessivi carichi di lavoro a cui è sottoposto. Oggi bisogna aggiungere un nuovo capitolo alla vicenda.

Ieri mattina infatti, l'avvocato Renata Saitta, Responsabile della delegazione catanese di Primoconsumo, associazione a tutela dei consumatori che si occupa anche del cittadino utente del servizio giustizia, ha presentato al presidente della Repubblica, al Consiglio Superiore della Magistratura ed al ministro della Giustizia un'istanza per chiedere che vengano presi provvedimenti disciplinari nei confronti del giudice Gari in quanto «non è tollerabile che il sovraccarico di lavoro per un magistrato possa essere posto a sostegno di un'omissione così grave per la sicurezza del cittadino».

«Nello specifico» - si legge nell'esposto - «Primoconsumo ritiene che parte offesa sia da qualificarsi l'intero consesso civile etneo che vede posta a rischio la pacifica convivenza dal momento in cui pericolosi criminali sono stati scarcerati per il mancato deposito della motivazione di una sentenza di condanna per reati gravissimi».

Decade, è la tesi portata avanti dall'esposto, anche la “scusante” della carenza di organico dell'Ufficio, «atteso che l'incombenza in ordine al deposito delle motivazioni di una sentenza è atto che attiene esclusivamente al Giudice non essendo delebile né a cancellieri né ad assistenti».
«Ulteriori perplessità» - conclude l'esposto - «vengono infine offerti proprio dalla intervista rilasciata a La Repubblica, laddove ad un certo punto il giudice afferma che si trova carico di fascicoli anche ereditati dalla sua precedente esperienza di Giudice della Corte di assise di appello di Catania, cosicché appare urgente verificare se e quante altre sentenze attendono il deposito della motivazione da parte del dottor Gari».

È interessante, peraltro, notare – come già sottolineavamo nei giorni scorsi – che al giudice Gari è stato assegnato anche il fascicolo “Iblis”, per cui la domanda è ovvia: se non ha avuto il tempo per depositare le motivazioni di una sentenza relativa a nove indagati, come farà quando dovrà depositare quelle di un procedimento che, per adesso, vede imputate 56 persone?

Gli appalti a tempi di record della sanità elettorale siciliana


La sanità, nell'ottica politica, sta diventando sempre più un settore strategico, utile nell'ottica del voto e del consenso territoriale. A Giarre, nel catanese, “feudo” del Movimento per le autonomie di Raffaele Lombardo, il Presidio territoriale di assistenza è al centro di un'indagine per un appalto ottenuto in tempi record dalla Solsamb s.r.l., società che fa capo a Melchiorre Fidelbo, marito della senatrice del Partito Democratico Anna Finocchiaro. Che da sfidante alle elezioni del 2008 si ritrova ora con quattro colleghi di partito nella giunta di governo. Un cerchio che si chiude?



Giarre (Catania) – Questa storia parte da un numero, tre lettere ed una fotografia.
Il numero, 1719, è quello di una delibera, datata 30 aprile 2010, con cui si autorizzava l'Azienda sanitaria provinciale catanese a stipulare una convenzione con la Solsamb s.r.l. per l'informatizzazione del Presidio territoriale di assistenza (o Pta, le tre lettere) di Giarre, al centro di uno dei tanti scandali della sanità italiana.
L'immagine, invece, è quella del 15 novembre dello scorso anno e che riguarda proprio l'inaugurazione del presidio. Al centro, come è possibile notare, l'assessore alla Sanita Massimo Russo. Alla sua sinistra le esponenti del Partito Democratico Anna Finocchiaro e Livia Turco.
Ci sarebbe poi, volendo, un'altra immagine. Forse ancor più esplicativa della situazione. Siamo sempre a quel 15 novembre, momenti non troppo distanti dal taglio del nastro. Alcuni cittadini di Giarre presenti all'inaugurazione – come è possibile vedere nel video di YouReporter[1] – protestano con la senatrice democratica (al grido di “Finocchiaro vergogna!”) per la chiusura della principale struttura ospedaliera locale. La risposta della senatrice si limitò ad un «vergogna di che?» rimasto negli annali. Ma procediamo per gradi...

Cronistoria di un appalto pilotato. Per capire come si è arrivati a questo punto bisogna fare un passo indietro. L'anno è il 2007, a Roma governa – per la seconda volta – Romano Prodi. Livia Turco guida il dicastero della Salute che emana le linee guida per i progetti del Piano sanitario nazionale.

Ad un mese dalla definizione del piano, in Sicilia, il Consorzio sanità digitale e ambiente, costituitosi il 20 novembre 2007 presenta il progetto per la “Casa della Salute” di Giarre. Appalto da 1,2 milioni di euro affidato al consorzio il cui socio di maggioranza (al 50 per cento) è la Solsamb, società formata circa due mesi prima il cui compito è quello di fornire consulenza logistica, formare il personale e realizzare la rete informatica. Spese a carico dell'Azienda sanitaria provinciale, naturalmente.

Indaga sulle cliniche private. Trasferito


Palermo, 11 ottobre 2011 – Da accusatore ad accusato. È questa la sorte toccata nei giorni scorso a Francesco Geraci (nella foto), capitano dei Nuclei antisofisticazioni e sanità (Nas) del capoluogo siciliano, accusato da fonte anonima per truffa militare. Nei mesi scorsi ha indagato sulle presunte truffe delle cliniche private palermitane e sugli acquisti compiuti dall'Azienda sanitaria provinciale.

Ora Geraci è al Battaglione, ad occuparsi di compiti amministrativi.
Sindacalista del Cocer – il consiglio centrale di rappresentanza dell'Arma dei carabinieri – è finito sotto indagine per aver ottenuto la diaria per le attività sindacali, dichiarando di essere stato impegnato più a lungo di quanto non fosse realmente avvenuto e, dunque, appropriandosi indebitamente di una cifra compresa tra i 300 ed i 400 euro.

Geraci ha risposto, attraverso dichiarazioni spontanee, che la partecipazione all'attività sindacale sarebbe stata minore rispetto a quella dichiarata solo per «non sottrarre troppo tempo al servizio».
Per questo è finito sotto indagine prima davanti alla Procura ordinaria e poi davanti a quella militare di Napoli, a cui il fascicolo è stato trasferito per competenza (le attività di rappresentanza sindacali sono infatti considerate interne all'Arma).

La domanda, comunque, rimane: truffa (del fu indagatore) o vendetta (degli indagati)?

Nei giorni scorsi, intanto, nuova “puntata” dell'affaire sulle cliniche private (articoli relativi nelle note a fondo pagina): Giuseppe Antonio Iannello, dirigente dell'unità operativa della Chirurgia d'urgenza di Villa Sofia, è stato sospeso dal servizio dalla direzione generale. Secondo la ricostruzione del pubblico ministero Amelia Luise, Iannello avrebbe dirottato pazienti dal pronto soccorso di Villa Sofia alla clinica Noto-Pasqualino. Insieme a lui, il procedimento ha coinvolto anche quattro medici che avevano certificato l'assenza di posti letto nella struttura. Ora dovranno rispondere dell'accusa di falso.

Note
- "Perché dobbiamo spendere soldi?". Così taglia i farmaci ai malati di tumore;
- Scandalo alla clinica Latteri. Il day after

Messico, combattere il narcotraffico a colpi di...fumetto



Città del Messico, 11 ottobre 2011 - Se i narcotrafficanti utilizzano le “narcocorridos” - la versione messicana dei neomelodici che inneggiano alla camorra – o i “narcomessaggi” che sempre più spesso accompagnano i morti ammazzati dai cartelli, il governo di Felipe Calderon risponde con i fumetti.

Sono dieci, per ora, i video-fumetti realizzati dal governo federale – tutti disponibili sul canale youtube – con i quali si sta tentando di combattere il fenomeno del narcotraffico su un piano diverso da quello militare (dove la situazione – fatta spesso di militari corrotti – è pressoché fallimentare).

Il lavoro intrapreso, spiega Alejandro Poire, portavoce del settore sicurezza del governo federale, «fa parte di una strategia globale che prevede in parte anche l'uso della forza pubblica. Inoltre stiamo lavorando anche con altri stati per cercare di fare formazione e tentare di prevenire azioni criminali. A tutto questo si deve aggiungere il lavoro di partnership fra i diversi stati del Messico». Il messaggio che si vuole far passare attraverso questi video-fumetti, è che «solo attraverso le istituzioni del Paese si potrà creare una società che viva in sicurezza e che questa sia duratura», continua Poire. «Nessuno, ad iniziare dallo Stato, dovrà scendere a patti o addirittura trattare con i criminali».

Presentati da un video dello stesso portavoce, i “10 miti della lotta per la sicurezza” hanno il compito di destrutturare quelli che secondo il governo sono stereotipi (o “miti”, come definiti nei video) con i quali l'operato del governo viene presentato, tra i quali il fatto che le strategie utilizzate facciano uso della sola forza militare (mito numero 1), che l'unico soluzione possibile sia quella di negoziare con i cartelli (mito numero 4) o che il Messico sia il paese più violento del mondo (mito numero 10)

Quanti di questi video-fumetti saranno poi tradotti con reali politiche di contrasto al fenomeno e quanti rimarranno invece mera propaganda sarà il tempo a dirlo.

di seguito i "10 miti"

Il Gip dimentica di depositare gli atti. Scarcerati in nove



Catania, 10 ottobre 2011 – Erano stati condannati, in primo grado, a pene comprese tra i tre anni e quattro mesi e gli otto anni e otto mesi con l'accusa di mafia, estorsione e detenzione di armi il 21 giugno del 2010. Nei giorni scorsi la scarcerazione per decorrenza dei termini. «Ma miracoli» - dice Alfredo Gari, il giudice per le indagini preliminari a cui è stata affidata la sentenza - «non ne possiamo fare».

Già, perché questo non è un caso di “malagiustizia”. La colpa è infatti da attribuire proprio allo stesso Gari, che ha “semplicemente” dimenticato di depositare le motivazioni nei tempi previsti, rendendo così possibile la scarcerazione. Autoaccusatosi, il gip ci tiene a sottolineare come questa vicenda sia imputabile ai carichi di lavoro a cui sono sottoposti lui ed i colleghi, ricordando, comunque, come questa sia stata l'unica “defaillance” di una carriera ormai quarantennale.

«L'organico dei gip è ridotto all'osso», continua il giudice, che nei giorni scorsi ha visto andare in pensione altri tre cancellieri che, come sempre più spesso accade, non verranno sostituiti e lui, il giudice Gari, a 70 anni non riesce a lavorare agli stessi ritmi di un tempo.

I nove, condannati lo scorso giugno insieme ad altri tredici appartenenti al clan degli Scalisi – collegati al clan catanese dei Laudani e da anni in lotta con i Santangelo-Taccuni per il controllo del mercato della droga e del racket delle estorsioni – nell'ambito dell'operazione denominata “Terra Bruciata”, con la quale è stato possibile sventare alcuni omicidi già programmati dalle cosche.

Intanto il ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma – che a pochi giorni dal suo insediamento al dicastero aveva posto l'accento sulla necessità di rivedere l'attuale distribuzione di tribunali – ha inviato gli ispettori ministeriali per «verificare i motivi che hanno portato alla scarcerazione dei nove imputati, per i quali il ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza ha provocato la decorrenza dei termini di custodia cautelare».

Quel brutto precedente. Il giudice Gari, peraltro, è al centro di un altro “caso”, quello relativo a Carmelo Castro, 19enne, morto dopo tre giorni di carcere ufficialmente per suicidio, nonostante gli innumerevoli dubbi sollevati in merito e che hanno portato, anche grazie all'associazione Antigone, a riaprire il caso[1]. Il giudice, infatti, aveva archiviato il caso sotto la fattispecie del suicidio nonostante la dinamica evidenziasse come l'altezza da cui il giovane si sarebbe suicidato (160 centimetri) era addirittura inferiore alla sua altezza, attestata invece su 1 metro e 75 centimetri. L'avvocato Vito Perrone, poi, aveva evidenziato altre anomalie: «Come può una persona che muore impiccandosi presentare delle ipostasi, cioè addensamenti di sangue alla schiena, e non agli arti inferiori? E ancora: come può chi sta per suicidarsi consumare un pasto abbondante come risulta dall'autopsia e tra l'altro in un contesto nel quale non si capisce quando sia stato distribuito il vitto ai detenuti? Perché un detenuto suicida viene trasportato in ospedale a bordo di un'auto di servizio e non in ambulanza». Più che di un suicidio – è poi la denuncia dell'associazione Antigone – quello del giovane Carmelo Castro sembra essere stato l'ennesimo caso di pestaggio da parte dei carabinieri finito male.

E se si considera che al giudice è assegnato il delicato fascicolo "Iblis"[2] sui presunti rapporti tra uomini di Cosa Nostra, politici, amministratori e imprenditori – nel quale peraltro Gari è stato ricusato per non imparzialità[3] – le domande a cui dare risposta, probabilmente, sono più d'una.

Note

[1] http://www.corriere.it/cronache/11_gennaio_03/morto-19-anni-catania-carmelo-castro-sciacca_61edf892-1786-11e0-b956-00144f02aabc.shtml

Corleone, il centro antimafia che antimafia non fa



Ci sono delle storie, in Italia, la cui puzza è avvertita a chilometri di distanza. Sono le storie che parlano di mafia, quella che spara, uccide e fa morti per la strada.
Ci sono altre storie, in Italia, che puzzano lo stesso, magari di meno, con l'olezzo edulcorato da litri e litri di profumo, come quelle che riguardano le infiltrazioni mafiose nell'economia legale, nelle gare per i grandi e piccoli appalti o quelle che riguardano il mondo della sanità.
E poi ci sono quelle altre storie, in Italia. Quelle che non puzzano di mafia perché, a ben guardare, con la mafia non hanno niente a che fare. Né con quella che spara, uccide e fa morti per la strada né con quella che si infiltra nell'economia legale.
Però puzzano lo stesso.

Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro nel tempo. Al 12 dicembre 2000, per la precisione.
Quel 12 dicembre in Sicilia accaddero due cose, entrambe a Palermo. Alla presenza di quattordici capi di Stato, cento ministri e oltre duemila delegati di 180 paesi veniva firmata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale[1], con la quale si introdussero il reato di associazione mafiosa, riciclaggio di denaro di provenienza illecita, corruzione e intralcio alla giustizia. Sempre a Palermo, a Corleone per essere precisi, quello stesso giorno arrivarono tra gli altri l'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il vicesegretario delle Nazioni Unite Pino Arlacchi – oggi deputato europeo del Partito Democratico – Piero Grasso, allora Procuratore capo della Repubblica, Don Luigi Ciotti, il giudice Ingroia e, naturalmente, le autorità locali. Il motivo di tanto dispiegamento di forze fu l'inaugurazione del Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e il movimento Antimafia (da ora, Cidma), che vide il suo miglior momento proprio in quel 12 dicembre.
Perché dopo l'inaugurazione diventa un'altra cosa.

Eppure il centro avrebbe tutte le carte in regola per essere uno snodo importante per quella memoria antimafia – siciliana e nazionale – troppe volte vilipesa.
Situato nella zona di Palermo che dette i natali ai “viddani”di Cosa Nostra, all'atto dell'inaugurazione la camera penale del Tribunale palermitano donò tutti i faldoni del maxi-processo, dei quali però è consultabile solo quello contenente le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, dichiarazioni ormai note anche al grande pubblico.

Massimo Ciancimino colpevole di riciclaggio, la Cassazione riduce la pena


Palermo, 5 ottobre 2011 - Prescrizione per la metà dei reati loro contestati. Annullamento senza rinvio per la sentenza d'appello relativa al capo di imputazione per l'intestazione fittizia dei beni.
È questa, in sintesi la decisione della corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi in merito al tesoro dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

Oltre alle decisioni già scritte, la seconda sezione penale ha diminuito la pena a Massimo Ciancimino, portandola da 3 anni e 4 mesi a 2 anni ed 8 mesi, così come ridotta è la pena del tributarista Gianni Lapis, che dai 5 anni comminatigli in appello si ritrova ora a scontare 2 anni ed 8 mesi.

Per Massimo Ciancimino, dunque, non si riapriranno le porte del carcere, in quanto la pena è coperta in parte da indulto e in parte è già stata espiata in custodia cautelare. A suo carico restano comunque l'indagine per concorso in associazione mafiosa e quella relativa alle calunnie all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro.

La corte, dichiarando prescritto il reato di intestazione fittizia dei beni – che ha portato alla riduzione della pena per Lapis – ha di fatto assolto Epifania Scardino, madre di Massimo Ciancimino.
L'unica conferma è arrivata in merito alla confisca dei 60 milioni di euro che, stando all'accusa, costituirebbero parte del tesoro illecito accumulato da don Vito.

A ben guardare, dunque, tra prescrizioni e annullamenti vari, nessuno sconterà neanche un minuto nelle patrie galere. Che sia un “ringraziamento” per il lavoro svolto dallo stesso Ciancimino in questi mesi?

Scandalo alla clinica Latteri. Il day after


Palermo, 4 ottobre 2011 – La clinica non ci sta. Nei giorni scorsi – ne avevamo parlato ieri – i vertici della clinica privata Latteri attraverso un comunicato stampa fanno sapere che è da considerarsi “priva di ogni fondamento” la notizia della presunta truffa ai danni dell'Azienda sanitaria provinciale in merito ai rimborsi su prestazioni e ricoveri, per la somma di 1,2 milioni di euro.

Sarebbe «frutto di un'arbitraria e fuorviante ricostruzione dei fatti» non solo la notizia che la dirigente della clinica, Maria Teresa Latteri, avrebbe preteso il taglio alla somministrazione del Tad – medicinale somministrato per alleviare gli effetti delle chemioterapie – a causa del rimborso parziale (100 euro invece che i 250 richiesti) concesso dall'assessore Massimo Russo, che ha intanto attivato le procedure necessarie per accedere agli atti dell'indagine aperta presso la Procura palermitana, sui quali si baserà anche un'ispezione assessoriale ormai d'obbligo.

«Sappiamo perfettamente che siamo all'inizio di un'indagine ben più complessa e articolata che metterà a nudo quel tipo di sistema che abbiamo ereditato e che sto combattendo con forza fin dal giorno del mio insediamento, grazie anche a una forte collaborazione con le forze dell'ordine», ha aggiunto l'assessore, che ha più volte minacciato di revocare la convenzione alla struttura privata qualora l'inchiesta giudiziaria dovesse confermare quanto emerge in questi giorni.

Nei fascicoli della Procura, peraltro, sarebbe entrata anche la pratica dei doppi rimborsi, richiesti sia per i ricoveri – nel cui costo dovrebbero essere inclusi anche gli esami specialistici – sia, successivamente, per gli accertamenti diagnostici effettuati in strutture collegate alle cliniche o direttamente in strutture esterne.

Il problema – non certo ascrivibile alla sola realtà siciliana, comunque – è quello degli “imprenditori della sanità”, come li definisce Renato Costa, medico internista al Policlinico di Palermo e segretario generale Cgil medici. «Gli imprenditori sono obbligatoriamente tentati dal risparmio. Più c'è risparmio più c'è profitto. Poi, certamente, chi è dotato di una maggiore moralità non pensa ai costi del malato».
Il primo passo, dunque, per riformare la sanità – siciliana e nazionale – sarebbe dunque quello di tornare a pensare ad ospedali, cliniche e medicine per il loro compito di tutelare la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (articolo 32 della Costituzione italiana), rimettendo dunque al centro il malato e non la differenza costi-ricavi.

Mentre la Procura svolge le sue indagini, intanto, il personale della clinica continua a svolgere il suo lavoro quotidiano come se tutto questo non fosse mai accaduto. Così come nulla sembra essere accaduto per i pazienti.

Crea "buco" da 20 milioni a Messina. Viene riassunto a Catania


Catania, 3 ottobre 2011 – Il “trucco” è stato semplice quanto geniale: dimettersi prima della revoca dell'incarico, rendendo aggirando così la norma che vieta di ricoprire altri ruoli nella pubblica amministrazione per almeno due anni. È stato così che Salvatore Giuffrida da direttore dell'Azienda sanitaria provinciale di Messina si è ritrovato a ricoprire il ruolo di direttore sanitario all'ospedale “Cannizzaro” di Catania. In mezzo un buco di oltre 20 milioni di euro.

«La sanità oggi funziona meglio, ma se qualche manager non pareggia i conti sarà sanzionato come previsto dalla legge». Rispondeva così, a fine agosto, il governatore della Regione Sicilia Raffaele Lombardo a chi gli chiedeva quale sarebbe stata la fine dei quattro dirigenti delle Aziende sanitarie provinciali che non erano riusciti a mantenersi al di sotto del tetto massimo per la spesa sanitaria regionale, e che aveva in Salvatore Giuffrida (nella foto) – allora direttore della azienda sanitaria messinese – il primo dei “licenziabili”, con uno sforamento di ben 18 milioni oltre il tetto stabilito. Seguivano Giuseppe Calaciura (direttore dell'azienda sanitaria catanese, con 16 milioni di debito, derivanti per lo più da un decreto ingiuntivo del Comune), Savatore Oliveri (direttore dell'azienda sanitaria agrigentina, con uno sforamento di 4 milioni) e Franco Maniscalco (azienda sanitaria di Siracusa) che però è stato “assolto” e, dunque, è rimasto al suo posto.

Per evitare il licenziamento – e la conseguente interdizione per due anni dalla pubblica amministrazione – Giuffrida (in quota Udc) ha pensato bene di dimettersi dall'incarico. In questo modo è stato possibile nominarlo direttore sanitario del “Canizzaro” di Catania. Doveva “sparire” dai ruoli della pubblica amministrazione, ma l'unica cosa che è sparita davvero è quel debito di più di 20 milioni (26 per la precisione, considerando anche i 18 di “sforamento”).

«Il direttore generale del Cannizzaro, Francesco Poli, dice che lo ha fatto perché Giuffrida è bravo» - dice Renato Costa, segretario regionale della Cgil medici, intervistato da LiveSicilia.it - «Il problema è che se un manager ha una valutazione negativa per fare il direttore generale, è incomprensibile come possa fare bene il direttore sanitario: le due funzioni non sono scollegate, il direttore generale è anche responsabile della parte sanitaria, che non viene completamente delegata. Quando c'è stato un problema sanitario all'ospedale Civico di Palermo, l'assessore Russo chiese la rimozione del direttore generale. Allora, delle due l'una: o è stato sbagliato chiedere la rimozione di Giuffrida come direttore generale, oppure è stato sbagliato nominarlo direttore sanitario».
«Si ripete sempre, quasi fosse un mantra, che il problema della sanità siciliana è il risparmio» - continua Costa - «un economicismo esasperato, con tagli e ticket che servono a riparare buchi di bilancio e determinano una vistosa diminuzione dei servizi di assistenza». Politica dei tagli che, ad esempio, ha portato allo “scandalo degli antitumorali” della clinica Latteri di Palermo. Ma questa è, in parte, un'altra storia...