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Milano, 31 ottobre 2011 – Lea Garofalo è una collaboratrice di giustizia, compagna di Carlo Cosco, 'ndranghetista, scomparsa tra il 24 ed il 25 novembre 2009 a Milano. Era passata dalla parte della giustizia per testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella rivale dei Mirabelli. Tre anni prima, per stare vicino a Denise, la figlia oggi 19enne che con tenacia si batte affinché il nome della madre non venga infangato, decide di abbandonare il programma di protezione, lasciando la località segreta nella quale viveva per tornare in famiglia. Ma per i mafiosi chi parla non può poi tornare indietro, e per questo gli uomini di Cosco uccidono Lea, dopo averla torturata, e la sciolgono nell'acido.
A parlare, lo scorso 27 ottobre, è Angelo Salvatore Cortese, affiliato alla 'ndrina calabrese dei Dragone (poi passato con Nicolino Grande Aracri, boss appartenente alla famiglia operante tra Cutro, la Lombardia, il Veneto ed alcune zone dell'Emilia Romagna) arrestato nel 2000 nell'ambito dell'operazione “Scacco matto” e pentitosi il 17 febbraio 2008.
«Fin da subito» - ha esordito Cortese - «ho instaurato con Cosco un buon rapporto: chiacchieravamo, cucinavamo insieme all'interno della cella. Io lo conoscevo già, un mio compaesano mi aveva parlato di lui e mi aveva detto che aveva problemi con la moglie, che non lo andava più a trovare in carcere impedendogli di vedere anche la figlia e che aveva instaurato una relazione con un altro uomo. E questa cosa qui, signor giudice, per un uomo è un disonore, a maggior ragione per un uomo di 'ndrangheta».
Proprio l'onta del disonore è, secondo Cortese, il motivo per cui Lea Garofalo fu uccisa. L'idea, come spesso capita nelle questioni di mafia (o di 'ndrangheta, come in questo caso) era quella di far passare l'omicidio come un delitto passionale, ma prima bisognava chiedere l'autorizzazione. «Secondo le nostre leggi», ha infatti evidenziato il teste, «la decisione di uccidere un'adultera spetta per prima cosa alla sua stessa famiglia, però se non si decide allora può intervenire la famiglia della persona tradita che può anche chiedere ad altri di ucciderla, come ha fatto Carlo Cosco. È una questione di onore e rispetto».
A Cortese è seguito Carmine Cosco – per il quale non è stato specificato alcun grado di parentela con gli imputati, per cui dovrebbe trattarsi di semplice omonimia – carabiniere chiamato a rispondere dell'accesso alla banca dati del ministero dell'interno avvenuto dalla sua postazione informatica alla caserma di Lissone alle ore 21.20 del 20 novembre 2004 in cui sarebbe stata effettuata una ricerca su Denise Cosco, figlia di Carlo Cosco e Lea Garofalo. «La password che permette l'accesso l'avevo appuntata su un'agenda che avevo messo in un cassetto non chiuso a chiave, quindi accessibile a chiunque. Non ricordo di aver fatto quella ricerca, non ricordo se qualcuno me l'ha chiesta, però chiunque da qualsiasi computer abilitato può entrare avendo username e password, anche da un'altra città». Il carabiniere ha poi aggiunto di non aver mai sentito parlare di Denise, e di avere rapporti con il cognome Garofalo solo perché un suo collega – che seguirà nelle deposizioni – si chiama così.
Gennaro Garofalo e Lea erano cugini, e il teste ha evidenziato i rapporti di stima e amicizia che lo legano a Carlo e Vito Cosco, sottolineando come Denise la vedesse solo durante le feste. Anche lui, però, non ricorda se sia stato lui a fare la ricerca o se, al contrario, lo abbia chiesto a qualcuno (di cui, ovviamente, non ricorda il nome).
Ultima a parlare Francesca Ferrucci, comandante del nucleo operativo dei Carabinieri di Campobasso, alla quale è stato chiesto di ricostruire i momenti successivi l'aggressione a Lea Garofalo del 5 maggio 2009 che, ha evidenziato la teste, «seppur visibilmente sconvolta, era riuscita ad asserire con certezza che il mandante dell'aggressione era senz'altro Carlo Cosco».
La prossima udienza, che si svolgerà il prossimo 24 novembre, si concentrerà invece sulle tante intercettazioni a carico di Massimo Sabatino, che secondo l'accusa entrò in casa della Garofalo, fingendosi tecnico della lavatrice, con il chiaro intento di ucciderla.
A parlare, lo scorso 27 ottobre, è Angelo Salvatore Cortese, affiliato alla 'ndrina calabrese dei Dragone (poi passato con Nicolino Grande Aracri, boss appartenente alla famiglia operante tra Cutro, la Lombardia, il Veneto ed alcune zone dell'Emilia Romagna) arrestato nel 2000 nell'ambito dell'operazione “Scacco matto” e pentitosi il 17 febbraio 2008.
«Fin da subito» - ha esordito Cortese - «ho instaurato con Cosco un buon rapporto: chiacchieravamo, cucinavamo insieme all'interno della cella. Io lo conoscevo già, un mio compaesano mi aveva parlato di lui e mi aveva detto che aveva problemi con la moglie, che non lo andava più a trovare in carcere impedendogli di vedere anche la figlia e che aveva instaurato una relazione con un altro uomo. E questa cosa qui, signor giudice, per un uomo è un disonore, a maggior ragione per un uomo di 'ndrangheta».
Proprio l'onta del disonore è, secondo Cortese, il motivo per cui Lea Garofalo fu uccisa. L'idea, come spesso capita nelle questioni di mafia (o di 'ndrangheta, come in questo caso) era quella di far passare l'omicidio come un delitto passionale, ma prima bisognava chiedere l'autorizzazione. «Secondo le nostre leggi», ha infatti evidenziato il teste, «la decisione di uccidere un'adultera spetta per prima cosa alla sua stessa famiglia, però se non si decide allora può intervenire la famiglia della persona tradita che può anche chiedere ad altri di ucciderla, come ha fatto Carlo Cosco. È una questione di onore e rispetto».
A Cortese è seguito Carmine Cosco – per il quale non è stato specificato alcun grado di parentela con gli imputati, per cui dovrebbe trattarsi di semplice omonimia – carabiniere chiamato a rispondere dell'accesso alla banca dati del ministero dell'interno avvenuto dalla sua postazione informatica alla caserma di Lissone alle ore 21.20 del 20 novembre 2004 in cui sarebbe stata effettuata una ricerca su Denise Cosco, figlia di Carlo Cosco e Lea Garofalo. «La password che permette l'accesso l'avevo appuntata su un'agenda che avevo messo in un cassetto non chiuso a chiave, quindi accessibile a chiunque. Non ricordo di aver fatto quella ricerca, non ricordo se qualcuno me l'ha chiesta, però chiunque da qualsiasi computer abilitato può entrare avendo username e password, anche da un'altra città». Il carabiniere ha poi aggiunto di non aver mai sentito parlare di Denise, e di avere rapporti con il cognome Garofalo solo perché un suo collega – che seguirà nelle deposizioni – si chiama così.
Gennaro Garofalo e Lea erano cugini, e il teste ha evidenziato i rapporti di stima e amicizia che lo legano a Carlo e Vito Cosco, sottolineando come Denise la vedesse solo durante le feste. Anche lui, però, non ricorda se sia stato lui a fare la ricerca o se, al contrario, lo abbia chiesto a qualcuno (di cui, ovviamente, non ricorda il nome).
Ultima a parlare Francesca Ferrucci, comandante del nucleo operativo dei Carabinieri di Campobasso, alla quale è stato chiesto di ricostruire i momenti successivi l'aggressione a Lea Garofalo del 5 maggio 2009 che, ha evidenziato la teste, «seppur visibilmente sconvolta, era riuscita ad asserire con certezza che il mandante dell'aggressione era senz'altro Carlo Cosco».
La prossima udienza, che si svolgerà il prossimo 24 novembre, si concentrerà invece sulle tante intercettazioni a carico di Massimo Sabatino, che secondo l'accusa entrò in casa della Garofalo, fingendosi tecnico della lavatrice, con il chiaro intento di ucciderla.