La giustizia è ottusa. Versione francese.



Banlieue Corneuve (Parigi, periferia nord) - Che le banlieue siano considerate luoghi pericolosi da quel sistema capitalistico-borghese che le ha create (forse anche perché proprio in quelle zone quel modello non attecchisce) non è certo una novità, così come non lo è la stupidità dell'apparato repressivo di uno Stato. I tre minuti di questo video - tre minuti che sembrano un'eternità - però, testimoniano ancora una volta quanto quelle che abbiamo fin qui definito "forze dell'ordine" altro non sono che burattini in mano al Potere borghese. Quello stesso potere che etichetta come "delinquenti" gli immigrati pur essendo - come è evidente al minuto 2:22 del video, quando un agente particolarmente dotato di capacità intellettiva - decide che il miglior modo di prendere una donna è quella di trascinarla lungo l'asfalto, incurante del bambino che la donna portava legato dietro la schiena come tipico di molte donne africane. Chi è, adesso, il "delinquente"?

La giustizia è ottusa. La storia di Faith Aiworo

Bologna (Italia) - Nel precedente post sostenevo che l’Italia è un paese mafioso. No, niente riferimenti a Dell’Utri, Berlusconi e simili, ma un riferimento che a me sta molto più a cuore delle “male pratiche” del governo. L’Italia è un paese mafioso perché gli omicidi su commissione sono prerogativa della criminalità organizzata, come tante volte abbiamo visto nei film. Ma questo non è un film. Questa è la storia di una ragazza di 23 anni, che il nostro “civile e democratico” paese ha mandato a morte – non si sa se già eseguita, visto che non si riesce ad averne notizia – in Nigeria, il suo paese natale. Questa ragazza si chiama Faith Aiworo, è arrivata in Italia due anni fa, dopo che nel suo paese ha scontato due anni di prigione – uscendone dietro cauzione – per aver ucciso quattro anni fa il suo datore di lavoro che l’aveva violentata. Due anni fa arriva a Bologna, dove però non riesce a trovare né un modo per ottenere il permesso di soggiorno né fa domanda di asilo politico, visto che nessuno le ha mai spiegato che esisteva questa possibilità, cosa che mai viene fatta con gli stranieri (e poi ci lamentiamo se non rispettano le regole: se qualcuno si prendesse la briga di spiegargliele forse staremmo tutti meglio!) Qualche giorno fa alla porta dell’appartamento bolognese di Faith suonano le forze dell’ordine, chiamate dai vicini allarmati dagli strani rumori che provenivano dal suo appartamento, dove due suoi connazionali stavano tentando di violentarla di nuovo.
Essendo in Italia, secondo voi chi ha pagato? Visto che in questo paese la giustizia è ottusa, e gli uomini che la rappresentano non hanno l’ordine di far funzionare il cervello, Faith viene prima spedita nel Centro di Identificazione ed Espulsione in via Mattei, e poi, martedì 20, viene rispedita in Nigeria, dove il processo a suo carico si è concluso con una sentenza di impiccagione, visto che nel paese africano non esiste il concetto di “legittima difesa”.
Lo Stato, lo sappiamo, è assassino per definizione. E il nostro – nonostante qualche anno fa si fece promotore della moratoria contro la pena di morte – è forse uno dei peggiori, visto che si uccidono (pardon, si lasciano morire) persone il cui unico desiderio è quel futuro che a noi è dato per fortuna geografica in mezzo al Mediterraneo e, nel caso in cui riescano a salvarsi, vengono lasciati morire nei C.I.E.
Secondo “le carte” il nostro paese ha violato non solo gli articoli 2, 10 e 27 della propria carta costituzionale (ma vabbè, con quella non solo i leghisti ci si puliscono il culo)

Futuro: il processo di rottura della Democrazia Italiana.

Fino a ieri pomeriggio il testo che leggerete se n’è stato in beata solitudine nel cestino sul desktop del mio portatile, perché da quando ho abbracciato l’anarchia, della politica partitica poco me ne cale. Diciamo che tra un post sui partiti e un post su Faith Aiworo, la ragazza nigeriana che il nostro “civile e democratico” paese ha mandato a morire in Nigeria (dove l’attende l’impiccagione per aver ucciso il suo datore di lavoro che tentava di violentarla…) la priorità la davo a quest’ultima. Come al solito la nostra classe politica ci dà motivo per ribadire che la mafia non è quella che sta in Sicilia con la coppola in testa e la lupara al braccio ma, come ci spiegava Pippo Fava – uno dei più grandi uomini, ancor prima che giornalisti, che l’Italia abbia avuto l’onore di avere – i veri mafiosi sono quelli che stanno in Parlamento. Perché gli omicidi su commissione sono prerogativa mafiosa, e quello di Faith – checché se ne dica e se ne pensi – è un omicidio su commissione. Ma su questo mi riservo il prossimo post.
Dicevo che questo post è stato nel cestino fino a ieri pomeriggio, fino a quando non mi arriva una mail di Lorella Zanardo (no, nessun caso di omonimia, è proprio l’autrice de “Il Corpo delle donne” che mi onora, oltre che della sua amicizia – seppur principalmente virtuale – anche di essere mia “fan” personale…) che mi chiedeva cosa ne pensassi della situazione partitica attuale e di un uomo politico in particolare. Per cui, pur non credendo alle coincidenze, non mi rimaneva altro da fare che aprire il cestino e riprendermi il testo che state per leggere. La domanda che mi poneva Lorella è se esista, allo stato attuale delle cose, un’alternativa alla situazione politica che stiamo vivendo ormai da tempo. Per rispondere a questa domanda voglio partire da L’Aquila, città ferita per l’incuria di qualcuno che un anno e qualche mese fa sottovalutò il terremoto e per le manganellate prese la settimana scorsa a Roma. Qualche giorno fa, infatti, 150 deputati del Partito Democratico hanno avuto il coraggio di presentarsi nel capoluogo abruzzese. «Grazie a voi di essere venuti qui. A soli un anno, tre mesi e ventuno giorni dal terremoto…» è stato il  giusto saluto degli aquilani.Come gli avvoltoi, infatti, i deputati del partito di finta opposizione, che sempre più ricorda la corrente migliorista di quel Partito Comunista Italiano che – incapace di coinvolgere una popolazione tanto vasta da poter governare da solo –elemosinò un po’ di potere prostrandosi ai piedi della Democrazia Cristiana tramite quello che passò alla storia come “il compromesso storico”.

Saluteremo il Signor Padrone (che vuole andare in Serbia…)

37497_1446894186163_1647444681_31075044_3970152_n Ma quanto mi piace Marchionne. Quel suo stile “tu vuò fa l’americano”, quel look che lo distingue dagli altri “top-manager” italiani. Sì, Marchionne mi piace davvero. Peccato che sia arrivato tardi: un gran barzellettiere, noi, ce l’abbiamo già e a tempo perso fa anche il Presidente del Consiglio. Perché anche Sergio “l’americano” è un gran barzellettiere, e magari tra qualche anno – una volta scomparso dalle scene il Silvio nazionale – potrebbe anche aspirare a prenderne il testimone in politica, visto che nell’avanspettacolo sono quasi alla pari.

La più bella barzelletta che gli ho sentito raccontare, per adesso – ma aspetto miglioramenti in merito – è stata la famosa “lettera aperta agli operai”: «Scrivere una lettera è una di quelle cose che si fa raramente e solo con le persone alle quali si tiene veramente». Inizia così il suo “appello” all’unità della ditta. Certo, considerando tutti i licenziamenti politici di questi giorni e le migliaia di operai messi in cassaintegrazione e che con la dipartita della FIAT in direzione Kragujevac (Serbia) quel “persone a cui si tiene veramente” mi suona un po’ strano. Ma Marchionne è americano, forse ha problemi con la lingua italiana. Dunque andiamo avanti…Tralasciando quel «vi scrivo da uomo» che mi ricorda tanto un certo calciatore che qualche anno fa si definì «più uomo di tutti voi messi insieme» di fronte ad un’incredula folla di giornalisti per poi fare una figura miserrima nei campionati successivi, mi viene da ridere quando – memore del concetto di “fabbrica come grande famiglia” che andava di moda in Italia qualche decennio fa – fa sapere agli operai che di lì a breve licenzierà che proprio quella lettera è il modo più «diretto ed umano che conosca per dire le cose come stanno». Si vede che io i Padroni non li ho mai capiti, visto che credevo che il metodo più diretto e umano che avessero per dire le cose come stavano fossero sì le lettere, ma quelle di licenziamento! Sul finire della lettera poi, come nelle migliori delle rappresentazioni, arrivano i fuochi d’artificio: «Non abbiamo intenzione di toccare nessuno dei vostri diritti, non stiamo violando alcuna legge o tantomeno, come ho sentito dire, addirittura la Costituzione Italiana». Lo ammetto: questa è davvero buona, quasi quasi è meglio di «stiamo sconfiggendo la criminalità organizzata» che ogni tanto ci sentiamo ripetere dalla Premiata Ditta di Governo…L’invito all’ “onor di bottega”, poi, è squisito: «Questa è una sfida tra noi e il resto del mondo.

Alò Presidente all'amatriciana...



Se in Venezuela c'è "Alò Presidente" di Chavez, in Italia abbiamo "Ahò Segretario", di e con Pierluigi Bersani. Solo che - come dire - non è esattamente la stessa cosa. Risate assicurate!! Venghino si'ori venghino!!

Sorvegliateci i Maroni

C.I.E. di Corso Brunelleschi (Torino) - Habib è stato costretto a scendere dal tetto. Qualche minuto dopo sorvegliateci-thumb le sette di questa mattina, infatti, i vigili del fuoco sono intervenuti per porre fine ai sogni di libertà del 32enne tunisino che, se fosse riuscito a rimanere sul tetto fino a stanotte, sarebbe tornato ad essere un uomo libero, perché proprio domani scadevano i termini per la sua carcerazione nel C.I.E. Per lui, adesso, non sembra esserci altra soluzione che il rimpatrio in Tunisia. È questa la grande “civiltà” delle nostre forze politiche: quella di non avere neanche il coraggio di decidere sulla vita di cittadini stranieri ingiustamente prelevati e rinchiusi sul nostro territorio, così, come novelli Ponzio Pilato, si lavano le mani alla fonte della “civiltà e democrazia” mandando a morte le/gli immigrate/i nei loro paesi d’origine. Ma d’altronde cosa aspettarsi da un paese che – unico al mondo – ha ideato una cosa come il carcere ostativo (il famoso “fine pena mai”)?

«Io non voglio tornare in Tunisia, è un paese povero e io non ho niente. Ho speso duemila euro per tornare in Italia e ci voglio restare». Sono le parole di Habib (il cui nome “ufficiale” è Ben Asri Sabri) al telefono con i e le solidali fuori dal Centro. Habib-Sabri è arrivato nel nostro paese nel 2003, lavorando come pescatore ad Ancona. è stato prelevato al largo di Lampedusa, dopo essere tornato a trovare la famiglia in Tunisia. È stato ospite (come vengono definit* le/i reclus*) prima del Centro di Crotone – chiuso dopo l’incendio che i suoi stessi ospiti avevano provocato – e poi del C.I.E. di Corso Brunelleschi, del quale domani si sarebbero aperte le porte e Habib-Sabri sarebbe tornato ad essere un uomo libero, magari in viaggio verso il Belgio, meta scelta in caso di insuccesso in Italia. Conoscendo la mentalità fascio-borghese di gran parte degli italiani, so già che in questi ultimi minuti quelle poche facoltà intellettive non evaporate per il caldo si saranno inceppate sulla frase «Ho speso duemila euro per tornare in Italia» alla quale è seguita la solita domanda: «ma se era povero, come se li è procurati i soldi per venire in Italia?» Io la risposta la conosco benissimo, ma non ve la dico. Perché la risposta la potete trovare lungo le circa 500 pagine di Bilal, il meraviglioso libro di Fabrizio Gatti, giornalista de L’Espresso che ci ha spiegato nell’unico modo possibile come sia la vita da clandestino: diventando uno di loro.

Le legislazioni passano, i Governi-aguzzini restano…

Centro di Identificazione ed Espulsione di Corso Brunelleschi (Torino) – Habib (Sabri, secondo i registri del Centro) da lunedì è salito sul tetto, ed è ancora lì, nel pieno della sua lotta. Se riesce a resistere fino a venerdì sarà un uomo libero, perché venerdì 23 è la data di scadenza dei 6 mesi massimi di reclusione nei C.I.E. È anche per questo che la sua storia deve circolare il più possibile, perché vincere questa battaglia per Habib significa riguadagnare la libertà, per le altre e gli altri reclus* significa un piccolo passo in più verso la distruzione totale di questi lager che le menti “democratiche e civili” hanno ideato per mantenere ordine e disciplina.
L’immagine che vedete qui di fianco è la scansione della data di scadenza del farmaco somministrato ad Habib per curargli l’asma. Una svista? Se credessi ancora in Babbo Natale, nella Befana o nella Democrazia degli Stati nazionali potrei rispondere di sì, ma la realtà è ben diversa. Perché la Croce Rossa Italiana è qualcosa di ben diverso da quello che la televisione vuole farci credere. Nei C.I.E. la Croce Rossa cura qualunque cosa con aspirine, tranquillanti e psicofarmaci (spesso usati come “ingrediente nascosto” nei cibi); porta i manganelli alle forze del (dis)ordine quando queste devono ricordare ai ed alle recluse chi è che comanda; si gira dall’altra parte quando uno di quelli che nell’immaginario collettivo sono chiamati “poliziotti” – Vittorio Addesso – tenta di stuprare una reclusa (Joy, finalmente libera da qualche settimana). Ma di tutto questo, potete starne certi, non ne verrete mai a conoscenza. Perché tutto quello che gira intorno ai Centri di Identificazione ed Espulsione non è materia di competenza dei pennivendoli italiani, e per trovarne notizie bisogna cercare nei circuiti alternativi (Radio OndaRossa con il programma “Silenzio Assordante” del venerdì alle 17, Radio BlackOut, Macerie e IndyMedia su tutti…), quelli cioè che fanno informazione.
Caro Habib,
siamo tutti con te e facciamo tutto il possibile da Gradisca. Stiamo lottando per combattere questa legge che non deve esistere, e facciamo il possibile. Molti di noi siamo in sciopero della fame, non vogliamo avere niente a che fare col direttore e le guardie, noi non vogliamo niente da loro.
In tanti ci tagliamo ogni giorno come forma di protesta perché i Cie devono essere rasi al suolo. Sappiamo che sei li da più di trenta ore; non ti preoccupare, tieni duro perché siamo molto vicino a te e sappiamo che la tua lotta è anche la nostra lotta.

Non spegni il sole se gli spari addosso

giuliani

Genova, (Italia) - Era esattamente 9 anni fa. Il 20 luglio 2001. Nel capoluogo ligure si erano riuniti i criminali più pericolosi del mondo, mentre a terra scorreva il sangue di un 23enne, ucciso – materialmente - da un burattino in divisa il cui compito era quello di difendere quei criminali che avrebbero deciso anche della sua vita (senza chiedergli nulla…) in quell’area invalicabile che chiamavano Zona Rossa.

L’Italia, ed il mondo intero, lo conobbe così Carlo Giuliani. Il volto di Carlo nel ricordo di tutti non è tanto quello delle foto successive. Il volto di Carlo è il suo passamontagna insanguinato, usato per non farsi identificare da chi, per legge, non è identificabile. A me piace pensare che quel passamontagna sia un po’ come quello del Subcomandante Insurgente Marcos e dei tanti e tante che lottano per i loro sogni nella Selva Lacandona.

«Noi, senza volto, incarniamo tutti coloro che combattono per la GIUSTIZIA. Non solo: rappresentiamo anche quelli che non hanno il coraggio di guardarsi in faccia. Non abbiamo identità, per ora; non siamo nessuno, ma, proprio per questo, ogni uomo che cerca la LIBERTA' può identificarsi con noi. Noi siamo chiunque ...»

Spesso quest’anno mi è capitato di pensare a Carlo Giuliani. Perché Carlo è morto a 23 anni – era nato nel 1978 - l’età che ho io adesso. E spesso mi viene da pensare come sia morire a quest’età, quando la strada da fare per prenderti la tua parte nel mondo è ancora in salita, quest’età in cui hai i sogni nel cassetto e la rivolta tra le dita, come canta Guccini in Eskimo. Mi chiedo spesso come sia morire a 23 anni, quando mentre stai organizzando i tuoi piani c’è qualcosa, o qualcuno – come in questo caso – che te li ruba…

Io Carlo Giuliani non l’ho mai conosciuto. Perché in quei giorni Genova la guardavo dalla televisione, occupato com’ero a fare ancora il ragazzino a cui interessava solo il pallone e quello che girava intorno a quel mondo. Non l’ho mai incontrato e se credessi nell’aldilà mi piacerebbe incontrarlo, in un futuro, per ringraziarlo. Già, perché anche se a Genova non c’ero, anche se le botte alla Diaz le ho viste solo dopo un po’ di tempo, furono proprio la pallottola di Placanica e il sangue di Carlo Giuliani, gli anfibi delle forze dell’ordine e i “tonfa” battuti sugli scudi che accesero la scintilla che è diventata la mia stella polare in questi nove anni. È per questo, forse, che ho sempre delle sensazioni strane quando parlo o scrivo di quei fatti, perché in qualche modo Genova ha rappresentato una specie di “seconda nascita”,

Contro le gabbie

Immagine troppo bella per lasciarla nelle mani del Tg5 di ieri (adattata dal video...)
«Ho sempre dato molto poco peso alla virtù e non ho mai capito bene perché si debba trovare tanta colpa nell’errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire, dopo cinquanta anni di vita, cosa sia esattamente la virtù e a cosa corrisponda l'errore».

[Fabrizio Cristiano De André]

Siamo circondati da gabbie. In ogni singolo momento la nostra esistenza ne è racchiusa.

Da piccoli ci insegnano quali siano le cose “buone” e le cose “cattive”, cosa è “giusto” e cosa è “sbagliato”. Ci insegnano cioè qual è la gabbia nella quale rinchiudersi e quale quella da evitare. Cresciamo in una società che si basa sugli stereotipi, cioè sulle gabbie mentali più pericolose – e difficili da abbattere – che la modernità abbia potuto ideare e, nello stesso tempo, la nostra identità sociale esiste solo se si basa su di essi (che, in alcuni ambiti, vengono declinati sotto forma di –ismi).

Uno degli stereotipi più assurdi che la società borghese nella quale viviamo ci ha inculcato nella testa per decenni è quello per cui chi sbaglia e finisce in un istituto carcerario viene automaticamente etichettato come “relitto sociale” per tutta la vita, anche se nel frattempo ha capito il proprio errore e, come si suol dire, pagato il proprio conto con la giustizia borghese.

Già, il carcere: uno dei più grandi stereotipi materiali che l’anima repressiva delle nostre società abbia potuto ideare e realizzare. Io ho iniziato ad interessarmene per puro caso – o forse per la mia insanabile curiosità – quando da quello splendido blog che è “Polvere da Sparo” (che è per me il miglior blog attualmente esistente sulla rete…) ho letto che negli anni del regime di Videla in Argentina (1974 - 1983) le donne e le ragazze incinte rimanevano all’interno dei lager ideati per la “pulizia anti-comunista” (come l’ESMA o il “Pozo” di Banfield) insieme ai loro figli appena nati. Ma, d’altronde, per definizione una dittatura non si comporta tenendo conto del galateo. Ma siamo così sicuri che quel che accadde in quella dittatura è rimasta una mera, seppur tristissima, pagina di storia?

Cosa succede, oggi, in questi grandi regimi oligarchici e classisti che qualcuno si ostina ancora a chiamare “democrazie”? Nelle nostre belle società “civili”, “giuste” e “democratiche” succede questo: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/06/cadra-linverno-anche-sopra-il-suo-viso.html. Succede, almeno nel nostro paese – che qualche anno fa si vantò della moratoria contro la pena di morte in sede O.N.U. – che i bambini da 0 a 3 anni siano costretti a crescere nelle carceri insieme alle loro madri.

Capii che lo Stato era uno stupido...



... che era timido come una donna nubile tra i suoi cucchiai d'argento, e che non sapeva distinguere i suoi amici dai suoi nemici, e persi tutto il rispetto che m'era rimasto nei suoi confronti, e lo compatii. Lo Stato dunque non si confronta mai intenzionalmente con il sentimento d'un uomo, intellettuale o morale, ma solo con il suo corpo, con i suoi sensi. Esso non è dotato d'intelligenza od onestà superiori, ma di superiore forza fisica. Non sono nato per essere costretto. Respirerò liberamente. Vediamo chi è il più forte. Che forza ha una moltitudine? Possono costringermi soltanto ad obbedire ad una legge che sia più alta della mia. Essi mi costringono a diventare come loro. Non sono a conoscenza di uomini che vengano costretti a vivere in un modo o in un altro da masse di uomini. Che tipo di vita sarebbe quella, da vivere? Quando incontro un governo che mi dice, "Il tuo denaro o la tua vita", perché dovrei precipitarmi a dargli il mio denaro? Può darsi che esso sia in gravi ristrettezze, e che non sappia cosa fare: non posso aiutarlo in questo. Deve aiutarsi da sé: deve fare come faccio io. Non vale la pena piangerci sopra. Non sono responsabile del perfetto funzionamento dell'ingranaggio della società. Non sono il figlio dell'ingegnere. Percepisco il fatto che, quando una ghianda ed una castagna cadono fianco a fianco, l'una non resta inerte per far posto all'altra, ma entrambe obbediscono alle proprie leggi, e nascono e crescono e fioriscono come meglio possono, fino a quando un giorno una non oscura e non distrugge l'altra. Se una pianta non può vivere secondo la propria natura, essa muore, e così un uomo.
[Henry David Thoreau - "Disobbedienza Civile"]

Banlieue 13

In realtà non è un gran filmone. Non è uno di quei film indimenticabili per cui varrebbe la pena spendere un sacco di soldi o buttare una serata in compagnia andandoselo a guardare al cinema, ma quando arrivano i titoli di coda di Banlieue 13 qualcosa rimane. Di certo non è un film per cui ci si possa annoiare, nonostante la scarna e probabilmente poco originale trama, ma il fatto che David Belle ne sia il protagonista dovrebbe far pensare. Perché? Beh, no: Belle non è il nuovo belloccio hollywoodiano né una di queste starlette che fanno i film d’azione con controfigura per le scene pericolose al guinzaglio. No: David Belle è semplicemente l’inventore del parkour, quella disciplina – per me da pazzi, ma è un parere personale – che ti insegna a saltare di qua e di là sopra i tetti, le recinzioni e qualunque altra cosa possa essere oltrepassata con un salto. Viene creata negli anni ‘80 in Francia da David Belle – appunto – riprendendo l’idea dai percorsi di guerra (il nome completo è infatti parcours du combattant, percorso del combattente) proposti da George Hérbert, insegnante di educazione fisica ed ufficiale della Marina francese durante la Prima Guerra mondiale. Già vedere gente che salta sopra i muri come fosse la cosa più normale di questo mondo, o passare da un lato all’altro di un palazzo su di una corda (le scene, peraltro, non prevedevano “aiuti” di alcun tipo), è una cosa che difficilmente crea sonnolenza. Ma veniamo ai dettagli del film:

La trama, dicevo, è abbastanza semplice: il regista Pierre Morel – coadiuvato alla sceneggiatura ed in fase di produzione da un pezzo da novanta come Luc Besson (l’anno di produzione è il 2004 con sequel lo scorso anno) – trae lo spunto da un fatto con il quale anche noi, seppur in qualche “breve” nei giornali locali, abbiamo familiarità: la recinzione di un quartiere “difficile”. Come quella robaccia fatta in via Anelli a Padova (il famoso “muro antispaccio”) o il muro preso da un altro film che non calcherà mai le scene di Cannes ma che comunque dà molti spunti sui quali riflettere come “Fame chimica” (del 2003. registi Antonio Bocola e Paolo Vari e cameo di Luca “’O Zulù” Persico, frontman ed anima della 99 Posse che ne cura anche alcune canzoni della colonna sonora). Il quartiere del film è la Banlieue 13, uno di quei tanti crocevia dove la modernità ha espulso i “non conformi”, quelli che l’attuale presidente francese ebbe a nominare – ai tempi in cui era Ministro dell’Interno – la “feccia” della società.

Eseguire gli ordini non è mica un reato.

«Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano». Scriveva nel giugno 1968 Pier Paolo Pasolini, in quella che è considerata la più controversa tra le sue poesie (e, probabilmente, una tra le più controverse opere nella sua vastissima produzione letteraria e cinematografica). Quelle parole, come è evidente, fanno riferimento a quell’episodio passato alla storia come la battaglia” di Valle Giulia. Il 1° marzo 1968, venne organizzato a Roma un corteo, che vide la presenza di circa 4.000 persone. Arrivati in Piazza di Spagna i manifestanti si divisero: una minoranza andò verso la città universitaria, la maggioranza invece si diresse verso Valle Giulia (tra i quartieri Parioli e Flaminio), con l’intento di liberare la Facoltà di Architettura, sgombrata poco prima dalle forze dell’ordine che si erano poste a difesa dell’istituto. Quel giorno, in piazza, c’erano molti di quelli che diventeranno poi i leader dei movimenti – di sinistra e di destra – che hanno scritto le pagine di storia di quell’epoca, come Oreste Scalzone (leader di Potere Operaio ed Autonomia Operaia) e Stefano Delle Chiaie (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale). Quest’ultimo, insieme a tutta la compagine di destra, verrà espulso di lì a poco – 16 marzo, giorno dell’assalto alla Facoltà di Lettere della Sapienza – dal movimento studentesco. Il casus belli che fa scoppiare gli scontri è il pestaggio, da parte di un gruppo di poliziotti, di un ragazzo che si trovava lì a manifestare: la reazione degli studenti – che, a differenza di manifestazioni precedenti, riuscirono a tener testa alle ben più attrezzate ed addestrate forze dell’ordine – fu immediata. Alla fine si registrarono 148 feriti tra le forze dell’ordine e 478 tra gli studenti, con 4 arresti, 228 fermati, otto automezzi della polizia incendiati e cinque pistole sottratte agli agenti.

Guardando le immagini del pestaggio di un’intera comunità – quella aquilana - che (non) arrivavano su quegli organi di informazione che oggi vanno in giro imbavagliati (solo per rendere palese un modo di fare ormai entrato nel “Decalogo del perfetto giornalista italiano”) mi sono venute in mente quelle parole con cui Pasolini si schiera al fianco dei poliziotti.

Sangue chiama sangue…

«Il cielo era diventato improvvisamente di piombo, una cappa opprimente calò all'improvviso sulla città. Mentre lascavamo la piazza, a occidente si stagliarono lingue rosse di fuoco...». Sembra l’incipit di un film hollywoodiano, di quelli catastrofici che vanno tanto di moda in questi ultimi anni. Invece è la descrizione di chi il 7 luglio 1960 era in piazza, a Reggio Emilia, a manifestare con i sindacati nell’ambito di uno sciopero cittadino proclamato per protestare contro la deriva fascista che il governo-lampo (25 marzo-26 luglio 1960) del democristiano Fernando Tambroni.

Un governo che di tempo per legiferare non ne avrà avuto molto, ma per insanguinare le strade italiane ne ha avuto anche troppo: il 30 giugno, infatti, c’era stata la “rivolta delle magliette a strisce” a Genova, dove molti giovani scesero in piazza per protestare contro il tentativo di portare un congresso del Movimento Sociale Italiano in quella che è la capitale dell’antifascismo italiano; il 5 luglio a Licata, durante una manifestazione contro il carovita, la polizia aveva sparato uccidendo Vincenzo Napoli un ragazzo di 25 anni che stava difendendo un bambino tenuto fermo al muro e picchiato dai celerini e ferendo altre ventiquattro persone; il giorno seguente a Roma c’era stata la carica della cavalleria contro un corteo antifascista; poi arrivò il 7 luglio.

«Compagno cittadino, fratello partigiano,
teniamoci per mano in questi giorni tristi:
di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia
son morti dei dei compagni per mano dei fascisti.»

Sono le parole iniziali di “Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei (qui nella versione degli Stormy Six), canzone che tramanda i nomi dei cinque militanti del Partito Comunista uccisi dai celerini:

Afro Tondelli Lauro Farioli Marino Serri Ovidio Franchi
  • Afro Tondelli: operaio di 35 anni. Quinto di otto figli di una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è stato partigiano della 76esima Sap (Squadre di Azione Patriottica, nome di battaglia “Bobi”) e, al tempo, segretario locale dell’Anpi. Viene volontariamente ucciso da Orlando Celani in piazza della Libertà. Vedendo Tondelli in mezzo alla piazza (da solo…) Celani estrae la pistola, s’inginocchia, prende la mira e spara a colpo sicuro;
  • Lauro Farioli: 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bambino. È uscito di casa in sandali, pantaloncini e maglietta rossa “di ordinanza”. Per i celerini quella deve essere una divisa “da terrorista”, visto che mentre Lauro gli si fa incontro per fermarli, una raffica di mitra lo colpisce in pieno petto, uccidendolo;

María Clara Ciocchini

C’è una frase che spesso mi viene in mente quando mi capita di parlare con qualcuno – solitamente ragazz* più piccol* di me – di storia, in particolare quella a me più cara, cioè quella degli anni della contestazione: «la memoria è un ingranaggio collettivo», che credo di aver letto per la prima volta su qualche articolo che parlava dei fatti avvenuti durante il G8 di Genova del 2001 ma di cui ignoro nella maniera più assoluta l’autore (o l’autrice…). Dire che sia importante conoscere la Storia non è certo un’affermazione sconvolgente, perché solo conoscendo quel che è successo ieri si può evitare il reiterarsi degli stessi errori; e solo se si conosce quel che è successo ieri si può sentire un senso di appartenenza per una causa.

Dicevamo che la memoria è un ingranaggio collettivo. Niente di più vero se si pensa alla storia dell’Argentina, in particolare a quel capitolo della storia di quel paese in cui nel giro di poco tempo una feroce dittatura fece sparire qualcosa come circa 30.000 persone, la cui unica colpa era quella di aver risposto un secco no al modello di società che Jorge Videla&soci (con il patrocinio degli stati imperialisti e – seppur in maniera leggermente più defilata – del Vaticano) avevano in mente.  È la storia dei desaparecidos, una storia collettiva per due motivi: perché la storia di quei ragazzi che dalle scuole decisero di fare fin da subito la propria parte per il miglioramento della società nella quale vivevano (facendo attività politica ma anche – e soprattutto – attività sociale come il volontariato nei quartieri poveri) deve essere quotidianamente fonte di ispirazione per le generazioni future, per quelle che sembrano in preda ad una crisi d’identità, inermi di fronte al nuovo potere clerico-capitalistico-fascista dei Padroni e dei potentati vari; e perché la storia dei desaparecidos, così come la storia degli ebrei deportati durante il secondo conflitto mondiale, quella dei palestinesi e dei tanti popoli che lottano per la loro libertà, deve essere una storia che riguarda quasi tutti: almeno coloro che dinanzi al Potere non abbasseranno mai neanche lo sguardo, e quindi non chineranno mai la testa.

Ma la storia dei desaparecidos è collettiva anche per un altro motivo: perché è la storia di 30.000 persone che quell’altra Storia – quella scritta sui libri scolastici e con la maiuscola – ha voluto identificare come un’unica entità. Questo, per quanto sia difficile ottenere notizie su ognun@ di quei 30.000 ribelli, è il terzo post del “dossier desaparecidos”, cioè il mio tentativo di conoscere – e dunque far conoscere – chi era ognuna di quelle anime che, nella notte argentina, sparivano in mare. Questa è la storia di María Clara Ciocchini.

Roma - manifestazione contro la legge-bavaglio. Diretta streaming

Da circa un'ora (dalle 17) e fino alle 24 a Roma si sta manifestando contro la legge bavaglio. Come in altre occasioni Señor Babylon si aggiunge alla lunga lista di "megafoni" perché per quanto creda che il bavaglio se lo siano messi già da qualche anno gli stessi giornalisti (ne ho parlato a più riprese in vari post...) sono dell'idea che tutti (o quasi, diciamo che con una trasmissione in streaming di CasaPound avrei non pochi problemi) debbano avere diritto di parola, per cui

Buona visione...
http://www.sevenow.tv
...e Buona Democrazia a tutti!

Perché tutti abbiamo lo stesso sangue e sotto il sole la stessa ombra.

Da qualche parte nel deserto vicino a Tindouf (Algeria, Sahara Occidentale) – Secondo gli storici sahara greci la storia è ciclica. Non succede mai niente di nuovo, assistiamo sempre alla riproposizione di qualcosa che è già avvenuto. Magari secoli addietro piuttosto che decenni, ma niente di nuovo. Se in questo momento mi trovassi davanti uno di questi storici greci gli chiederei se è vero che la storia è ciclica, come si definisce quella storia che si ripete nello stesso identico momento, con l’unica differenza nella dislocazione geografica? Prendiamo per esempio la storia del popolo palestinese, che più o meno conosciamo tutti: da oltre un secolo le loro terre vengono quotidianamente stuprate dagli anfibi dei militari e dei cittadini degli insediamenti israeliani senza che nessuna di quelle “istituzioni democratiche” – tantomeno gli stati che ne fanno parte -muova un dito per porre fine allo stupro.

Ma questo non succede solo in Palestina. La stessa cosa accade al confine tra il Cile e l’Argentina, dove da ormai quattro secoli il popolo Mapuche lotta – ignorato dalla maggior parte della comunità internazionale e dai suoi media – per riottenere quelle terre che i Conquistadores, quei criminali in Europa descritti come “eroi” in quel sovvertimento semantico delle parole che tanto ci piace per cui chiamiamo “terrorista” un popolo che lotta per la sua terra o “esportazione della pace” una guerra, gli hanno ingiustamente sottratto. E come i Mapuche si comportano i Sahrawi, l’unico popolo ad avere ricreato uno “stato in esilio” nella storia umana. Ma procediamo per gradi.

  • Un po’ di storia…

Con la conferenza di Berlino del 1884/85 gli europei si spartirono – con l’ausilio di righello e squadra – il continente africano. Questa non fu solo una spartizione di terre, ma fu anche e soprattutto la distruzione di società secolari, di tessuti sociali perfettamente equilibrati e, spesso, distruzione di intere famiglie, con fratelli che si trovavano dall’una e dall’altra parte di quelle strane e non certo naturali (ancor più se decise a tavolino…) invenzioni denominate “confini” che, fin dai tempi dell’Impero romano, altro non sono che il tentativo di definire su cosa – e soprattutto su chi – un’entità statale ha proprietà. Se poi consideriamo che, in particolare nella zona desertica, il continente africano era attraversato spesso da comunità nomadi (come i Kel Tamahaq – che in Occidente sono insultati col nome di “tuareg”- o gli stessi Sahrawi) possiamo immaginare che razza di shock sociale possa essere stato quello di ritrovarsi, ad un certo punto del cammino, dinanzi a barriere doganali, muri e protezioni varie presidiate giorno e notte da persone in divisa.