Qui il video per i lettori di Facebook e ReportOnLine.
Mi fa ridere, anche se di un sorriso amaro, la nuova “bagarre” di cui si può leggere in questi giorni su “Il Manifesto”, relativa alla figura di Roberto Saviano definito da Norma Rangeri – direttrice del quotidiano comunista – addirittura un “bene comune” da preservare, un po' come l'acqua (quello sì "bene comune" o gli orsi bianchi). Mi fa ridere innanzitutto perché è da queste piccole cose che si può capire perché in questo paese il concetto di “Sinistra”, intesa sia come sistema partitico che come area politica è stato assassinato da quella parte della sinistra – di cui già Pasolini ci parla nella famosa “Il PCI ai giovani”: «Avete facce di figli di papà. (…) ma sapete anche essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici» auto-suicidatai dopo il '68. Quella sinistra che oggi non va alle manifestazioni degli operai di Pomigliano o di Termini Imerese e che non una parola spende per gli operai che si sono auto-carcerati all’Asinara ma che – per un non meglio precisato “diritto democratico” – è in prima fila nelle manifestazioni di CasaPound e affini. Insomma: una Sinistra che da grande ha deciso di giocare a fare la Destra. Basti guardare al “pantheon” delle due aree: se oggi infatti gli uomini di Gianluca Iannone idolatrano inorgogliti – mostrando così se non un vero e proprio disprezzo e sovvertimento almeno una evidente confusione storica – figure come Ernesto Guevara de la Serna o Rino Gaetano, che nulla avevano – ed avranno mai - a che fare con tutto ciò che riguarda i destrorsi, la Sinistra fa oggi la stessa cosa inneggiando a personaggi come Saviano e Travaglio, professionisti di un giustizialismo che non si confà alla Sinistra propriamente detta, come scriveva Daniele Sepe qualche giorno fa sul già citato quotidiano. Ma è lo spirito del tempo, d’altronde. Quello stesso spirito per cui alcuni “anti” (anti-fascisti ed anti-berlusconiani soprattutto) si comportano proprio come coloro che dicono di combattere. Si pensi alla levata di scudi di fronte al legittimo – per uno stato democratico quale noi crediamo di essere – diritto al dissenso verso questi “eroi di carta”, come li definisce Alessandro Dal Lago proprio dalle pagine de “Il Manifesto”, riprendendo la sua ultima opera letteraria. Aveva ragione Gaber: «Non temo Berlusconi in sé. Temo Berlusconi in me».
È da un po’ che mi chiedo se il vero problema di questo paese - a livello politico - sia la sua classe dirigente. Quante volte, nelle discussioni al bar come in televisione, sentiamo dire che abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente, magari più giovane (cosa che non equivale certo ad una garanzia di miglioramento…)?
Io credo, invece, che non serva cambiare personaggi i quali altro non sono che l’espressione, la “maschera” di un sistema di potere fatto di lobby e gruppi finanziari, quanto vi sia la sempre più pressante necessità di rivedere la nostra classe intellettuale, in particolare quella che si definisce “di Sinistra”. Perché se oggi i nostri “intellettuali” si spendono su questioni come Saviano, od un presunto e tutto da accertare “regime” nel quale l’unica cosa che si chiede alle opposizioni è lo scendere in piazza a perorare questa o quella causa (sotto la quale spesso si cela la tutela di privilegi di questa o quella “casta”) il problema diventa ben più serio di quel che si possa credere, visto che sono sempre stati gli intellettuali ad ergersi a “grilli parlanti”, a coscienza critica della società del loro tempo. Per esempio non sento mai parlare questi intellettuali sinistrorsi di problemi “mediaticamente poco spendibili”, come tutti quelli che riguardano il mondo delle carceri, cioè di quel sistema repressivo che sempre più sta diventando classista e razziale (come ogni buono strumento di repressione in mano al Potere che si rispetti…). Tantomeno li sento battersi, li vedo scendere in piazza per una questione ben più disumana della carcerazione di presunti colpevoli: quella dei bambini carcerati. No, non è un nuovo reato (ma non ditelo a Maroni, non vorrei dargli spunti in tal senso…): è la condizione nella quale si trovano tra i 50 e gli 80 – purtroppo non ho trovato dati aggiornati, per cui mi limito ad evidenziare il limite minimo ed il limite massimo delle mie fonti – bambini tra gli 0 ed i 3 anni, per i quali la legge prevede che rimangano in carcere per essere accuditi dalla loro mamma. Ma procediamo per gradi…
«Non mi è facile scrivere del “Padiglione delle madri”, dove entrai nel febbraio 1974. La memoria mi tradisce e, per quanto mi sforzi, molti frammenti restano sfocati.
Tentare di ricordare sarà allora una prova, una sfida con me stessa.
Mi colpì la sporcizia, lo squallore del luogo. Si chiusero le sbarre. Sarei rimasta lì dentro per anni. A poco a poco, la gabbia si animò delle nostre voci di ragazze, dei nostri ricordi, e più tradi dei nostri FIGLI. Per l’esattezza, mio figlio, Eduardo Adolfo, nacque il 14 luglio.
Quando mi arrestarono ero incinta di tre mesi. Sembravo un’ “oliva”, secondo mio fratello. Non c’erano specchi in carcere, perciò non sono in grado di smentirlo. Quando venne l’ora di partorire, mi ricoverarono nel reparto maternità del Sardà. Ero sotto la custodia di agenti del Servizio penitenziario federale che, oltre alla porta della mia stanza, sorvegliavano i corridoi e le scale dell’ospedale. Una pattuglia di pliziotti piantonava la strada sotto le mie finestre.
Quando iniziò il travaglio, i medici decisero di farmi il cesareo. Mi portarono in sala operatoria incatenata alla barella. Il dottore cercò di convincere gli agenti di custodia ad aspettare fuori. Per tutta risposta, uno di loro indossò camice e mascherina chirurgica e non si mosse più. Appena mi sfilarono le manette, sibilai: “Lavatemi di torno il piedipiati”. Ma capii che era inutile, e allora dissi a me stessa: Concentrati sulla cosa più importante, la nascita del tuo primogenito. In quella gelida sala operatoria, l’umanità del personale medico mi dette coraggio. Tutti i mieri pensieri si rivolsero alla mia PICCOLA GRANDE VITTORIA: STAVA PER NASCERE MIO FIGLIO.
E venner al mondo, bello come il sole. Niente e nessuno poterono più cenusare i miei sentimenti, le mie emozioni, la mia tremenda allegria che provai nel sentirlo piangere.
Passavano i mesi, Guarito cresceva. Nel gennaio 1975 il padiglione si era andato ormai affollando di prigioniere politiche. La maggior parte erano state picchiate e torturate. Non avevano risparmiato nemmeno quelle incinte.
A fine anno la repressione si acuì, e le carceri, di conseguenza, si affollarono. Fu in quel periodo che il grosso delle compagne venne smistato nei padiglioni della Sezione 6. Nel 49 restarono solo madri e puerpere, e da allora fu chiamato “Padiglione delle madri”. Durante quel periodo nacquero almeno 17 bambini. Ci organizzammo in modo da seguire i piccoli, mandare avanti le faccende quotidiane e contemporaneamente dedicarci all’attività politica. Mentre un gruppo cucinava, un altro faceva le pulizie, e un terzo studiava e discuteva la situazione argentina e mondiale, nonostante le scarse informazioni che ci arrivavano dai parenti.
Dopo il golpe, il Potere Esecutivo Nazionale promulgò un decreto di base al quale i figli potevano restare con le madri solo fino al compimento del sesto mese d’età. Così la maggior parte dei bambini che viveva con noi fu consegnato ai parenti. Per molti anni non ebbi più nessun contatto fisico con mio figlio. Ecco come è andata col mio Guarito.
Quando venne il momento di separarmi da lui, avrei voluto gridare: “lasciatemi andare con mio figlio, il mio Guarito”, ma soffocai la disperazione. Per dignità, o forse per “intellettualizzazione”. Dentro però, ero a pezzi. Guardai una compagna che stava consegnando suo figlio ai nonni. Soffriva anche lei come me. Ci abbracciammo, piangemmo, li maledicemmo insieme. Ci avevano costrette a dare via i nostri figli. Ci avevano tolto il sacro diritto alla maternità.
I nostri due piccoli se ne andarono insieme, e il cancello del Padiglione delle madri si chiuse alle loro spalle. Non sapevano che non ci avrebbero più rivisto per anni. Quel pomeriggio, nell’ameno cortile del carcere, circondato da alti muri coronati da una triplice barriera di filo spinato, nacquero quei versi:
“Che ti succede figlio mio lontano
che ti succede figlio mio strappato
via da queste braccia che ti hanno cullato.
E’ una rabbia infondo al petto
che si gonfia nel silenzio…”
La memoria non mi assiste, non riesco a ricordare quei versi carichi d’amore e di dolore. Per questo ho provato a scrivere i frammenti della mia storia, perchè non voglio che “memoria” resti solo una bella parola.
Padiglione delle Madri Tentare di ricordare sarà allora una prova, una sfida con me stessa.
Mi colpì la sporcizia, lo squallore del luogo. Si chiusero le sbarre. Sarei rimasta lì dentro per anni. A poco a poco, la gabbia si animò delle nostre voci di ragazze, dei nostri ricordi, e più tradi dei nostri FIGLI. Per l’esattezza, mio figlio, Eduardo Adolfo, nacque il 14 luglio.
Quando mi arrestarono ero incinta di tre mesi. Sembravo un’ “oliva”, secondo mio fratello. Non c’erano specchi in carcere, perciò non sono in grado di smentirlo. Quando venne l’ora di partorire, mi ricoverarono nel reparto maternità del Sardà. Ero sotto la custodia di agenti del Servizio penitenziario federale che, oltre alla porta della mia stanza, sorvegliavano i corridoi e le scale dell’ospedale. Una pattuglia di pliziotti piantonava la strada sotto le mie finestre.
Quando iniziò il travaglio, i medici decisero di farmi il cesareo. Mi portarono in sala operatoria incatenata alla barella. Il dottore cercò di convincere gli agenti di custodia ad aspettare fuori. Per tutta risposta, uno di loro indossò camice e mascherina chirurgica e non si mosse più. Appena mi sfilarono le manette, sibilai: “Lavatemi di torno il piedipiati”. Ma capii che era inutile, e allora dissi a me stessa: Concentrati sulla cosa più importante, la nascita del tuo primogenito. In quella gelida sala operatoria, l’umanità del personale medico mi dette coraggio. Tutti i mieri pensieri si rivolsero alla mia PICCOLA GRANDE VITTORIA: STAVA PER NASCERE MIO FIGLIO.
E venner al mondo, bello come il sole. Niente e nessuno poterono più cenusare i miei sentimenti, le mie emozioni, la mia tremenda allegria che provai nel sentirlo piangere.
Passavano i mesi, Guarito cresceva. Nel gennaio 1975 il padiglione si era andato ormai affollando di prigioniere politiche. La maggior parte erano state picchiate e torturate. Non avevano risparmiato nemmeno quelle incinte.
A fine anno la repressione si acuì, e le carceri, di conseguenza, si affollarono. Fu in quel periodo che il grosso delle compagne venne smistato nei padiglioni della Sezione 6. Nel 49 restarono solo madri e puerpere, e da allora fu chiamato “Padiglione delle madri”. Durante quel periodo nacquero almeno 17 bambini. Ci organizzammo in modo da seguire i piccoli, mandare avanti le faccende quotidiane e contemporaneamente dedicarci all’attività politica. Mentre un gruppo cucinava, un altro faceva le pulizie, e un terzo studiava e discuteva la situazione argentina e mondiale, nonostante le scarse informazioni che ci arrivavano dai parenti.
Dopo il golpe, il Potere Esecutivo Nazionale promulgò un decreto di base al quale i figli potevano restare con le madri solo fino al compimento del sesto mese d’età. Così la maggior parte dei bambini che viveva con noi fu consegnato ai parenti. Per molti anni non ebbi più nessun contatto fisico con mio figlio. Ecco come è andata col mio Guarito.
Quando venne il momento di separarmi da lui, avrei voluto gridare: “lasciatemi andare con mio figlio, il mio Guarito”, ma soffocai la disperazione. Per dignità, o forse per “intellettualizzazione”. Dentro però, ero a pezzi. Guardai una compagna che stava consegnando suo figlio ai nonni. Soffriva anche lei come me. Ci abbracciammo, piangemmo, li maledicemmo insieme. Ci avevano costrette a dare via i nostri figli. Ci avevano tolto il sacro diritto alla maternità.
I nostri due piccoli se ne andarono insieme, e il cancello del Padiglione delle madri si chiuse alle loro spalle. Non sapevano che non ci avrebbero più rivisto per anni. Quel pomeriggio, nell’ameno cortile del carcere, circondato da alti muri coronati da una triplice barriera di filo spinato, nacquero quei versi:
“Che ti succede figlio mio lontano
che ti succede figlio mio strappato
via da queste braccia che ti hanno cullato.
E’ una rabbia infondo al petto
che si gonfia nel silenzio…”
La memoria non mi assiste, non riesco a ricordare quei versi carichi d’amore e di dolore. Per questo ho provato a scrivere i frammenti della mia storia, perchè non voglio che “memoria” resti solo una bella parola.
“LA PETY” GRISELDA VARELA VEIGA».
D’accordo, questo testo (che io trovo su quello che considero se non il più interessante per lo meno tra i primi tre blog più interessanti dell'immensa rete, cioè “Polvere da Sparo”: http://baruda.net ripreso dal libro “Memoria del Buio” di Italo Moretti) viene dalle donne segregate nei centri di detenzione clandestina dell’Argentina degli anni’70, ma la brutalità della situazione è la stessa delle donne che si ritrovano ad essere madri e carcerate allo stesso tempo. Prima di continuare, però, un po’ di cifre per darvi l’idea della situazione in cui ci troviamo a discutere (dati aggiornati al 2008, ultimo aggiornamento da me trovato):
- Capienza regolamentare delle carceri: 43.213 posti;
- Numero di detenuti presenti: 57.870.
- 21.845 i condannati in via definitiva;
- 3.199 quelli che aspettano il giudizio della Cassazione;
- 9.642 in attesa del giudizio d’appello;
- 16.741 sono in attesa di un primo giudizio. Sono cioè “parcheggiati” senza che vi sia stata una qualche decisione in merito alla reità o meno della loro situazione.
Stando alla nostra carta costituzionale – quella legge fondamentale spesso tirata per la giacchetta dall’una e dall’altra parte politica – il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», art.27 comma 3), e già qui, vista la situazione delle nostre carceri, ci sarebbe abbastanza materiale per discuterne; ma quando la ri-educazione viene somministrata anche a chi una prima educazione deve riceverla come appunto i bambini nella prima infanzia?
I bambini che nascono e crescono in questa situazione spesso si ammalano di “mancanza d’infanzia”: non ridono, diventano inappetenti, piangono spesso, subiscono disturbi legati al sovraffollamento, soffrono la mancanza di spazi nei quali fare il loro mestiere, cioè quello di bambin@ che li porta spesso a sviluppare vere e proprie forme di apatia sia sul piano emotivo che su quello cognitivo. Qual è la colpa di questi bambini? Perché devono subire anche loro la repressione fatta alle loro madri? Già: ma che tipo di madri sono quelle che devono affrontare la crescita e l’educazione dei propri figli e contemporaneamente subire il carcere? Leggendola sotto la mentalità giustizialista e modellata sulle regole dell’apparato repressivo della società moderna come minimo vengono in mente almeno quattro/cinque epiteti non propriamente oxfordiani, perché oggi l’apparato mediatico fa apparire il carcerato (o la carcerata, come nel nostro caso) niente di meno che un mostro, senza che se ne conoscano la storia e tantomeno i motivi per cui queste donne e questi uomini si ritrovano a pagare un conto con la giustizia.
A me dette molto fastidio – direi quasi un fastidio “di classe” – la dichiarazione di tal Gregoraci Elisabetta, nota soubrettina degli idioti programmi televisivi nostrani che, nel momento in cui il marito – tale Briatore Flavio, noto per aver scacciato dal suo locale in Sardegna persone che andavano a chiedergli di poter usufruire della località ove si situa il medesimo – veniva accusato di “riciclaggio di yacht” si prodigava a dire che il sequestro dello stesso avrebbe minato la crescita psico-fisica del povero Nathan Falco (figlio della coppia, che ha già pensato di minarne la crescita psichica con tale nome. Ma questa è un’altra storia…). Mi dette fastidio sia per la spocchia borghese – anzi, come si direbbe dalle mie parti “da pezzente arricchita” - della nostra, il cui senso della realtà deve essere inversamente proporzionale alla quantità di denaro in banca, sia per quei giornali che resero partecipi operai cassintegrati, giovani ricercatori universitari dal futuro incerto, neo-laureati col contratto a progetto o con un lavoro a chiamata, di questa fondamentale notizia.
Se la crescita di un bambino può essere minata dal non avere più sotto l'infante deretano un mega-yacht, cosa può succedere a quei bambini ai quali per i primi 3 anni è negata direttamente l’infanzia?
E qui torniamo all’aspetto classista del carcere. Perché spesso le donne che vengono rinchiuse non hanno avuto la possibilità di sculettare in televisione o di sposare uno dei miliardari del loro paese di origine. Molto spesso sono donne sfortunate, donne cadute nel tunnel della droga per i motivi più disparati, o semplicemente lo sono perché la società le definisce come “nemiche”, come Jorgovanka Nobilini, la giovane rom che ha perso il bambino che portava in grembo perché è stata picchiata da un essere “di pura razza italiana” fornito di mazza da baseball (cosa che ovviamente non ha trovato alcun riscontro nell’apparato mediatico mainstream…).
Bisogna trovare qualcosa di diverso, una risposta diversa agli errori delle persone. Perché è vero che nel carcere di Milano esiste un vero e proprio asilo nido per questi bambini, ma ciò non basta. Bisogna andare oltre: esistono gli arresti domiciliari, ad esempio. Quel tipo di pena per la quale se sei un imprenditore che ha truffato milioni di persone – leggasi alla voce Calisto Tanzi – ti vengono assegnati quasi per appartenenza di classe, mentre se sei un semplice ladro di galline non vieni neanche preso in considerazione. Ma il problema è ancor più ampio, e riguarda il non essere in grado di pensare ad un sistema di pena diverso da quello carcerario. Il problema maggiore non è tanto di chi è dentro. Il problema principale è di chi è fuori, incapaci come siamo di pensare ad un’alternativa al carcere.
«…cadrà l’inverno anche sopra il suo viso, potrete impiccarlo allora» cantava Fabrizio De André in “Geordie”, forse qualcosa in più di una semplice canzone.
P.s…le foto riprese nel post fanno parte di un piccolo libro di fotografie dal titolo ”Che ci faccio io qui? I bambini nelle carceri italiane”. Le altre foto le trovate qui:http://www.collactio.com/giustizia/carcere/un-orrore-delle-carceri-italiane-i-bambini-detenuti.html