Uranio impoverito: nuova sentenza conferma il nesso con la "sindrome dei Balcani"

Roma – Due condanne in dieci giorni. No, nessun nuovo caso di cronaca nera che tanto piacciono ad un certo tipo di informazione, anche se sempre di “nera” si tratta, anche quando ad essere condannato è il Ministero della Difesa.

Nei giorni scorsi, infatti, il Tribunale di Roma ha stabilito - con sentenza definitiva – in un milione di euro il risarcimento per i genitori di Andrea Antonaci, sergente maggiore di Martano (Lecce) morto di linfoma non Hodgkin il 12 dicembre 2000 dopo aver fatto parte del contingente Nato in Bosnia nel 1999. La più nota delle missioni in cui si usava l'uranio impoverito, che di Antonaci – come degli oltre 200 militari morti fino ad oggi – è stato l'omicida. L'ultima vittima, a settembre, l'ex marò catanese Salvo Cannizzo[1]. Oltre 2.000 gli ammalati, tra cui anche il militare 36enne di Corropoli (Teramo) appartenente al diciottesimo Bersaglieri Cosenza sul cui caso si è espressa in questi giorni la Corte dei Conti de L'Aquila. Con queste due ultime condanne sale a dodici il numero di cause giunte a sentenza in primo grado, per un risarcimento che supera i 16 milioni di euro. Il dato, ormai, sembra essere acquisito: i militari vittime della cosiddetta “Sindrome dei Balcani” muoiono di uranio impoverito, in aggiunta alla scarsa protezione con cui i nostri militari maneggiavano quel materiale, utilizzato in ambito bellico – in violazione di circa una decina di convenzioni internazionali, stando ad un rapporto Onu del 2002 – fin dalla Guerra del Golfo del 1991, con forti sospetti sull'intervento statunitense a Panama del dicembre 1989[2]. La “sentenza-Antonaci” - basata sugli studi sulle nanoparticelle della dottoressa Antonietta Gatti[3] - è destinata a fare scuola, tanto che avvocati belgi, inglesi e francesi ne hanno acquisito copia per studiarla.

Nonostante una serie di condanne che va sempre più aumentando, la politica è ancora sorda. All'epoca della morte di Antonaci l'allora ministro della Difesa Sergio Mattarella (governo D'Alema II, dicembre 1999-aprile 2000) sostenne che l'uranio non c'entrava – non essendo pericoloso - e che, comunque, non eravamo stati informati sul fatto che il contingente di cui facevamo parte utilizzasse uranio impoverito, nonostante la documentazione inviata dalla Nato affermasse l'esatto opposto. La colpa, è ancora la tesi portata avanti dalla classe politica, è da ricondursi ai vaccini fatti a distanza ravvicinata ai nostri militari che avrebbe potuto indebolire il sistema immunitario.

Vaccinazioni che, però, non furono fatte né alle popolazioni civili delle zone bombardate – come gli abitanti di Peja – Peć, nel Kosovo occidentale[4] - né nei pressi del Poligono di Quirra[5], dove si muore per le stesse cause. Ma questa è un'altra storia.

qui "L'Italia chiamò", di Leonardo Brogioni, Matteo Scanni, Angelo Miotto

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Note
[1] Uranio impoverito, morto l’ex marò Cannizzo. Aveva denunciato l’indifferenza dello Stato di Leandro Perrotta, CtZen.it, 18 settembre 2012;
[2] La storia dell'uranio impoverito, PeaceLink.it;
[3] "L'Italia chiamò" Intervento di Antonietta Gatti, Arcoiris.tv, 2 ottobre 2008;
[4] Elenco dei siti bombardati con uranio impoverito dalla Nato di Francesco Iannuzzelli, PeaceLink.it, 6 gennaio 2001;
[5] Quirra, c'è uranio impoverito di Riccardo Bocca, L'Espresso, 20 aprile 2011

I "fantastici cinque", i taleban che salveranno l'America (ma non l'Afghanistan)

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Se Karzai (e gli U.S.A.) riabilitano i taleban

foto: andyworthington.co.uk/

Kabul (Afghanistan) - Sono in molti a chiedere che la blacklist afghana venga cancellata in toto, rimettendo così nella lista dei “good guys” - in una rivisitazione della famosa massima di Franklin Delano Roosvelt su Anastasio Somoza - i circa 140 afghani ancora accusati di avere legami con Al Quaeda inseriti nella cosiddetta “lista 1267”, dal nome della risoluzione delle Nazioni Unite del 1999 con la quale è stato definito il sistema di sanzioni – anche di natura economico-finanziaria – verso tutti i conniventi con il gruppo di Bin Laden e che, allo stato attuale, contiene ancora circa 450 nomi. Ma chi sono i "fantastici cinque" che l'America libererà?

Guantánamo file US9AF-000007DP: Mullah Mohammad Fazl, conosciuto anche come Ahmad Fazl, Mazloom Fazl o Haji Fazl Akhund; nato a Sekzi nel distretto di Charchineh, provincia dell'Uruzgan nel 1967. Vicino al mullah Muhammad Omar, Fazl è stato il Capo di Stato Maggiore nel nord dell'Afghanistan ed ex ministro della difesa taleban. È accusato di connivenze con Al-Quaeda, il Movimento Islamico dell'Uzbekistan, il gruppo ultraradicale Hezb-e-Islami di Gulbuddin Hekmatyar – uno dei più potenti warlords afghani - e con un gruppo anti-coalizione denominato Harakat-i-Inquilab-i-Islami.
Considerato un detenuto “ad alto rischio”, è stato individuato come uno dei responsabili del massacro di migliaia di hazara - la minoranza sciita - tra il 1998 ed il 2001 e dell'uccisione dell'agente della Central Intelligence Agency Johnny Michael Spann nel 2001, durante la rivolta talebana nella fortezza di Qala-i-Jangi (“fortezzza della guerra” in afghano), fuori la città di Mazar-i-Sharif, nel nord del Paese. Spann è considerato la prima vittima americana della guerra afghana.
A fine novembre 2001 Fazl si arrende al generale Abdul Rashid Dostum dell'Alleanza del Nord insieme al mullah Norullah Noori e Abdullah Gulam Rasoul. Un anno dopo, l'11 gennaio 2002, viene trasferito a Guantánamo. Se rilasciato, avverte il dossier a suo nome nella prigione dell'isola cubana, potrebbe tornare nelle fila dei taleban (dei quali fa parte fin dal 1995) sfruttando il vasto potere – basato anche sul traffico di droga - e le ingenti risorse finanziarie a sua disposizione già ai tempi del suo ruolo politico-militare nell'organizzazione. Conti a lui riferibili sono stati congelati presso la al-Taqwa Bank (“Timore di Dio” in arabo), fondata nel 1988 da alcuni leader della Fratellanza Musulmana con uffici in Lichtenstein, Svizzera, Bahamas ed Italia, accusata dagli Stati Uniti di essere una tra le prime finanziatrici del terrorismo islamico di cui riciclerebbe il denaro. Il Consiglio di Amministrazione della banca ha sempre negato ogni collegamento di questo tipo.

Kidogò - Un bambino soldato

How could you just occupy another child's tear?
["Occupied tears" - Serj Tankian]

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Prodotto nel 2008 dalla Seven Hills Production, “Kidogò – Un bambino soldato” - che vede tra gli sceneggiatori il giornalista Giuseppe Carrisi, giornalista Rai, scrittore e documentarista che da anni si occupa delle problematiche dei Paesi in via di sviluppo, in particolare del continente africano – racconta due storie.

La prima, come evidenziato dalla sinossi, è quella di John Baptist Onama, Presidente onorario dell'associazione Pizzicarms che negli anni '80 è stato un bambino soldato in Uganda, intrecciata con la storia dei circa 300.000 bambini soldato (di cui un terzo nel solo continente africano) che ancora oggi sono costretti a combattere negli oltre 30 conflitti attualmente in corso nel mondo, in una guerra globale contro l'infanzia che nell'ultimo decennio ha ucciso 2.000.000 di bambini, ferendone o invalidandone almeno il triplo.

Una guerra globale necessaria a mantenere la discrepanza tra il Nord sfruttatore (anche di risorse naturali quali petrolio, diamanti e coltan, ottime “conseguenze umanitarie” per muovere guerra) ed il Sud sfruttato, evidenziata dai 750 miliardi di dollari destinati alla lotta alla povertà contro i 1.200 miliardi di dollari che – come racconta Riccardo Troisi – ogni anno vanno a rimpinguare i conti dei signori della guerra, che siano essi sconosciuti trafficanti o conosciutissime industrie come Finmeccanica o Beretta, potenze del business bellico dell'Italia, secondo paese al mondo per la produzione di armi leggere e quarta alla voce “esportazione” ed i cui prodotti finiscono spesso proprio nelle mani di quei bambini soldato.

Il “made in Italy” è anche questo. Una storia – la seconda di questo documentario – da non raccontare, parafrasando Fabrizio De André.

Se Karzai (e gli U.S.A.) riabilitano i taleban

foto:  journalism.co.uk

Kabul (Afghanistan) – La notizia era nell'aria già da molto tempo, con i primi rumors registrati già tra il 2009 ed il 2010. Adesso però è arrivata la conferma direttamente dal presidente afghano Hamid Karzai, che lo scorso 25 settembre ha chiesto alle Nazioni Unite di cancellare i nomi dei leader taleban dalla “blacklist” antiterrorismo, al fine di poter avviare gli accordi di pace che pongano fine alla guerra afghana. «La nostra mano per la riconciliazione rimane tesa non solo per i talebani ma anche per i membri di tutti i gruppi armati che desiderano tornare ad una vita degna, pacifica ed indipendente nella loro terra» ha detto il presidente, il quale ha chiesto «semplicemente ai nostri interlocutori di mettere fine alla violenza, rompere con le reti terroristiche, conservare le conquiste dell'ultimo decennio e rispettare la Costituzione».

Che la si chiami “trattativa di pace”, “resa”, “sconfitta” o in qualunque altro modo una cosa è certa: senza gli studenti delle scuole coraniche nessun Afghanistan è possibile se non quello caotico che ha rappresentato la storia recente del Paese trasformando la campagna americana – denominata “Enduring Freedom” - in un pantano simile, e per certi versi peggiore, di quel che fu il Vietnam tra il 1960 ed il 1975[1]. Al di là delle dichiarazioni rimane da capire se il ruolo a cui i taleban sono destinati nel nuovo Afghanistan sarà solo nel o, in un ritorno al passato, di potere. Ammettendo che negli anni del conflitto lo abbiano effettivamente perso, quel potere. Perché se una cosa è certa, nell'attuale instabilità afghana, è che il governo non sarebbe assolutamente in grado di reggere il paese in autonomia, anche a causa del crollo di credibilità dovuto alla frode elettorale delle elezioni presidenziali e parlamentari del 2009 e 2010 il cui trend continua ad essere negativo.

L'accordo di Doha. Sarebbe ingenuo pensare che le dichiarazioni di Karzai arrivino dal nulla o da una estemporanea consapevolezza personale. L'annuncio dell'apertura dei negoziati di pace – o della sconfitta per le forze della coalizione, a voler leggere il rovescio della medaglia – arriva a negoziati già avviati. Scenario delle trattative è il Qatar, ormai proiettato ad un ruolo di primo piano nelle relazioni finanziarie, economiche e geopolitiche mondiali (tanto che il sessantenne emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, noto anche come “l'Henry Kissinger arabo” può permettersi di ”acquistare” le banlieue[2], dando vita ad un precedente di delocalizzazione politico-economica tanto interessante quanto inquietante).

Memorie di un'infamia. Storia di una giornalista più forte dei Demoni

«Le mafie mi vogliono morta non per quello che so,
ma per quello che voi e le vostre figlie saprete leggendo i miei libri».

[Lydia Cacho, Memorie di un'infamia]


foto: anobii.com

Che Lydia Cacho sia una donna forte te ne accorgi dagli occhi. Come nell'immagine scelta per la copertina dell'edizione italiana di Memorias de una infamia (Memorie di un'infamia, in italiano), uscito in versione originale per Random House Mondadori nel 2008 e tre anni dopo, per la Fandango, nella sua versione italiana.

Per parlare di questo libro, però, è necessario fare un passo indietro. Memorie è infatti una sorta di “making of”, il racconto biografico di quanto accaduto tra il 2003 ed il 2007 alla giornalista messicana che, svestiti i panni della “cacciatrice di notizie” veste quelli di attivista e presidente del Ciam, il Centro Integral de Atención a la Mujer di Cancún, nello Stato di Quintana Roo, organizzazione della società civile messicana che si occupa di «eradicare tutte le forme di violenza di genere».

Los Demonios del Edén1, il libro da cui bisogna partire per raccontare questa storia, nasce proprio per questo scopo. Da presidente del Ciam, infatti, Lydia Cacho entra in contatto con Emma [nome di fantasia] una bambina che nel 2000 ha denunciato gli abusi di cui è stata fatta oggetto da parte di Jean Thouma Hanna Succar Kuri, imprenditore alberghiero libanese – in Messico fin dagli inizi degli anni '80 – entrato più volte in inchieste giornalistiche e giudiziarie per pornografia infantile e lavaggio di denaro. È grazie ad Emma e alle tante bambine e bambini invischiati nel più infame dei traffici internazionali – quello dello sfruttamento di minori a scopi sessuali – che Lydia Cacho affronterà i demoni di una rete internazionale tra le più impenetrabili e che in Messico ha visto (vede ancora?) la copertura e la connivenza di un sistema fatto di imprenditori – nel caso specifico José Kamel Nacif Borge, potentissimo “Re dei jeans” che gestisce maquiladoras sparse tra Messico, America Latina e sud-est asiatico – con in agenda il numero di politici come Mario Plutarco Marín Torres, all'epoca dei fatti governatore priista di Puebla, al quale Nacif chiese il favore di utilizzare tutti gli strumenti in suo possesso – legali o meno che fossero – per arrestare Lydia Cacho, rea di essere stata la prima in Messico a denunciare la rete pederasta facendo nomi e cognomi. Marín, prontamente, esegue.

Omicidio Rostagno, un processo che non vuole ripartire

foto: ilpost.it

Trapani – Dopo la pausa estiva, il processo per l'omicidio di Mauro Rostagno è ripreso solo formalmente. Già l'udienza tenutasi lo scorso 26 settembre[1] si era chiusa ancor prima di iniziare, data l'assenza dei testi e dell'ex capomafia Vincenzo Virga, detenuto per altri reati di natura mafiosa presso il carcere di Parma. Tutto rimandato al 10 ottobre.

Mercoledì il copione è stato identico. Nessuno dei testi era infatti presente in aula per mancato recapito della citazione o perché la stessa li aveva raggiunti ad indirizzi sbagliati. Annamaria di Ruvo, dopo aver giustificato con l'impossibilità economica l'assenza all'udienza di fine settembre ha inviato un impedimento di tipo sanitario per non presentarsi a questa; Renato Curcio – un tempo tra i migliori amici di Mauro Rostagno – ha fatto sapere via fax di non avere niente da dire. La difesa dei due imputati (oltre all'ex boss Virga c'è anche Vito Mazzara, killer all'epoca dei fatti a disposizione della famiglia mafiosa di Trapani accusato di essere l'esecutore materiale dell'omicidio) ha deciso infine di rinunziare ai testi esclusi, cioè la stessa Di Ruvo, Francesca Lipari e Luisa Fiorini. Più che probabile, per Curcio, il ricorso all'accompagnamento coattivo.

La Corte ha così deciso di fissare la prossima udienza per il 7 novembre, così da permettere alla burocrazia di fare il suo corso e non essere utilizzata per tenere fermo un processo già in ritardo di più di vent'anni.

Ascolta l'audizione integrale da Radio Radicale.

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Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/09/trapani-milano-ricordando-mauro-rostagno.html

Denied Access. Viaggio nel purgatorio delle città-satellite (4/4)

foto: peaceculture.org

Atene (Grecia) - 1881 agenti a difesa del confine sul rio Evros, in aggiunta alle pattuglie già presenti e, dal luglio 2011, un muro di 12,5 chilometri alto tre metri concepito sul modello della rete che separa le enclavi di Ceuta e Melilla (territorio marocchino[1]) dal territorio spagnolo e che ha portato ad una diminuzione degli ingressi di circa l'84%[2]. È quello che si sono trovati davanti i migranti che lo scorso 2 agosto hanno tentato di oltrepassare il confine naturale che separa la Grecia dalla Turchia o, se la si vuole leggere in altri termini, la Fortezza Europa dall'esterno. Eccola la “porta d'Europa”. È da qui e non da Lampedusa – come erroneamente fanno credere gli organi di informazione italiani – che, dal 2005, passa più dell'80 per cento dei migranti senza documenti che attraverso l'Europa meridionale tentano di arrivare nei paesi del nord, in un viaggio che per l'eccessiva distanza e per le stringenti leggi del cosiddetto “Dublino II” significa per i migranti rimanere segregati in un purgatorio con Atene come capitale.

La Commissione Europea non esclude l'eventualità di finanziare progetti per rinforzare ancor di più le politiche anti-migranti delegate alla Grecia, in aggiunta ai 676 milioni di euro stanziati da Parlamento e Consiglio attraverso un programma annuale co-finanziato per 10 milioni di euro da Grecia e Fondo europeo per i rimpatri che dovrebbe portare al rimpatrio di 7.000 migranti.

Turchia: sala d'attesa per l'Europa. La Turchia rappresenta una vera e propria “anticamera”. Sia perché è da qui che i migranti passano per arrivare in Grecia sia perché la Turchia si trova – geograficamente e politicamente – a metà strada tra l'Europa e l'esterno. L'esterno, a queste latitudini, si chiama Iran. Tra i due paesi, una barriera naturale lunga 454 chilometri la cui altezza varia tra i 2.500 ai 3.000 metri e la temperatura tra i 4° ed i 6° e le cui cime sono continuamente attraversate da merci e persone in quanto, nonostante la strada accidentata ed il clima spesso improponibile, questo rimane il passaggio più corto, più sicuro e soprattutto meno controllato tra l'Asia e l'Europa.

Urmia, Shahpur e Maku – nella regione iraniana dell'Azarbaijan occidentale (da non confondere con la repubblica dell'Azerbaigian che si trova nella regione caucasica) – sono le tre città dove i vengono raggruppati i migranti e da cui, a bordo di automobili o camion, ci si avvicina ai villaggi transfrontalieri dai quali si tenterà il salto in Turchia.

Denied Access. Il business del migrante (3/4)

foto: owni.eu

Roma - Dall'inizio del nuovo millennio, quando i paesi confinanti con la Fortezza Europa hanno accettato – attraverso accordi come il famoso “trattato italo-libico”[1] - di farsi guardiani delle frontiere europee, non solo perseguendo quel diritto all'emigrare sancito tra gli altri dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 ed al Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, ma anche rendendosi corree delle violazioni dei diritti umani necessarie ai paesi difesi dalla Fortezza per mantenere il proprio status di appartenenza al “mondo dei ricchi”,  in una situazione di vero e proprio subappalto delle frontiere.

Il business del migrante. Dal 1999 – anno in cui in Italia i Centri di Permanenza Temporanea voluti dalla legge Turco-Napolitano diventano Centri di Identificazione ed Espulsione – al 2011 il costo dei 13 centri italiani è stato di 985,4 milioni di euro, di cui solo 287 tra il 2008 ed il 2011, ai quali vanno già aggiunti – in quanto previsti negli allegati alla legge finanziaria 2011 – i 169 milioni per quest'anno ed altri 211 per il prossimo.

Secondo l'Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, il 60% della popolazione dei centri proviene direttamente dal carcere, luogo dove l'identificazione dovrebbe già essere avvenuta. Ciò però non si verifica mai, a seguito di una serie di intoppi e lentezze burocratiche grazie alle quali si crea un vero e proprio corto circuito di legalità – costituito dal sistema carcere-cie che può, come abbiamo visto, reiterarsi praticamente all'infinito – nel quale le ed i migranti si trovano a scontare una pena suppletiva pur non avendo commesso alcun reato ed oltretutto incostituzionale, in quanto il nostro ordinamento prevede sì il cosiddetto “fermo per identificazione”, ma solo per la durata di poche ore, non certo di interi mesi come è invece la permanenza media nei centri. Da qui la ovvia quanto logica domanda: chi ha trasformato i migranti in un vero e proprio business?

Ogni migrante rinchiuso costa in media 45 euro al giorno, con spese che variano dai 24 euro del Centro per Richiedenti Asilo (o Cara) di Foggia ed i 34 del Cie di Bari ai 75 di Modena. Quest'anno, però, tutte le gare d'appalto sono state fatte al ribasso e, ad esempio, al Cie di Bologna la prefettura ha definito un tetto massimo di 28 euro giornalieri anche se – come denunciava Anna Maria Lombardo, direttrice della Confraternita della Misericordia che ha gestito il centro fino a fine luglio – solo per un medico di euro se ne spendono 23. All'ora[2].

Denied Access. L'Internazionale dell'espulsione (2/4)

Continua da qui:
Fortezza Europa, viaggio sull'invalicabile confine sud (1/4)

foto: carmillaonline.com

Madrid (Spagna) - Nel modo in cui tratta i migranti l'Italia può dirsi in buona compagnia perché quello che l'Europa ha istituito lungo la sua frontiera meridionale, passando per posti come Melilla[1], Lampedusa o il rio Evros, è diventato un vero e proprio sbarramento anti-migrante, sulla falsariga dei circa 3000 chilometri del muro che separa Messico e Stati Uniti.[2]

Malaga, Fuerteventura, Gran Canaria, Murcia, Valencia, Madrid, Barcellona, Algeciras, Tenerife. Sono in tutto nove i Centri di identificazione ed Espulsione (Centros de Internamientos de Extranjeros in spagnolo) realizzati nel Paese fin dal 1999 anche se esperienze similari si registrano sul territorio spagnolo fin dal 1985. Secondo l'Asociación pro derechos humanos de Andalucía - ci sarebbero altri centri “fantasma”, tra i quali uno nella zona di Almería ed uno nelle Canarie, la cui esistenza è stata ormai accertata. Fame, freddo e mancanza delle più elementari norme a tutela delle e dei migranti – da quella medica a quella giuridica, come riporta in un suo report l'organizzazione internazionale Women's Link Worldwide, organizzazione che promuove l'integrazione di genere in materia di giustizia e dal 2008 presta assistenza giuridica specializzata verso le donne vittime o presunte vittime di tratta rinchiuse nei centri – rappresentano le denunce fisse di chi entra nel circuito spagnolo della detenzione amministrativa per migranti. E questo è solo quello che succede nei cie ufficialmente riconosciuti. Il report è il frutto di due anni di lavoro che ha portato ad intervistare 45 donne di cui sette incinte e 21 presunte vittime di tratta in sei dei nove centri della Spagna, con le organizzazioni che hanno accesso o che lavorano con reclusi e magistrati incaricati di controllarli.

Il report realizzato dall'associazione evidenzia inoltre come siano gli stessi magistrati che dovrebbero occuparsi delle migranti a non conoscere approfonditamente la legislazione in materia di immigrazione, rendendo ancora più insopportabile una situazione dove la denunzia di violazione dei diritti umani è pressoché costante e costantemente inascoltata. L'ignoranza giuridica dei magistrati, in aggiunta alle difficoltà riscontrate dalle organizzazioni della società civile per entrare nei centri, fa in modo che molte recluse - «in una situazione decisamente peggiore rispetto a quella carceraria», come evidenziato da alcuni addetti ai lavori – non abbiano la minima idea di quali siano i propri diritti, come la possibilità di fare richiesta di asilo già all'interno del centro o di poter sporgere denunce e reclami.

Fortezza Europa, viaggio sull'invalicabile confine sud (1/4)

Nel corso degli ultimi tempi, il continente europeo si è trasformato sempre più in una vera e proprio "Fortezza", chiusa verso chi tenta - emulando proprio gli europei di una manciata di decenni fa - di attraversare quel confine tra la povertà e la ricchezza, tra il cosiddetto terzo mondo e quel primo mondo che di questi è origine. E intanto - tra centri di identificazione, camere ad infrarossi e barconi - c'è chi ha trasformato i corpi migranti in un vero e proprio business.

Borders are the gallows of our collective national egos
I confini sono il patibolo del nostro collettivo egocentrismo nazionale
[ “Borders are” - Serj Tankian]


Roma - La chiamano – non a torto - “Fortezza Europa”. Perché è esattamente questo che, dall'esterno, il continente europeo è diventato. Un'enorme, immensa fortezza – nella quale forte sta diventando il divario tra classe al potere e cittadini - che ha da tempo chiuso le proprie frontiere, le quali grazie agli accordi bilaterali vengono spostate sempre più a sud (tanto che in molti parlano ormai di una vera e propria “delocalizzazione” delle frontiere) instaurando delle zone intermedie, dei luoghi – come le città-satellite turche – che non appartengono di fatto né alla “fortezza” né all'esterno. Purgatori geopolitici dove vengono stoppati i migranti, il cui sogno di una vita migliore rappresenta il più grande pericolo per gli stati difesi dalla Fortezza: rompere quel modello di sostentamento basato sullo sfruttamento dei paesi limitrofi.
Ad essere sotto i riflettori gli stati meridionali, ormai da anni gestori di una frontiera più socio-economica che geografica che dalle coste spagnole – enclavi marocchine incluse – e passando per i barconi di Lampedusa, simbolo di un nuovo “assalto alla Fortezza”, arriva fino alla Grecia ed alla Turchia, il cui “visto d'ingresso” per l'Europa politica verrà emanato anche in base al comportamento tenuto su aspetti come questo.
Gli stessi governi – in molti casi vere e proprie dittature – da cui i migranti scappano nella maggior parte dei casi, sono stati messi al potere dall'Occidente, dalle due “Fortezze” del primo mondo, cioè quella statunitense (che esporta guerre senza mai averne subita una sul proprio territorio, se non quella per la formazione o l'attacco dell'11 settembre) e quella europea, dove respingere i migranti alla frontiera significa respingere le cause – anch'esse perpetrate dall'Occidente – del divario tra Nord e Sud del mondo (povertà, guerre, sfruttamento, etc).