30 giugno 1960 – 30 giugno 2010: figli della stessa rabbia.

Genova (Italia) - È passato esattamente mezzo secolo. Cinquanta anni dall’”insurrezione delle magliette a strisce”, cioè la lotta dei camalli (i portuali), dei giovani e di tutti gli anti-fascisti per impedire che il suolo della città che venti anni prima dette i natali a Fabrizio De André potesse venir sporcato dall’MSI, che proprio nella città medaglia d’oro per la Resistenza. Un affronto che non poteva passare sotto silenzio.

Il congresso si inseriva in un contesto in cui il governo di Fernando Tambroni (Democrazia Cristiana) – che nel marzo dello stesso anno aveva avuto mandato di formare il nuovo governo per sostituire quello del dimissionario Antonio Segni (DC) – poté insediarsi proprio grazie ai voti missini, che dunque tenevano in scacco il governo (quando si dice “corsi e ricorsi storici”…). Ma il 1960 non è certo il 2010. Nel 1960 si costruivano già quelli che furono il ‘68 e la lotta proletaria armata: tra una settimana, infatti, cadrà l’anniversario di un’altra delle date storiche per gli antifa italiani: l’omicidio da parte dei celerini dei militanti del Partito Comunista Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli, i cui nomi rimarranno per sempre immortalati nell’omonima canzone di Fausto Amodei.
«Il 30 giugno era stato proclamato sciopero generale. Siamo scesi tutti in piazza e dopo il comizio è scattata una scintilla. C’era la famosa Celere di Padova, che era considerata una specie di corpo speciale ed era composta da picchiatori, e il loro capitano all’improvviso ha suonato la tromba e sono partiti i primi caroselli. Si è subito aperto un conflitto fortissimo.
Le camionette, lanciate alla massima velocità, ci venivano addosso fin sotto i portici per disperderci (...). I più giovani di noi non sapevano come comportarsi nel caos dei tafferugli, anch’io ero molto confuso e per fortuna (...) un amico del mio quartiere, che era stato un partigiano di montagna, si è preso cura di me e mi suggeriva come muovermi e dove nascondermi. (...) La guerriglia andò avanti fino al tardo pomeriggio e questi caroselli della polizia, che erano partiti alla grande contando sull’effetto sorpresa, piano piano hanno dovuto ridurre la velocità e l’intensità perché erano circondati da ogni parte, finché si sono dovuti fermare del tutto
». Racconta Paride Batini, all’epoca 26enne portuale. Lo scontro arrivava in Piazza De Ferrari, quando il corteo che seguiva lo sciopero generale indetto per protesta si ritrovava faccia a faccia (o sarebbe meglio dire “faccia a camionetta”) con gli scelbini di Giuseppe Spataro, allora Ministro degli Interni.

Non è mai tutto bianco o nero. Il mondo è a colori!

Alla luce del sole - Napolipride2010
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Napoli (Italia) -  Sabato a Napoli pioveva. E c’era il sole. Dunque su Napoli campeggiava un bell'arcobaleno. Io me lo sono visto passare davanti, nei volti sorridenti, nelle bandiere e nei mille colori di un gruppetto di ragazzi appena maggiorenni alla stazione centrale, tappa di un personale giro d’Italia di meno di 24 ore. Per vedere l’arcobaleno sabato a Napoli non c’era bisogno di puntare il naso al cielo, bastava transitare per piazza Garibaldi, Porta Capuana o via Carbonara. Perché sabato a Napoli, dopo 16 anni, è tornato il pride, quella manifestazione d’orgoglio del popolo lgbtqi che per la mentalità vetero-democristiana è solo una manifestazione che andrebbe resa illegale per “oltraggio al pubblico pudore”.  Io non ci sono mai stato (e qui ci sarebbe da sottolineare il “purtroppo” non so quante volte…) ma quello che è successo sabato nel capoluogo partenopeo è qualcosa di portentoso, qualcosa che potrebbe – o forse sarebbe meglio scrivere dovrebbe – essere il punto di svolta per una situazione (quella dei diritti delle e degli lgbtqi) preda dell’immobilismo che pervade questo geriatrico paese fin nelle più recondite viscere.
napolipride Io non ci sono mai stato, come dicevo, quindi non posso che basarmi su informazioni “di seconda mano” in attesa di averne da chi ha attraversato le strade napoletano su uno dei 15 carri di cui si componeva la manifestazione. Quel che sembra aver colpito maggiormente l’immaginario collettivo è stata la partecipazione dei napoletani, come se il pride fosse stato una manifestazione in qualche modo “di nicchia”, di quelle che interessano solo “gli addetti ai lavori” di questo o quel campo. Pur non essendo – ovviamente – la festa di tutti, sicuramente è una festa aperta a tutti, perché i diritti – quelli lgbtqi come tutti gli altri – non sono ad uso e consumo solo di chi ne subisce in prima persona gli effetti. Perché se si scendesse in piazza solo durante i gay pride si potrebbe anche dire che il nostro è un paese civile e normale. Invece non solo tocca fare il gay pride per tentare di porre l’accento su questi diritti, ma quotidianamente (non) leggiamo dei diritti negati a chi entra nel nostro paese in cerca di un futuro migliore, non leggiamo dei diritti negati a chi ha sbagliato e che non viene aiutato, nonostante una carta costituzionale che – per chi ancora ci crede – chieda l’esatto opposto; (non) leggiamo dei diritti dei lavoratori, immolati sull’altare del capitalismo più sfrenato e della dottrina dello shock in scala ridotta che oggi si è fatta Verbo padronale. Non ne leggiamo perché – semplicemente – tali diritti ancora non esistono.

Lode della dialettica


L'ingiustizia oggi cammina con passo sicuro.
Gli oppressori si fondano su diecimila anni.
La violenza garantisce: Com'è, così resterà.
Nessuna voce risuona tranne la voce di chi comanda
e sui mercati lo sfruttamento dice alto: solo ora io comincio.
Ma fra gli oppressi molti dicono ora:
quel che vogliamo, non verrà mai.

Chi ancora è vivo non dica: mai!
Quel che è sicuro non è sicuro.
Com'è, così non resterà.
Quando chi comanda avrà parlato,
parleranno i comandati.
Chi osa dire: mai?
A chi si deve, se dura l'oppressione? A noi.
A chi si deve, se sarà spezzata? Sempre a noi.
Chi viene abbattuto, si alzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come lo si potrà fermare?
Perché i vinti di oggi sono i vincitori di domani
e il mai diventa: oggi!

[Bertold Brecht, traduzione di F.Fortini.]

Musica pesante, musica pensante...

Prima di partire con il post un paio di avvertenze: il video qui sotto non è per bambini (lasciateli illudere ancora un po’ che il mondo sia quello tutto rose&fiori delle favole…) tantomeno è da guardare se avete da poco fatto colazione. Mi interesserebbe, peraltro, che il lettore mi scrivesse anche cosa legge in questo video (così come io ho cercato di fare più sotto), naturalmente prima di leggere la mia disamina, per evitare influenze di giudizio in quanto, da studente di comunicazione quale sono, per me potrebbe essere interessante fonte di studio la sensazione che un video come questo suscita nello spettatore, e capite bene che più persone mi segnalano le loro, più facile è per me il lavoro. Detto questo, buona visione…
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Se lo scopo era quello di far parlare, il nuovo singolo di Mathangi "Maya" Arulpragasam, la 34enne artista nata inglese e cresciuta Tamil (e chi mastica un po’ di storia e politica internazionale sa che questo dice molto…) che il mondo occidentale conosce con il decisamente più semplice nome di M.I.A., lo scopo è raggiunto alla grande. È sicuramente un video pesante, in cui la musica altro non è che una “scusa” per realizzare un vero e proprio cortometraggio il cui scopo – per stessa ammissione dell’artista – è quello di sensibilizzare le persone, in particolare noi occidentali abituati alla tranquillità delle nostre pur caotiche – in termini di traffico – città. Inizialmente vietato ai minori di 18 anni, YouTube ha deciso dopo alcune ore di eliminare definitivamente il video, accusato di essere troppo violento e non consono alle regole “deontologiche” del sito. In rete si è aperto un caso: c’è chi dà ragione al sito, accusando l’artista – e Romain Costa-Gravas che ne è il regista – di aver voluto creare un video sensazionalistico e volutamente estremo solo per fare pubblicità al nuovo disco (“Born Free” è infatti il singolo di lancio del nuovo disco che uscirà il 28 giugno). Ma “Born free”, oltre ad essere un video musicale è molto di più.
È – lo abbiamo detto – un atto d’accusa contro la guerra, e dunque un atto d’accusa contro l’involuzione della specie umana che ormai uccide e fa uccidere poveri cristi per esportare la democrazia o garantire una pace. Una pace che per le vittime dei conflitti – nati tutti da disequilibri, veri o presunti, nei rapporti di potere ed in particolare del potere economico – diventa eterna (è di ieri la notizia della morte dell’ennesimo militare italiano inviato ad “esportare la pace” a suon di sventagliate di mitra…). Ma “born free” è anche qualcos’altro.
Come anticipato all’inizio di questo post, oltre a fare il blogger, chi vi scrive è anche uno studente di comunicazione, ed è quindi per me fonte di interesse personale e di studio l’insieme degli spunti che il video – come l’altro video che vi posterò in seguito, diretto sempre dal figlio di Kostantinos Gravas – ci offre.
Innanzitutto l’ambientazione, che più che uno scenario di guerra come lo possiamo conoscere noi ricorda le strade brasiliane dove si aggirano i militari corrotti di “Tropa de élite”, il film di José Padilha del 2007, ma potrebbero essere le strade de Le Vele di Scampia o dello Zen di Palermo, tanto per rimanere in ambiti conosciuti alla nostra quotidianità, come potrebbe essere qualunque altra periferia – visti anche i palazzi - di qualunque città occidentale.

Al capezzale del Sol dell'avvenire

Nonostante la schiacciante vittoria di quello che nominalmente era definito referendum ma che nella sostanza era una vera e propria prova di forza tra i Padroni e la Fiom, tutto è ancora nelle mani della Fiat, che potrebbe anche decidere – visto quel terzo di irriducibili - di non iniziare l’opera di investimento sull’impianto campano, dando così in mano agli operai il proprio futuro. A parte quei 1673 sono tutti contenti: sono contenti i finti sindacati, come abbiamo visto; sono contenti i Padroni – da Marchionne alla Marcegaglia passando per l’Esecutivo – che ha finalmente trovato il grimaldello per eliminare definitivamente il sistema sociale da quello statale, ed è contenta l’opposizione parlamentare, che ancora una volta è riuscita ad evitarsi il problema di fare opposizione vera, trincerandosi dietro ad una gamma di dichiarazioni ed atteggiamenti alquanto irritanti, partendo dalle non dichiarazioni della dirigenza più alta – quella che ha abbandonato gli operai sotto le macerie del Muro – allo sciopero della fame “in solidarietà coi lavoratori” di alcuni altri. Come al solito, una gran presa per i fondelli. L’unica idea degna di nota – per quanto predicatrice nel deserto – è stata quella di Diego Bianchi, alias “Zoro”, il più conosciuto e probabilmente uno tra i più influenti blogger marchiati “PD” che ieri, di fronte ai cancelli di Pomigliano ha commentato: «Bersani sostiene che ci penseranno gli operai: allora perché non mettiamo un operaio a capo del Pd?»
Da più parti ci si chiede come sarebbe stato possibile far vincere il fronte del “No” di fronte al ricatto padronale, perché è così che gira l’Italia.

‘O miracolo di San…Papier

Collegno (Torino) – Una normale domenica mattina passata in chiesa, come tante altre che l’hanno preceduta, ad ascoltare l’omelia del prete di turno. Ad un certo punto, però, qualcosa di strano, ed imprevisto, accade: un gruppo di fedeli antifascisti si alza e mentre alcuni fanno volantinaggio, altri si prodigano a far ascoltare agli astanti – ancora nel pieno della sorpresa – le voci che nessun telegiornale, nessuna radio (e nessuna Chiesa) gli farà mai ascoltare: la voce delle e dei reclusi nei Centri di Identificazione ed Espulsione.
È questo lo spettacolo a cui si è potuto assistere, stamattina, nella chiesa di Santa Chiara a Collegno, vicino a Torino. Ai fedeli è stato raccontato com’è la vita di un recluso nei lager del nuovo millennio per i quali più d’uno dovrebbe battersi il petto e recitare il famoso “mea culpa”: chi li ha ideati, ovviamente, ma anche – e direi soprattutto – chi permette che questi luoghi rimangano aperti, e credo siano in molti a permettere questo scempio e ad andare ad ascoltare la parola di Dio la domenica senza sentire almeno un minimo senso di ipocrisia. Oltre ai volantini, i compagni che si sono prodigati in questa azione di disturbo hanno denunciato la connivenza della Confraternita delle Misericordie (a cui quella di Collegno è affiliata), responsabile della gestione dei C.I.E. di Modena e Bologna.
In tutto questo c’è anche una piccola, e divertente, nota di colore: uno dei compagni – che evidentemente ha frequentato poco tali luoghi – ha parcheggiato la bicicletta accanto al confessionale…
Nonostante le lievi note, però, la questione rimane una soltanto:
I Centri di Identificazione ed Espulsione sono la conferma evidente di quanto sia disumano il Potere. La lotta per la loro distruzione non si arresta.

Di seguito il testo del volantino distribuito:

NIENTE MISERICORDIA NEI C.I.E.
A Collegno esiste un'associazione di volontariato cattolica, la “Misericordia”, che fa un prezioso servizio di guardia medica e di pronto soccorso con le ambulanze.
Purtroppo però questa associazione è parte integrante della Confederazione Nazionale delle Misericordie d'Italia, che gestisce il Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) per senza-documenti di Crotone e, per mezzo della Misericordia di Modena, anche quelli di Modena e Bologna. Come qualcuno già saprà, questi Centri (che qualcuno chiama ancora “Centri d'accoglienza”) sono delle vere e proprie prigioni dove vengono rinchiusi gli stranieri che non sono in regola con il permesso di soggiorno – magari semplicemente perché hanno perso il lavoro.

Popolo in liquidazione

C’era una volta il popolo viola…
Potremmo iniziarla così, quasi come una favoletta da raccontare ai posteri, la storia di un movimento (?) che faceva della liquidità caratteristica preponderante. No, non quella della società liquida di Zygmunt Baumann, ma quella – più economica – della liquidazione per chiusura locali. Perché alla fine è esattamente questo quello che è successo, no? Il popolo di viola vestito è sceso in piazza per quanto, qualche settimana? Poi basta, auto-accantonatisi non si sa bene per quale motivo. Credo comunque che quello che faccio non poca fatica a chiamare “movimento” – avendo nella memoria ben più noti e forti movimenti degli anni della contestazione – abbia stabilito un nuovo record: quello di organizzazione politica (definizione da prendere con le molle) durata di meno. Neanche le migliaia di tentativi dei partiti della sinistra extraparlamentare di creare un’”area” sono durati così poco!
Eppure siamo di fronte a qualcosa di epocale. Ad una di quelle situazioni che segnerà un “prima” ed un “dopo”: se passerà la nuova filosoFIAT, infatti, lo Statuto dei Lavoratori (che l’Esecutivo, non per caso, vuole rinominare “Statuto dei Lavori”) potrà essere usato a guisa di carta igienica, più o meno come la Costituzione. Perché se passa l’ideologia di Marchionne – che è poi l’essenza stessa del capitalismo più sfrenato – cioè quella per la quale tutto ciò che non riguarda lo stare davanti ad una catena di montaggio diventa un costo insopportabile per l’azienda, quelli che oggi conosciamo come “diritti indisponibili” – cioè quel tipo di diritti che non possono essere né ceduti da chi ne ha la titolarità né possono decadere per non-esercizio – diventeranno diritti “disponibilissimi”. Per il padrone, ovviamente.
Insomma: se non ci fosse la FIOM, saremmo davanti ad una nuova fase taylorista, nella quale oltre a considerare l’operaio come ingranaggio – neanche tanto fondamentale – della macchina produttiva, si cooptano i sottoposti per manifestazioni a favore del padrone.
Fa bene Claudio Fava a chiedersi, dalle pagine de L’Unità di ieri, chi mai potrà ergersi a difensore delle lotte operaie. Perché chi dovrebbe farlo o si gira dall’altra parte appoggiando l’azienda oppure glissa spudoratamente, relegando la questione ad una bagarre da quattro soldi tutta interna alla CGIL ed alla sua “ala estremista” FIOM. Non lo fa il PD, che addirittura invita gli operai ad accettare “il male minore”. Per citare Simone Cristicchi e la sua canzone sanremese ci siamo rotti il pacco di questa storia del “male minore”:

Joy è libera. Più o meno...

Lo avevo annunciato già qualche giorno fa. E da quel giorno aspettavo solo di leggerne l'ufficialità.
Joy è finalmente uscita dal circuito disumano dei C.I.E., anche se non si può parlare di libertà "vera". Ha ottenuto il permesso di soggiorno come vittima di tratta, ma il lavoro burocratico necessario alla sua incolumità è ancora lungo. Qui: http://www.autistici.org/ondarossa/archivio/mfla/i%20saluti%20di%20joy.mp3 i suoi saluti per tutte le compagne e i compani (registrati dalla trasmissione Macerie di Radio Black Out).

La buona notizia per Joy, però, non può farci abbassare la guardia. Perché se Joy è finalmente uscita da quest'incubo, mentre scrivo ci sono ancora tantissime donne e tantissimi uomini che continuano a vivere l'inferno di questi lager del XXI secolo.


I Centri di Identificazione ed Espulsione sono la conferma evidente di quanto sia disumano il Potere. La lotta per la loro distruzione non si arresta.  

Documenti:

L’editto polacco

Sergio Marchionne è deluso: se Cristo si fermò ad Eboli, l’”american dream” dell’ad Fiat si è fermato davanti ai cancelli di Pomigliano d’Arco. Perché l’Italia non è l’America. Quell’America dove, come dice il partigiano Alfredo Reichlin a Luca Telese che lo ha intervistato per “Il Fatto Quotidiano” (qui l’intervista completa): «Lì [in America] un contratto nazionale non esiste più da anni. E infatti gli accordi portano i nomi delle imprese dove vengono stipulati».

E già, non dev’essere stato certo un bel risveglio per Marchionne la colazione servita dalla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, che si è messa di traverso al tentativo, ormai reiterato, di trasformare gli operai italiani in operai polacchi o cinesi o vietnamiti. Insomma: dei robot. E già, questa non è l’America. Non è l’America dei grandi Padroni aiutati dal potere politico (non quello partitico, che è tutta un’altra cosa…); non è l’America del “lavora, produci, crepa”. Questa è l’Italia, baby! Questo è il paese dei Di Vittorio, dei Trentin e dei tanti sindacalisti che hanno speso una vita per arrivare a far considerare i lavoratori degli esseri umani, e non sarà certo il primo “americanista” d’accatto a distruggere questo sistema.
  • Straordinario obbligatorio da 40 a 120 ore annue con possibilità per l’azienda di comandarlo come 18° turno, nella mezz’ora di pausa mensa, nei giorni di riposo, per recuperi produttivi anche dovuti a non consegna delle forniture;
  • Pause sui montaggi ridotte da 40 a 30 minuti giornalieri;
  • Possibilità di derogare al riposo di almeno 11 ore previste dalla legge da un turno all’altro per il singolo lavoratore;
  • Pagamento del trattamento di malattia contrattualmente previsto a discrezione dell’azienda (per la parte a suo carico);
  • Possibilità di modificare le mansioni del lavoratore senza rispettare il principio dell’equipollenza delle mansioni;
  • Ricorso per due anni alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per ristrutturazione senza rotazione, con obbligo per il lavoratore alla formazione senza integrazione al reddito;
  • Possibilità di licenziamento degli operai che faranno sciopero se il “tasso di assenteismo” dovesse superare la media.
È questa la base dell’ultimatum che l’apparato padronale della casa automobilistica vuole imporre agli operai di Pomigliano e, da lì, estendere a tutti gli operai che lavorano per il Lingotto. Se è vero che i “collaborazionisti” Angeletti e Bonanni hanno ormai preso le parti dei Padroni

Cadrà l’inverno anche sopra il suo viso, potrete impiccarlo allora...

Qui il video per i lettori di Facebook e ReportOnLine.

Mi fa ridere, anche se di un sorriso amaro, la nuova “bagarre” di cui si può leggere in questi giorni su “Il Manifesto”, relativa alla figura di Roberto Saviano definito da Norma Rangeri – direttrice del quotidiano comunista – addirittura un “bene comune” da preservare, un po' come l'acqua (quello sì "bene comune" o gli orsi bianchi). Mi fa ridere innanzitutto perché è da queste piccole cose che si può capire perché in questo paese il concetto di “Sinistra”, intesa sia come sistema partitico che come area politica è stato assassinato da quella parte della sinistra – di cui già Pasolini ci parla nella famosa “Il PCI ai giovani”: «Avete facce di figli di papà. (…) ma sapete anche essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici» auto-suicidatai dopo il '68. Quella sinistra che oggi non va alle manifestazioni degli operai di Pomigliano o di Termini Imerese e che non una parola spende per gli operai che si sono auto-carcerati all’Asinara ma che – per un non meglio precisato “diritto democratico” – è in prima fila nelle manifestazioni di CasaPound e affini. Insomma: una Sinistra che da grande ha deciso di giocare a fare la Destra. Basti guardare al “pantheon” delle due aree: se oggi infatti gli uomini di Gianluca Iannone idolatrano inorgogliti – mostrando così se non un vero e proprio disprezzo e sovvertimento almeno una evidente confusione storica – figure come Ernesto Guevara de la Serna o Rino Gaetano, che nulla avevano – ed avranno mai - a che fare con tutto ciò che riguarda i destrorsi, la Sinistra fa oggi la stessa cosa inneggiando a personaggi come Saviano e Travaglio, professionisti di un giustizialismo che non si confà alla Sinistra propriamente detta, come scriveva Daniele Sepe qualche giorno fa sul già citato quotidiano. Ma è lo spirito del tempo, d’altronde. Quello stesso spirito per cui alcuni “anti” (anti-fascisti ed anti-berlusconiani soprattutto) si comportano proprio come coloro che dicono di combattere. Si pensi alla levata di scudi di fronte al legittimo – per uno stato democratico quale noi crediamo di essere – diritto al dissenso verso questi “eroi di carta”, come li definisce Alessandro Dal Lago proprio dalle pagine de “Il Manifesto”, riprendendo la sua ultima opera letteraria. Aveva ragione Gaber: «Non temo Berlusconi in sé. Temo Berlusconi in me».

È da un po’ che mi chiedo se il vero problema di questo paese - a livello politico - sia la sua classe dirigente. Quante volte, nelle discussioni al bar come in televisione, sentiamo dire che abbiamo bisogno di una nuova classe dirigente, magari più giovane (cosa che non equivale certo ad una garanzia di miglioramento…)?

Comunicato dei detenuti del Cie di Ponte Galeria alla cosiddetta "società civile"

Stando ai "rumors", anche se per ora non ho ancora riscontri ufficiali (e mentre scrivo sto ascoltando "Silenzio Assordante", il programma sui C.I.E. di Radio Onda Rossa) Joy, la ragazza nigeriana che ha conosciuto in pratica quasi tutti i lager di questo paese e dove, in quello di via Corelli a Milano ha subito un tentativo di violenza da parte dell'ispettore Vittorio Addesso, è stata liberata. Per ora ve la lascio così, come "rumors" in attesa di avere qualcosa di più consistente in mano per scriverne. La libertà di Joy però non deve farci abbassare la guardia. I C.I.E. sono ancora aperti ed al loro interno si applicano regole talmente disumane da far impallidire persino il peggiore dei gerarchi nazisti. Riprendo (con preghiera di diffusione agli eventuali blogger e a tutti coloro che possono) il comunicato dei reclusi nel lager romano di Ponte Galeria

qui: http://www.zshare.net/audio/771245927a1dcc3b/ il servizio di Radio Onda d'Urto con Massimo D'Alessio, l'avvocato che difende Joy.

A tutte le persone che vivono in questo paese
A tutti coloro che credono ai giornali e alla televisione
  
Qui dentro ci danno da mangiare il cibo scaduto, le celle dove dormiamo hanno materassi vecchi e quindi scegliamo di dormire per terra, tanti tra di noi hanno la scabbia e la doccia e i bagni non funzionano.

La carta igenica viene distribuita solo due giorni a settimana, chi fa le pulizie non fa nulla e lascia sporchi i posti dove ci costrigono a vivere.

Il fiume vicino il parcheggio qui fuori è pieno di rane e zanzare che danno molto fastidio tutto il giorno, ci promettono di risolvere questo problema ma continua ogni giorno.

Ci sono detenuti che vengono dai CIE e anche dal carcere che sono stati abituati a prendere la loro terapia ma qui ci danno sonniferi e tranquillanti per farci dormire tutto il giorno.
 
Quando chiediamo di andare in infermeria perché stiamo male, la Auxilium ci costringe ad aspettare e se insistiamo una banda di otto/nove poliziotti ci chiude in una stanza con le manette, s’infilano i guanti per non lasciare traccia e ci picchiano forte.

Per fare la barba devi fare una domandina e devi aspettare, un giorno a settimana la barba e uno i capelli.

Non possiamo avere la lametta.

Ci chiamano ospiti ma siamo detenuti.

Quello che ci domandiamo è perché dopo il carcere dobbiamo andare in questi centri e dopo che abbiamo scontato una pena dobbiamo stare sei mesi in questi posti senza capire il perché.

Non ci hanno identificato in carcere? Perchè un’altra condanna di sei mesi?

Tutti noi non siamo d'accordo per questa legge, sei mesi sono tanti e non siamo mica animali per questo hanno fatto lo sciopero della fame tutti quelli che stanno dentro il centro e allora, la sera del 3 giugno, è cominciata così.

Ancora dalla parte dei terroristi

per i lettori di Report On Line e Facebook

«Sono Omar Khadr, detenuto a Guantanamo. Sono cittadino canadese. Sono stato catturato dai militari americani il 27 luglio del 2002 in Afghanistan. Mi hanno sparato alla schiena, alla spalla sinistra e alla destra, e una pallottola mi ha colpito all’occhio sinistro. Per una settimana sono rimasto in coma. al risveglio, un soldato mi ha detto che avevo ucciso un soldato americano con una bomba a mano. In barella, sono stato immediatamente trasportato nel carceredi Bagram dove sono iniziati gli interrogatori. Poiché non fornivo loro le risposte che volevano, il primo che mi faceva domande, un biondino magro sui 25 anni, ha cominciato a tormentarmi le ferite. Sono scoppiato a piangere, per le torture e il dolore. Quando sono stato catturato avevo 15 anni».
No, non è l’incipit del nuovo libro di Tom Clancy e neanche la scena iniziale di uno dei tanti film “alquaedisti” di qualche regista americano. Sono invece le parole che si trovano all’inizio delle nove pagine che compongono la dihiarazione giurata del detenuto Omar Khadr rilasciata il 22 febbraio 2008 – ed in parte censurata dal Pentagono – entrate in possesso del quotidiano “Il Manifesto” che le pubblicava nella giornata di ieri in un articolo a firma Claudio Magliulo.
C’era un’altra notizia – riportata sopra quella appena citata – alla quale è stata dedicata molta meno attenzione di quanto avrebbe meritato. Una notizia che avrebbe dovuto far scalpore, anche se non arriva di certo imprevista e non lascia, o quantomeno non dovrebbe lasciare, shockato il lettore mediamente informato: nelle settimane scorse negli Stati Uniti è stato pubblicato un rapporto nel quale la Physicians for  human right (Phr), una organizzazione non governativa composta da medici il cui compito è quello di monitorare l’attività dell’esercito e dei servizi segreti, denuncia come la Cia abbia assoldato medici e psicologi nella “guerra al terrore” ed il cui compito era probabilmente ben peggiore dei militari, anche di quelli tristemente noti delle torture del carcere di Abu Ghraib: utilizzare i detenuti musulmani come cavie da laboratorio. Il motivo dell’uso di questi novelli Josef Mengele era duplice: da una parte testare la tenuta di tecniche di tortura quali il waterboarding e la deprivazione sensoriale, dall’altra – per usare le parole di uno degli intervistati di “Taxi to the dark side” il documentario vincitore dell’Oscar di categoria due anni fa di Alex Gibney che vi ripropongo all’inizio di questo articolo - «pararsi il culo» da possibili responsabilità penali una volta esploso il “bubbone” della tortura.

APOlogia di un leader

Amed/Diyar-i Bekr (Kurdewarî/Kurdistan) - «Definire la democrazia è importante perché stabilisce cosa ci aspettiamo dalla democrazia. Al limite, se andiamo a definire la democrazia «irrealmente» non troveremo mai  «realtà democratiche». E quando dichiariamo, di volta in volta, «questa è democrazia», oppure che non lo è, è chiaro che il giudizio dipende dalla definizione, o comunque dalla nostra idea di cosa la democrazia sia, possa essere o debba essere. Se definire la democrazia è spiegare che cosa vuol dire il vocabolo, il problema è presto risolto: basta sapere un po’ di greco. La parola significa, alla lettere, potere (kratos) del popolo (demos). Ma così abbiamo solo risolto un problema verbale: si è soltanto spiegato un nome. Il problema di definire la democrazia è assai più complesso. Il termine democrazia sta per qualcosa.  Che cosa? Che la parola democrazia abbia un preciso significato letterale o etimologico non ci aiuta affatto a capire quale realtà vi corrisponda e come sono costruite e funzionano le democrazie possibili. Non ci aiuta perché tra la parola e il suo referente, tra il nome e la cosa, il passo è lunghissimo.»

[Giovanni Sartori, “Cos’è la Democrazia”]

Già, cos’è la Democrazia? Come funziona? Quali parametri la regolano?

  Potremmo definire con questa etichetta uno Stato, o comunque una comunità, in cui vigono le principali libertà, individuali e collettive (come quelle sancite dall’art.3 della nostra carta costituzionale)? Sicuramente. E potremmo definire “Democrazia” anche – e forse ancor di più – quello Stato o quella comunità nella quale ampia è la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica della propria comunità di riferimento.

Fermandoci a questo punto, accettando questi parametri come pilastri di quella che definiamo “Democrazia” rimarremmo nel campo della pura teoria.

Perché a me ad esempio di parametri ne vengono in mente altri, forse un po’ meno “aulici” e più ancorati alla realtà, ma che non per questo sono meno interessanti. Tra questi voglio citare la libertà – e dunque la possibilità – al dissenso, alla libera critica (come può essere quella che possiamo leggere nel dibattito aperto intorno alla figura dell’”eroe” - o meno - Roberto Saviano sulle pagine de Il Manifesto) ed il modo in cui chi ha il compito di tutelare questa “Democrazia” – cioè il Potere – tratta i propri carcerati, che spesso altro non sono che persone le quali, per volontà o necessità, non accettano il sistema (di valori, di leggi et alia) su cui tale Democrazia si basa

Ballata per una prigioniera


Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio, alberi, strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l'ergastolo non scade,
più vivi più ci resti.

Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.

Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi, lacrime e sorrisi,
debbono avere un po' d'intimità
perché sono selvatici, non sanno
nascere in stato di cattività.

"Non si è più stati insieme, vero, babbo?
Prima la lotta, gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia,
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: 'muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca'.
Porta pazienza, babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina, di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all'aria aperta".

Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia,
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attraversa la strada, non si gira,
compagna Luna, antica prigioniera
che s'arrende alle sbarre della sera.

[Erri De Luca]

**ripreso da Baruda

Democrazia(?) e Sindrome di Stoccolma


qui il video per i lettori di Facebook e ReportOnLine 

Nelle ore immediatamente successive al blitz sulla Freedom Flotilla c’era una domanda alla quale ho cercato risposta: «Perché?» A distanza di alcuni giorni le richerche sono ancora in pieno svolgimento. E non l’ho trovata neanche cercandola nella vomitevole propaganda filo-sionista, nonostante in Italia se ne sia avuta in quantità industriale. 
«Mi hanno detto che sono stati trovati dei cadaveri in bagno con un foro di pistola alla testa. Tra noi c'erano dei feriti che sanguinavano. Uno di questi era disteso e aveva il piede ferito. Gli è stato ordinato di alzarsi, ma lui non è stato in grado di farlo. Allora un soldato gli si è avvicinato e gli ha sparato alla testa, uccidendolo davanti a tutti». A dirlo è Manolo Luppechini, il regista romano che, oltre al trattamento nazista riservato a molti dei componenti della Freedom Flotilla, è stato trattenuto per ulteriori 12 ore presso l’aeroporto Ben Gurion perché non provvisto di passaporto (ma si parla anche di un “acceso diverbio” con un militare israeliano).
Quello che è successo su quelle navi in realtà non mi stupisce granché: tutti coloro che hanno capito che Babbo Natale non esiste conoscono perfettamente l’inquadramento geopolitico israeliano, un paese definito “democrazia” solo perché il paragone è o con gli Stati Uniti di Guantánamo Bay o con l’Italia dei Centri d’Identificazione ed Espulsione. Un paese – diventa sempre più lampante con l’allontanarsi del pluri-omicidio perpetrato – che può permettersi di considerarsi estraneo alle leggi dell’uomo (e da ateo francamente evito di chiedermi quale sarebbe un eventuale giudizio divino). Uno stato che non solo si è permesso di comportarsi alla stessa maniera di quei pirati somali le cui gesta vengono denunciate – seppur ad intermittenza – sui nostri giornali, ma che anche per questo avvenimento godrà dell’impunità totale, nonostante il teatrino di condanna che ci scorre davanti agli occhi in queste ore. Perché se qualcuno crede che una risoluzione Onu – peraltro non firmata né dall’Olanda né da Stati Uniti ed Italia, paesi che puzzano di sionismo non so da quanti chilometri di distanza, e per la quale altre nove nazioni non hanno avuto il coraggio di prendere posizione – possa magicamente cambiare le cose e democratizzare una manica di assassini beh, è l’ora che capisca due tre cose sulla differenza tra realtà ed immaginazione.
Questa considerazione, peraltro, viene da un dato storico ed oggettivo:

Free(dom) Palestine!


«Non appena la notizia ha cominciato a circolare, i malati che attendevano medicine hanno cominciato a piangere, assieme a centinaia di famiglie che vivono nelle baracche e speravano che avrebbero avuto una piccola casa prefabbricata».
È forse questa una delle frasi che più mi hanno colpito nelle tante cose che sto leggendo in queste ore in merito all’assalto israeliano al convoglio della Freedom Flotilla dei giorni scorsi. Forse perché questa domanda mi fa tornare in mente quel che mi sono chiesto fin da piccolissimo, fin da quando ho iniziato ad avere familiarità con parole come “Palestina”, “Israele”, “Intifada” ecc, e cioè come sia la vita sotto le bombe. Io mi ritengo un ragazzo fortunatissimo: sono nato e vivo in un paese che, per quanto mi faccia schifo, non ha città divise nettamente tra quartieri ricchi e quartieri poveri come Puerto Príncipe, la capitale haitiana colpita qualche mese fa da un terremoto – devastante – che sembra aver fatto danni solo nella zona povera; sono nato in un paese in cui non mi tocca uccidere i miei fratelli come avvenne nei “cento giorni che sconvolsero il Rwanda” tra l’aprile ed il luglio 1994; sono nato in un paese in cui non sento, quasi incessante, il suono delle sirene anti-missile con le quali il popolo palestinese viene avvertito dell’ennesimo attacco israeliano, costringendo donne, uomini, bambini e anziani a stare ore ed ore in bunker sotterranei in cui l’espressione “luce del sole” diventa un lontano ricordo.
Quello che è successo nei giorni scorsi mi lascia dentro più rabbia del solito. Perché nonostante questa volta nessuno possa girarsi dall’altra parte e dire che è una faccenda tra palestinesi ed israeliani, è esattamente quello che avviene in queste ore, quando quella cosa strana che qualcuno si ostina a definire “comunità internazionale” si prodiga nel solito teatrino filo-israeliano. Non voglio rientrare di nuovo in polemiche sul più classico dei dibattiti, cioè sul chi abbia ragione e chi torto, considerando anche che – mentre scrivo – dietro di me c’è una bandiera palestinese di dimensioni giganti. Ma questa volta, rispetto agli attacchi quotidiani subiti dai palestinesi, c’è qualcosa di diverso. Perché sì, le navi trasportavano qualcosa come 10.000 tonnellate di aiuti umanitari della più disparata specie, ma quel blitz non è un blitz contro i palestinesi. O meglio: non solo quello.
È la definitiva distruzione di un sogno per cui il popolo che non ha nazione (o meglio: ce l’avrebbe ma gliel’hanno scippata ormai decenni fa…) lotta ormai da generazioni.