Messico-Italia. Sulla rotta dei narcos tra canzoni e cocaina


Nonostante la completa dimenticanza dei media italiani, in Messico si sta combattendo una feroce guerra tra i cartelli della droga. Cartelli come quello di Sinaloa, quello del Golfo o i "Las Zetas" hanno soppiantato i colombiani e stanno sempre più diventando una potenza multinazionale (più volte inchieste - giornalistiche e giudiziarie - hanno evidenziato i rapporti che intrattengono con la 'ndrangheta). Chi sono, dove operano e quali sono i legami internazionali che stanno instaurando?
«Abbiamo ucciso molte famiglie, le uccidiamo e le bruciamo». A “confessare” sono quattro esponenti del Cártel de Los Zetas, uno dei più importanti cartelli del narcotraffico messicano. Gli uomini armati che li tengono sotto controllo appartengono invece al Cártel del Golfo, il principale rivale dei Los Zetas (anche se secondo il video riproposto da Repubblica le parti dovrebbero essere invertite). Che siano uomini dei Los Zetas, del cartello del Golfo o dei Sinaloa (nomi sui quali ci soffermeremo più avanti), non è difficile trovare nei media – soprattutto nei blog e nei forum in rete – video come questo. Perché nonostante l'Europa non abbia alcuna copertura da quelle parti, in Messico si sta combattendo ormai da tempo una vera e propria “narco-guerra”, che in quest'ultimo periodo si è arricchita di un'altra triste pagina: le fosse comuni, le narcofosas. 279 corpi, come riportava l'agenzia Misna questa mattina, sono stati rinvenuti nei giorni scorsi tra gli stati di Tamaulipas e Durango, rispettivamente nella zona no-orientale e centro-settentrionale del paese.

Ma il Messico, come insegnano le basi del giornalismo, è un territorio lontano verso il quale – a queste latitudini – si nutre poco interesse.
È per questo, allora, che questa storia parte da Milano, precisamente da un convento. Qui, tra una preghiera ed una penitenza, all'insaputa delle suore si era istituito un vero e proprio centro di smistamento della cocaina, nascosta dentro i breviari o i bagagli di finti pellegrini. L'operazione delle forze dell'ordine – denominata “Annibale” - ha portato all'arresto di trentatré persone (su ottanta indagati in tutto) ed il sequestro di trenta chilogrammi di polvere bianca tra varie località della regione lombarda, Parma, Piacenza e La Spezia. Il fulcro del traffico di droga – stoccata in Ghana, nella sede di una società di import-export fasulla che aveva peraltro fatto richiesta alla Fao per il finanziamento di un progetto di sviluppo del mercato ittico africano – era il portiere del convento, sudamericano, tramite il quale la droga arrivava alle 'ndrine calabresi trapiantate a Milano (tra gli arrestati figurano anche Giuseppe e Domenico Vottari, dell'omonimo clan – i Pelle-Vottari - rivale dei Nirta-Strangio nella faida di San Luca) per poi inondare il mercato italiano ed europeo.
Sudamerica-Africa-Europa. È questa la strada che la droga compie per arrivare nei locali delle principali città europee.

Obama's Mexicogate?

di Laura Carlsen, direttrice del Programma americano per il Centro per la Politica Internazionale a Città del Messico e columnist per Foreign Policy in Focus (qui l'articolo originale: http://www.fpif.org/articles/obamas_mexicogate)

Un'operazione segreta per contrabbandare armi attraverso la frontiera per i cartelli della droga messicani – supervisionata da agenti del governo statunitensi – rischia di diventare lo scandalo maggiore per l'amministrazione di Obama.

L'operazione, chiamata “Fast and Furious”, è stata eseguita dall'Ufficio per l'Alcol, Tabacco, Armi da fuoco ed Esplosivi (ATF) di Phoenix, Arizona. L'ATF ha autorizzato l'acquisto di armi in un negozio di armi statunitense e ha monitorato la rotta del contrabbando verso il confine messicano. Secondo quanto riferito, più di 2.500 armi da fuoco sono state vendute a prestanome che hanno poi consegnato le armi ai contrabbandieri sotto il naso dell'ATF.

Ma una volta oltrepassato il confine, l'agenzia sembra aver perso le tracce delle armi. Centinaia di AK-47 e fucili Barret calibro .50 – le armi più usate nella guerra dei cartelli della droga – sono facilmente arrivate nelle mani di alcune tra le organizzazioni criminali più spietate del Messico.

Gunwalking
Nel gergo del traffico di armi, quando si tratta di permettere consapevolmente ai contrabbandieri di fare il proprio business, si chiama “gunwalking”. Secondo informatori dell'ATF, l'agenzia è rimasta a guardare come i compratori acquistassero fino a 20 armi alla volta passandole velocemente a trafficanti appostati nelle aree di parcheggio nelle vicinanze. La speranza era quella di seguire le armi e mettere le mani su uno dei cartelli principali.

Nel dicembre 2010 le armi “camminanti” sono state identificate come quelle con le quali i cartelli della droga hanno ucciso l'agente della Polizia di Frontiera Brian Terry. Un angosciato agente dell'ATF ha deciso di denunciare l'operazione di gunwalking, dopo che l'agenzia ha ignorato mesi di denunce.

L'agente John Dodson ha denunciato l'operazione “Fast and Fourious” in un'intervista con CBS News il 3 marzo. Dodson era preoccupato per l'operazione ben prima dell'omicidio di Terry. Un ampio numero di armi ha passato liberamente il confine durante la prima parte del 2010, lui ed altri agenti dell'ATF notò allarmato l'aumento del numero di crimini violenti a sud della frontiera. Ha detto di aver riferito al suo supervisore: «Quante più armi comprano, più violenza avremo laggiù».

Dodson informa che il suo supervisore gli ha replicato: «Se vuoi farti una frittata, devi rompere alcune uova».

Quando la criminalità organizzata ti apparecchia la tavola...

Dal pane alle mozzarelle di bufala passando per i pomodori e la farina. La criminalità organizzata - sfruttando leggi lasche e la connivenza di chi dovrebbe controllare - sta mettendo le mani su un nuovo business "pulito": la nostra tavola.


«Sardegna. Una bella mattina d’estate. La coda di auto che pigra va verso il mare. Quasi uno scenario idilliaco, finché non entriamo nell’abitacolo di una delle auto, a spiare i pensieri del conducente. Guarda una bella donna con il suo bambino a fianco. Il bambino gli sta antipatico, ma si consola notando la merendina che il piccolo divora con avidità: sa bene di cosa si tratta, visto che chi produce le merendine è un suo cliente. Quelle merendine sono fatte con un ovoprodotto proveniente da una ditta di riciclaggio di rifiuti che “invece di smaltire uova ammuffite, rotte, invase dai parassiti, le ripuliva alla buona dalla putrescina e dalla cadaverina e le trasformava in una poltiglia confezionata in comodi bidoncini pronti per essere versati nelle impastatrici delle industrie dolciarie».

Inizia così “Mi fido di te”, libro – del 2007 – di Massimo Carlotto e Francesco Abate, caporedattore de L'Unione Sarda e dj.
Con la “scusa” del noir i due ci mettono di fronte ad un fatto vero – anzi, ad una serie di fatti veri – e testimoniati dalle cronache quotidiane. Una serie di fatti che poco interessa ai giornalisti – ed ai giornali, che hanno paura di perdere la pubblicità delle grandi aziende alimentari - ma che rappresentano uno dei tanti business senza spargimento di sangue che tanto interessano alla criminalità organizzata. Il business in questione è quello agroalimentare, la mafia (o meglio: le mafie) che se ne occupano sono le agromafie.
Sono principalmente due le strade – finora conosciute – con cui la criminalità organizzata è entrata nel business: il riciclaggio dei proventi illeciti derivanti da investimenti “classici” quali i traffici di droga o di armi, ai quali vanno aggiunte le truffe all'Unione Europea (precisamente al FEASR, Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale) oppure mettendo direttamente le mani sulla filiera: dal produttore al venditore al dettaglio, non c'è fase in cui non ci sia la longa mano delle mafie. Secondo i dati della C.I.A, la Confederazione Italiana Agricoltori, questa strada da sola permette alle mafie di avere un giro d'affari di circa 10 miliardi di euro all'anno. Praticamente briciole se comparato – ad esempio – con il volume d'affari di mercati come quello dello smaltimento dei rifiuti tossici o del traffico di droga.

La maledizione del “juju” che guida le schiave del sesso in Europa


I trafficanti nigeriani usano la magia nera per ingannare migliaia di donne ed inviarle in Italia come prostitute.

Questo articolo è comparso su The Independent con il titolo "The curse of ‘juju’ that drives sex slaves to Europe" il 7 arile 2011. La firma è di Jenny Kleeman

Sono le 6 del pomeriggio di un lunedì sera su una strada fuori Milano. Il termometro del cruscotto dice che sono due gradi sottozero, ma ogni pochi metri i fari individuano figure in attesa lungo il ciglio della strada, alcune curve con i loro palmi su fuochi di fortuna. Silvio Berlusconi tre anni fa ha dichiarato fuorilegge la prostituzione in strad, ma le circa 20.000 donne nigeriane che lavorano come prostitute in Italia sono facili da trovare. Anche in inverno non manca la clientela.

Questa è una delle centinaia di strade d'Europa dove le vittime del traffico proveniente dalla Nigeria sono costrette a lavorare. Potremmo essere a Barcellona o Madrid, Parigi o Berlino, Glasgow o Londra. Ci sono 100.000 vittime del traffico di esseri umani nigeriane in Europa, l'80 per cento proviene da Edo – uno stato nella Nigeria meridionale che ospita solo il 3 per cento della popolazione. È la capitale del traffico di esseri umani e patria di una religione tradizionale dell'Africa Occidentale chiamata juju.

La piazzola cosparsa di preservativi dove Rita aspetta i clienti è molto distante da quell'Europa che immaginava cinque anni prima, quando i trafficanti la avvicinarono ad Edo. «Ero molto felice di andare in Europa per dar da mangiare alla mia famiglia», spiega Rita, 27 anni. «Non sapevo che sarebbe stato così». Lei ora dorme con circa 10 uomini al giorno, sette giorni a settimana, per 20 euro (17.50 sterline) alla volta. Deve lavorare anche quando è malata, quando ha le mestruazioni, anche se è stata picchiata in passato.

Rita dice di non avere scelta se non quella di continuare a lavorare. Prima di partire dalla Nigeria, fece un giuramento di fedeltà ai suoi trafficanti in un rituale religioso tradizionale, una pratica che ho investigato per il programma Unreported World di Channel 4. Promise di restituire il costo del suo trasporto in Europa offrendo la sua anima come garanzia. Quando è arrivata in Italia, era debitrice verso i suoi trafficanti di 50.000 euro (44.000 sterline), ai quali si aggiungevano 300 euro mensili come “affitto” per il diritto di stare sulla strada. «Non posso scappare da questo a meno che non paghi», dice. «Gli africani hanno incantesimi così forti da poter distruggere qualcuno in un batter d'occhio».

Effetto Fukushima


1) Volete che venga abrogata la norma che consente al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso in cui gli enti locali non decidono entro tempi stabiliti?
2) Volete che venga abrogato il compenso ai comuni che ospitano centrali nucleari o a carbone?
3) Volete che venga abrogata la norma che consente all’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica) di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all'estero? 
Questi erano i tre quesiti a cui l'8 novembre 1987 gli italiani furono chiamati a rispondere per decidere se il paese dovesse continuare a fare uso del nucleare. O, per meglio dire, non dovesse più far uso di un nucleare “di produzione propria”.
A ventiquattro anni di distanza, precisamente il 12 e 13 giugno prossimi, il popolo sarà chiamato ad esprimersi proprio su quella decisione. In base all'andamento del voto referendario – dove, come al solito, bisognerà “dire sì se si vuol dire no” parafrasando Gaber – sapremo se l'Italia tornerà a far parte dei paesi produttori di energia nucleare o continuerà solo ad acquistarla. Ma sarà davvero la volontà del popolo a decidere?

Che si riparli dell'argomento – a distanza quasi di una generazione – è un bene, e personalmente credo sia ancor più importante che si ridiscutano quelle decisioni, alla luce dell'importanza che il settore energetico ricopre per il nostro paese.
Quel che non mi piace è che, come al solito, ci si sia immediatamente trincerati dietro l'appartenenza ad una delle due “tifoserie” - cioè quelle dei pro-nuclearidi o dei contrari – mettendo all'indice chi tra intellettuali ed addetti ai lavori si schierava in maniera socialmente non desiderabile. Abbiamo perso un'occasione. Peccato.
Abbiamo perso l'occasione di ricominciare a ragionare come una democrazia “normale”, una democrazia nella quale le decisioni vengono prese dopo attenta ed onesta discussione e non per l'atto di forza di questo o quel centro di potere. L'occasione più grande che ci siamo lasciati sfuggire comunque è un'altra, e riguarda i nostri rapporti di forza geo-politica futuri, rapporti nei quali la voce “energia” ricopre un ruolo sempre più decisivo nella definizione degli equilibri in campo. Si pensi ai “giochi petroliferi” nel Mediterraneo di cui Señor Babylon si è occupato qualche settimana fa (post del 25 febbraio: “Giochi nel Mediterrano”. http://senorbabylon.blogspot.com/2011/02/giochi-nel-mediterraneo.html).