Per una "controstoria" dell'invasione in Afghanistan. Intervista ad Enrico Piovesana

foto: articolo11.net

Kabul (Afghanistan) - La guerra in Afghanistan ha avuto - e continuerà ad avere con la nuova missione "Resolute Support" - cause ben diverse da quelle che le "diplomazie mediatico-militari" hanno raccontato in questi dodici anni. Fronteggiare i talebani non significava democratizzare il Paese né combattere il terrorismo. La guerra in Afghanistan è stata, in buona sostanza, una gigantesca "guerra di mercato": quella per il controllo dell'oppio. Ne abbiamo parlato con Enrico Piovesana, (nella foto) giornalista professionista e reporter di guerra specializzato in armi e conflitti.

Partiamo da quello che ormai sembra essere un dato di fatto: per il contingente occidentale in Afghanistan il problema dell'oppio non è eradicarlo.
In Afghanistan, americani e alleati hanno scelto fin dal 2001 di non immischiarsi nelle campagne di eradicazione delle coltivazioni di papavero, lasciando che se ne occupasse la polizia afgana. “Non distruggeremo le piantagioni di papavero - spiegherà alla stampa internazionale l’assistente strategico del generale americano Stanley McChrystal - perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia”. Questa semplice verità verrà pubblicamente affermata più volte nel corso degli anni dai vertici militari e politici di Washington. 
Questo “non interventismo” - ben rappresentato dalle tante immagini dei soldati occidentali in pattuglia tra i campi di papavero, magari fermi a chiacchiere con i contadini intenti a raccogliere oppio - è stato criticato per la sua ovvia ricaduta negativa sul contrasto alla produzione di oppio ed eroina. A smorzare queste le critiche, però, c’è sempre stata l’attenuante dall’aspetto ‘umanitario’ di tale decisione, vale a dire il riguardo - per quanto strumentale - nei confronti delle condizioni di vita della popolazione. 

Chi trae vantaggio da questa politica di “non interventismo”?
Questo laissez-faire non si limita ai contadini che sopravvivono grazie all’oppio, ma riguarda anche i signori della droga che gestiscono il narcobusiness afgano. Alla fine del 2001 questi warlord – reclutati dalla CIA per attaccare i talebani, come ha scritto lo storico americano Alfred McCoy - guidavano la resistenza armata anti-talebana nota come Alleanza del Nord, un fronte armato multietnico dominato dai tagichi del maresciallo Mohammed Qasim Fahim e dagli uzbechi del generale Abdul Rashid Dostum.

Cina, 4 dirigenti della GlaxoSmithKline arrestati per corruzione

foto: businessinsider.com

Shanghai (Cina) – Quattro alti dirigenti dell'ufficio cinese della GlaxoSmithKline (GSK) sono stati arrestati due giorni fa dalle autorità cinesi con l'accusa di aver corrotto funzionari pubblici e medici per convincerli a gonfiare i prezzi di vendita dei farmaci in Cina. In manette sono finiti Liang Hong, responsabile della direzione operativa; Zhang Guowei, vice presidente e direttore delle risorse umane; Zhao Hongyan, direttore degli affari legali e Hang Hong, direttore degli affari economici. Un altra ventina di funzionari sarebbero inoltre in stato di fermo.

Secondo quanto ricostruito da Gao Feng, capo dell'unità contro i crimini economici del ministero della Pubblica sicurezza, fin dal 2007 la multinazionale britannica avrebbe pagato tangenti per un totale di 3 miliardi di yuan (al cambio di oggi poco più di 372 milioni di euro) attraverso una rete di circa 700 agenzie di viaggio e di consulenza fittizie utilizzate per corrompere il personale medico, ai quali si aggiungono casi di «corruzione sessuale». L'inchiesta è partita proprio dai bilanci di una di queste agenzie, la Shanghai Linjiang International Travel Service, che nel giro di qualche anno ha visto incrementare il proprio fatturato di centinaia di milioni di yuan, insospettendo così gli inquirenti, che vedono in questo incremento la creazione di fondi neri necessari alla corruzione, versati ai medici attraverso carte di credito fornite dall'azienda.
Mark Reilly, capo della divisione cinese di GSK, avrebbe lasciato il paese il 27 giugno scorso.

Nelle scorse settimane, secondo quanto riferito dal ministero, già una ventina di impiegati locali del colosso farmaceutico avrebbero ammesso il pagamento di tangenti e casi di frode fiscale. L'alto costo dei medicinali nel Paese, dicono gli inquirenti, si spiegherebbe proprio con l'inserimento nel prezzo del costo della corruzione.

Pur dichiarando la completa estraneità alle accuse e declinando eventuali «comportamenti fraudolenti» su «alcuni individui all'interno della struttura e di agenzie terze» come riportato in un comunicato stampa, la GSK si è detta pronta a collaborare con le autorità, che con il cambio ai vertici e l'arrivo del presidente Xi Jinping hanno visto nella lotta alla corruzione uno dei pilastri del nuovo corso politico cinese.

#Sappiatelo. In due anni lo Stato ha sottratto 172 milioni di euro al 5 per mille

foto: vita.it

Roma - Sono ben 172 i milioni di euro che lo Stato ha sottratto in due anni al 5 per mille, di cui quasi 93 (92.838.000 di euro) per l'esercizio 2011.
È quanto emerge da un'interrogazione parlamentare di Luigi Bobba, deputato del Partito democratico ed ex presidente delle Acli e da un articolo del magazine "Vita.it" - con annessa petizione - che ha portato all'attenzione dei lettori il caso dell'Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano (Tiget) e del suo direttore Luigi Naldini, che dopo tre anni di sperimentazione - possibile grazie ai finanziamenti di Telethon, è riuscito a scoprire come il virus dell'Aids riesca a sconfiggere due gravi malattie ereditarie: la leucodistrofia metacromatica (per intenderci: quella al centro del “caso-Stamina”) e la sindrome di Wiskott-Aldrich.
I risultati della sperimentazione dei suoi studi sono stati annunciati presentando fatti evidenti, come la guarigione di sei bambini.

La realtà dei dati evidenzia come sia stato versato il 4,1 per mille nel 2010 ed il 4 per mille nel 2011. Un 5 per mille che da due anni compare dunque solo su carta – nella fattispecie: quella della dichiarazione dei redditi di 16,7 milioni di contribuenti – e che non corrisponde a verità, costituendo una dichiarazione falsa in un atto pubblico e vincolante. Questo è possibile perché la legge impone un tetto massimo di 400 milioni, mentre la somma totale del 5 per mille era stata di 463 milioni nel 2010 (di cui 80 trattenuti) e 488 milioni nel 2011.

Cosa significa questo? Significa ad esempio che la ricerca sulla sclerosi multipla si è vista versare 2,5 milioni di euro in meno di quanto gli sarebbe spettato, così come la lotta al cancro dovrà fare a meno di 13 milioni di euro o che Telethon si è vista “scippare ” 904.532,09 euro.

Lo stesso Bobba, insieme a Milena Santerini di Scelta Civica e Raffaello Vignali del Pdl ha presentato un progetto di legge, simile a quella presentato dal M5S, per la stabilizzazione del 5 per mille – che rimane ancora una “misura sperimentale”, come l'ha definita il vice ministro dell'Economia e delle finanze Stefano Fassina - e per la cancellazione del tetto di spesa dei 400 milioni di euro. Una necessità per portare una risposta "dal basso" ad una politica sempre più spinta verso vere e proprie forme di "warfare state", come la questione degli F-35 necessari per la pace ampiamente dimostra.

Questo post lo trovate anche su:
http://www.infooggi.it/articolo/sappiatelo-in-due-anni-lo-stato-ha-trattenuto-172-milioni-di-euro-al-5-per-mille/46169/

I soldi della cooperazione afghana tornano ai paesi donatori. Intervista ad Augusto Di Stanislao

foto: www.go-bari.it

Kabul (Afghanistan) - «Tra le mani dei “signori della guerra” afghani passano i miliardi di dollari che l'Occidente riversa da dieci anni a questa parte nel Paese per la cosiddetta ricostruzione». A parlare in questo modo, il 3 agosto 2011 alla Camera dei Deputati, è Augusto Di Stanislao (nella foto), all'epoca Capogruppo dell'Italia dei Valori in Commissione Difesa. 

Lei ha fatto visita al nostro contingente. Come vivono i militari la quotidianità? Quali sono state le sue sensazioni in quei giorni, da civile accolto nel mondo militare?
Sono stato nella zona ovest dell'Afghanistan, ad Herat, per visitare il contingente italiano Isaf presente nell'area. La conoscenza diretta e sul campo della realtà afghana e delle importanti iniziative in ordine alla ricostruzione e all’addestramento messe in campo dal nostro contingente hanno consentito di toccare con mano gli interventi che per qualità e quantità hanno “ colpito il cuore e le menti della popolazione”. E’ stata una missione breve per ragioni legate alla sicurezza e all’attività dei nostri soldati, ma molto istruttiva e che dà la cifra del valore delle attività promosse sul campo e della fiducia conquistata tra le istituzioni e le popolazioni locali da parte dei nostri soldati. Mi sento di ringraziare ancora l’intero contingente per quanto ha fatto e continua a fare ad Herat e nell’intero Afghanistan per garantire la stabilizzazione, la ricostruzione e l’addestramento.
La mia battaglia in Commissione Difesa, nell’Aula del Parlamento e fuori le mura di Montecitorio per uscire dalla missione Isaf e riportare i nostri militari [a casa, ndr] si incentrava sulla sicurezza del nostro contingente e della popolazione afghana a dispetto degli interessi politici ed economici. La missione in Afghanistan, così come è stata concepita ed avviata, si è trasformata con il tempo in una vera e propria guerra dove a pagare sono sempre e solo i più deboli e coloro che rischiano la vita e i tanti che l’hanno persa per sostenere scelte di Governo che devono essere riconsiderate e rivalutate all’interno del Parlamento.
I militari vivono e subiscono le scelte e le decisioni di un Governo che è stato sempre subalterno alle scelte degli alleati, fanno il loro dovere orgogliosi di rappresentare il Paese e di portare pace e ricostruzione là dove vi sono popolazioni martoriate. Ma in Afghanistan le cose sono cambiate da diversi anni, l’alto senso del dovere, la vocazione per la missione e il giuramento alla Patria vivono a braccetto con il terrore di essere il prossimo militare caduto in missione.

Caso-Shalabayeva, il "fattore culturale"

foto: grr.rai.it

Roma – Si è parlato di fattori geo-economici e di diritti umani dimenticando forse un aspetto che emerge in maniera sempre più evidente con l'emergere dei dettagli dell'extraordinary rendition di Alma Shalabayeva e della piccola Adua, rispettivamente moglie e figlia di quel Mukhtar Ablyazov dipinto alla stregua di uno dei più importanti nomi del terrorismo internazionale da due funzionari dell'ambasciata kazaka, di cui uno è il più alto in grado, l'ambasciatore Andrian Yelemessov. Un aspetto, per certi versi, culturale.

Chi scrive non è esperto di questioni tecniche interne ai rapporti diplomatici, ma non credo che un ambasciatore di un qualsivoglia Paese possa entrare al Palazzo del Viminale – cioè la sede del Ministero dell'Interno – chiedere e ricevere audienza dal capo di gabinetto, Giuseppe Procaccini, ovvero dal braccio destro del ministro (Angelino Alfano, nello specifico) e vedersi mettere un intero apparato di sicurezza a disposizione per gli interessi suoi e dello Stato di cui è ambasciatore.

“Uso personalistico della res publica”. È questo ciò a cui stiamo assistendo (oltre a quanto già evidenziato nei giorni scorsi) nell'affaire-Shalabayeva, che si voglia credere o meno alle giustificazioni del governo.

Perché se – come sempre più i fatti rendono chiaro – esistono delle colpe politiche allora quegli stessi rappresentanti delle istituzioni devono dimettersi, soprattutto Alfano. Come scrive Ezio Mauro su Repubblica, infatti «Se davvero non sapeva, deve dimettersi perché evidentemente la sede è vacante, le burocrazie di sicurezza spadroneggiano ignorando i punti di crisi internazionale, il paese non è garantito».

Per quanto riguarda Emma Bonino, ministro degli Esteri fin da subito vista come l'unico politico “di prestigio” internazionale – il cui dicastero ha tenuto a precisare di non avere voce in capitolo su espulsioni – e che per prima ha parlato di «figura miserabile» fatta dal nostro Paese (che si aggiunge comunque ad una già ampia e storica sequela) si faccia lei stessa “ambasciatrice dei diritti umani italiani”, voli in Kazakistan e torni solo quando da quello stesso aereo potranno scendere anche Alma Shalabayeva e sua figlia. Sarebbe l'unico modo per riabilitarla agli occhi degli italiani.

Se invece, dall'altro lato, si vuole credere ai “non sapevamo”, questo significa che esisterebbe un sistema, quelle «burocrazie di sicurezza» di cui parla il direttore di Repubblica, formate in questo caso dagli uomini degli apparati di sicurezza che hanno materialmente autorizzato ed eseguito l'extraordinary rendition, che si muove al di sotto ed a prescindere dal Governo. Una possibilità che, se i fatti non la stessero smentendo, sarebbe tanto grave quanto inquietante.

La cooperazione in Afghanistan? Oppio e aiuti internazionali

foto: nigrizia.it

Kabul (Afghanistan) - Oppio e aiuti internazionali. Sono queste le basi dell'Afghanistan liberato, dove la cooperazione occidentale ha portato con se, oltre agli immancabili interessi delle grandi società, anche un ben avviato traffico di droga dei contingenti occidentali, come scrivevamo ieri. La domanda da cui partire oggi è quella che, dopo 53 morti, in Italia ancora pochi si fanno: che ci siamo andati a fare in Afghanistan?

Esportiamo democrazia? No, mazzette. Stando alle cifre presentate nel 2011 alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, per la nostra missione umanitaria dal 2001 al primo semestre 2011 l'Italia ha speso circa 4,07 miliardi di euro, per la maggior parte (87%) in spese militari, confermando ancora una volta come il nostro sia diventato ormai un vero e proprio Warfare State. Non è dato sapere, però, se in tutto quel denaro sia compreso anche quello utilizzato per comprare – letteralmente – i taleban, come riporta un dispaccio dell'ambasciata statunitense. Nonostante le smentite ufficiali e la reprimenda di George W. Bush, guarda caso i grandi attentati si sono registrati proprio quando il flusso di denaro veniva meno. Ne sa qualcosa il contingente francese che, sostituendoci nell'agosto 2008 al comando del distretto di Sarobi, vicino Kabul, non era stato messo al corrente di questa pratica. Dieci legionari morti e 21 feriti il salato conto di questa dimenticanza

Grazie alla partnership tra Wikileaks e L'Espresso è, inoltre, possibile smontare l'ipocrisia della nostra “missione di pace”, trasformandola in una meno costituzionale e meno etica missione di guerra, dove ruolo di primo piano lo hanno avuto i “veicoli neri” della Folgore, che tra maggio e dicembre 2009 ha «cambiato il volto della presenza italiana in Afghanistan». Tra i 14.000 file – scrivevano nel 2010 Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi – si può leggere «un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla» che registra anche l'uso di razzi al fosforo bianco e le “Bunkerbuster”, capaci di penetrare anche i bunker sotterranei. Così come nulla si sa di un prigioniero custodito dagli americani consegnato al governo di Roma il 20 dicembre 2009 all'aeroporto di Bagram. Perché quest'uomo, identificato solo come un “terrorista straniero” interessava così tanto le nostre autorità? È ancora sotto consegna o è stato liberato?

Approfondimento: “Afghanistan, ecco la verità”, di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi, L'Espresso, 15 ottobre 2010.

Mogadiscio-Kabul, la lunga strada della (mala)cooperazione

foto: ilcaffegeopolitico.net

Provincia dell'Helmand (Afghanistan) - «Alle rispettabili popolazioni di Helmand. I soldati dell'ISAF e dell'Esercito Nazionale Afghano (ANA) non distruggeranno i campi di papavero. Loro sanno che molta gente dell'Afghanistan non ha scelta nella coltivazione del papavero. L'Isaf e l'Ana non desiderano impedire alla gente di guadagnarsi i mezzi per il loro sostentamento».
Aprile 2007, due stazioni radio della provincia di Helmand, Afghanistan meridionale, trasmettono questo messaggio. A commissionarlo non uno dei tanti signori della droga locali ma l'esercito britannico.

La vicenda fece infuriare qualche ufficiale afghano per un po', venne bollata come “sfortunato incidente” e tutto si chiuse lì, come se niente fosse. E dire che il contingente occidentale ci aveva anche provato a far cambiare coltura agli agricoltori afghani che, pur non avendo assimilato dopo 12 anni di invasione il senso occidentale della “democrazia”, gli affari li sanno fare benissimo. Si era tentato, infatti, di sostituire i campi di oppio da dove arriva tra l'80 ed il 90% dell'eroina che circola sui tavoli dei locali e nelle feste private del mondo intero con coltivazioni di grano e riso ma, come riportava lo scorso aprile Rod Nordland sul New York Times, gli agricoltori ricavavano 43 centesimi dal grano, 1,25 dollari dal riso e 203 dollari al chilo dall'eroina. Con profitti da massimizzare per sfamare le famiglie la scelta è scontata, anche alla luce del forte indebitamento verso i signori della droga i quali, venute meno le colture e sfumati gli affari monetari in seguito all'”edittodel Mullah Omar, hanno dato vita a fenomeni di debt marriage, costringendo gli agricoltori a sanare i debiti prendendosi le figlie degli agricoltori per sposarle o renderle schiave.

Afghanistan, Cristiano Congiu è morto davvero per criminalità comune?

foto: pbs.org

Valle del Panshir (Afghanistan) - Ieri abbiamo iniziato a parlare dell'omicidio del tenente colonnello Cristiano Congiu, arrivato in Afghanistan nel 2007 come ufficiale della Direzione centrale dei servizi antidroga con il compito di indagare sulle esportazioni di oppio e lì ucciso, il 3 giugno 2011, in circostanze tutt'altro che chiare.

Notizie certe. Si è parlato – lo fa Il Messaggero il 12 agosto 2011 – della volontà di Congiu di entrare nel mercato degli smeraldi attraverso la costituzione di una società con Francesca Violetta Cisotto, confermando così la versione dei fatti di quest'ultima. Secondo l'articolo, i due avrebbero chiesto anche di aprire un conto corrente presso una banca tedesca utilizzata dall'ambasciata italiana a Kabul all'allora ambasciatore Claudio Glaentzer (da gennaio 2012 all'ambasciata italiana di Atene), il quale dopo aver acconsentito ha rivisto la sua posizione esigendo la chiusura del conto.
Fino a prova contraria, gli smeraldi non usano ammalarsi, e dunque non hanno bisogno di medicinali. Non si spiega, allora, perché il tenente colonnello avesse chiesto ad un amico farmacista di Pontecorvo di metterlo in contatto con le case farmaceutiche per la fornitura di medicinali. Poco più di due mesi prima, il 5 giugno, lo stesso giornale aveva parlato della volontà del tenente di aprire un ospedale per bambini mutilati, in un articolo dal titolo “Un segugio antidroga chiamato Rambo”[1]. Lo stesso giornale peraltro - come riportato da Giorgia Pietropaoli nel suo libro "Missione Oppio. Afghanistan: cronache e retroscena di una guerra persa in partenza” edito da Alpine Studio nel 2013 - riesce a dare due versioni di uno stesso dettaglio: «Nello stesso giorno, il 12 agosto 2011, ha pubblicato due notizie contrastanti: nell'articolo pubblicato online[...]si sostiene che il tenente volesse comprare una miniera di smeraldi; l'edizione cartacea, invece, riporta la presunta testimonianza della Cisotto che afferma che era la sua società, la Aet, a voler acquistare la miniera». «Oppure sono stati gli inquirenti ad aver fatto un po' di confusione»[2].

La società fantasma. Dal sito della Advanced Engineering Technologies (Aet) Internationals, che dà l'impressione di essere stato fatto in fretta e furia, si può leggere che la società lavora per governo statunitense, principali contractors di Washington, organizzazioni umanitarie internazionali e istituzioni afghane, senza specificare oltre.

Il caso Shalabayeva pone l'Italia al bivio tra diritti umani e contratti petroliferi

foto: tg.la7.it

Roma - «La signora Shalabayeva potrà rientrare in Italia, dove potrà chiarire la propria posizione». Il governo (non) chiude la vicenda dell'extraordinary rendition di Alma Shalabayeva e, anzi, dà prova di non aver ancora capito come gestire la questione. Dopo la lettura della nota emanata dal governo, con il premier Enrico Letta che ha chiesto un'indagine in merito è lecito porre una domanda: dando per scontato che il Kazakistan non ha alcuna intenzione di liberare la donna e sua figlia, come intendiamo farle rientrare in Italia?
Qualora ciò avvenisse, comunque, quale sarà il nuovo atteggiamento italiano verso il Kazakistan? Si schiererà con il regime, preservando contratti e rapporti economici o i diritti umani, schierandosi dunque contro il regime (e presumibilmente facendo sfumare tutti i contratti)?

Approfondimento: Pasticcio kazako, l'Italia non è un paese per i rifugiati politici. Tutti gli scivoloni governativi da Ocalan in poi 

Quer pasticciaccio brutto. Ricapitolando: tutto avviene nella notte tra il 28 e 29 maggio, quando circa cinquanta uomini della Digos prelevano dalla villetta di Casal Palocco in cui abitano Alma Shalabayeva e sua figlia di 6 anni, rispettivamente moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, tra i principali oppositori del regime kazako guidato fin dal 1991 dal 73enne Nursultan Nazarbayev, che con il nostro paese intrattiene rapporti economici (come per le risorse naturali del giacimento di Kashagan, contratto firmato con l'Eni) e di amicizia (con Silvio Berlusconi).
Il motivo del blitz è che la donna viene considerata una migrante clandestina in quanto in possesso di passaporto giudicato falso. Successivi accertamenti hanno invece stabilito l'autenticità del documento, un passaporto diplomatico che riportava il cognome da nubile della donna (Ayan) rilasciato dalla Repubblica Centroafricana [qui la lettera dell'ambasciata kazaka]. Da lì la Shalabayeva viene portata prima al C.I.E. di Ponte Galeria e poi messa su un volo privato noleggiato direttamente dall'ambasciata kazaka senza che nessuno, nei ministeri, ne sapesse niente.

Non tutti (non) sapevano. Dalle ricostruzioni emerse in queste ore, però, la realtà che viene fuori è un po' diversa. Della vicenda era a conoscenza il ministero degli Esteri, che attraverso il Cerimoniale Diplomatico il 29 maggio invia un fax – firmato dall'addetto Daniele Sfregola - all'ufficio Immigrazione della questura di Roma che chiedeva conferma sull'immunità diplomatica della donna. La Farnesina risponde che Alma Shalabayeva non gode dell'immunità. Decade quindi il primo dei “non sapevo”, a meno che il ministero non abbia sostanzialmente risposto senza fare alcuna verifica, abbastanza improbabile.

Afghanistan, 52 macchie di sangue sulla bandiera italiana. Più una

foto: ilmessaggero.it

Valle del Panshir (Afghanistan) – Due colpi di arma da fuoco mentre tentava di difendere la donna che lo accompagnava. Anzi no, morte a seguito di pestaggio. Dinamiche non così simili, ma il corpo è stato cremato. Perché nessuno possa scoprire la verità su una delle 53 macchie di sangue sulla bandiera tricolore issata in Afghanistan. 53 come il conto delle vittime militari – non le uniche, come vedremo in seguito – del nostro intervento nella missione Isaf.

A differenza di chi è morto o è rimasto ferito per un ordigno artigianale, gli ormai ben noti Improvised explosive device (IED), la macchia dell'assassinio del tenente colonnello Cristiano Congiu (nella foto) è diversa. Più scura e dai contorni indefiniti, esattamente come i motivi che lo hanno portato alla morte.

A Kabul ci era arrivato nel 2007, lavorava all'ambasciata come ufficiale della Direzione Centrale dei servizi antidroga. Il suo compito era quello di indagare sulla produzione di droga destinata all'esportazione.
Nel 2010, insieme a Rosario Aitala, giudice e consulente del Ministero degli Affari Esteri per le aree di crisi ed il crimine organizzato, della droga afghana ne aveva anche scritto nel febbraio 2010 sulla rivista italiana di geopolitica Limes, con un articolo dal titolo più che eloquente: “La droga ha vinto”.
La frase più importante di questo omicidio, però, il tenente Congiu la scrive su Facebook: «vogliono farmi tacere».

Omicidio in due versioni. Il tenente colonnello viene ucciso il 3 giugno del 2011. Il 19 sarebbe dovuto tornare in Italia.
La prima versione dell'omicidio parla di due colpi di arma da fuoco, uno al petto ed uno al viso, esplosi verso Congiu che, insieme alla donna che lo accompagnava, stava subendo un tentativo di rapina. Con il passare delle ore la versione cambia, e il tenente colonnello viene ucciso non a seguito di rapina ma per una rissa scoppiata tra lui ed un “noto eroinomane” - stando alla ricostruzione fatta dal senatore Mohammed Faizi – al quale Congiu avrebbe sparato due colpi mandandolo in coma. Dopodiché i parenti dell'uomo avrebbero sparato a Congiu per rappresaglia. Perché dopo 12 anni di invasione in Afghanistan lo Stato di diritto è stato ampiamente assimilato dalla cultura afghana, evidentemente...

Poi i dettagli dell'omicidio cambiano ancora. A smentire questa volta ci pensa Karamuddin Karim, governatore del Panshir, secondo il quale sarebbe stato un pestaggio – e non un omicidio tramite arma da fuoco – ad uccidere il tenente.
A questo punto arriva anche la versione di Mohtaudin, il giovane a cui Congiu avrebbe sparato.

Srebrenica, se il genocidio si processa da una parte sola

foto: forumpace.it

Strasburgo (Francia) - Il massacro non si processa. L'11 giugno scorso la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha infatti rigettato il ricorso presentato dall'associazione delle “Madri di Srebrenica” contro Paesi Bassi e Nazioni Unite, ree di non aver contrastato l'opera dei militari guidati dal generale Ratko Mladić, il cui processo dinanzi al più volte criticato Tribunale penale internazionale - che proprio oggi ha ristabilito l'accusa di genocidio per Radovan Karadžić - per la ex Jugoslavia è stato interrotto lo scorso anno per le «serie omissioni» dell'accusa, che non ha fornito agli avvocati del generale ben 7.000 pagine di prove.
In questo modo il contingente internazionale si è reso correo del massacro di 8.372 musulmani bosniaci (più di 10.000 secondo le associazioni dei familiari delle vittime) nell'”enclave protetta dalle Nazioni Unite di Srebrenica” avvenuto tra il 6 ed il 25 luglio 1995. Tale atteggiamento, in contrasto con il mandato della missione, ha permesso di scrivere la storia di uno dei più importanti genocidi commessi in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.

Il motivo del rigetto è lo stesso evidenziato dai giudici olandesi il 13 aprile 2012: l'immunità dell'Onu da cause civili «direttamente collegata alle sue funzioni di rafforzamento della pace e della sicurezza nel mondo», sancendo in questo modo come le Nazioni Unite «non sono soggette ad alcuna forma di controllo giudiziario», come ha polemicamente evidenziato lo studio legale “Van Diepen Van der Kroef Advocaten” che assiste l'associazione.

Per avere giustizia basterebbe spostarsi da Amsterdam all'Aja, dove due anni fa la Corte distrettuale d'Appello, ribaltando una sentenza del 2008, ha sostenuto che l'Olanda è colpevole di complicità perché «pur consci del rischio che i maschi musulmani correvano una volta fuori dalla basse del Dutchbat [i caschi blu olandesi, ndr]» questi nulla fecero per impedire il massacro. Durante il periodo di permanenza olandese, inoltre, fiorirono traffici di droga, carburante e prostituzione

Il caso in questione era quello di Hasan Nuhanović che, da interprete di quel battaglione olandese dell'Unprofor di cui oggi si chiede il processo, vide – letteralmente – sbarrare la porta della base Onu di Potočari in faccia ai genitori ed a suo fratello minore, insieme ad altre 25.000 persone. I militari olandesi, infatti, negarono rifugio e protezione formando «un cordone per respingere la popolazione che preme sulla recinzione». I corpi dei tre vennero trovati anni dopo in fosse comuni diverse.

BigPharma: il grande elettore tra Obama e Bush

foto:www.supplementcounsel.com

Washington (Stati Uniti) - Le case farmaceutiche hanno avuto un ruolo nella decisione di scatenare la guerra in Afghanistan, dove nel 1999 il Mullah Omar vietava la produzione di oppio? È la domanda che ci stiamo ponendo in questo lungo approfondimento. Dopo aver visto come le case farmaceutiche siano da annoversarsi tra i principali "grandi elettori" dei governi statunitensi, indipendentemente dal colore, oggi entriamo più nel dettaglio, tornando là dove l'Afghanistan è diventato uno scenario di guerra: la scrivania di George W. Bush.

L'ex presidente, stando ai dati dei “Top recipients” del Center for Responsive Politics (CRP), era al primo posto alle elezioni del 2004 con 1.125.915 milioni di dollari (il democratico John Kerry, che lo sfidava, con 684.423 dollari arriva secondo anche in questa classifica).

Da questi dati è possibile fare almeno due considerazioni: innanzitutto che per capire come andranno le presidenziali del 2016 bisognerà guardare più ai finanziamenti di BigPharma che a idraulici o campagne elettorali porta a porta, e che le case farmaceutiche hanno una particolare “abilità” nel finanziare maggiormente il candidato scelto da quel “volere popolare” che, mai come in questo caso, diventa espressione “poetica e suggestiva”, parafrasando Giorgio Gaber. Ma i rapporti tra Presidenti e case farmaceutiche, naturalmente, non si chiude solo alla voce “grandi finanziatori”, anzi.

Quelle mail che scottano. Nel 2009 scoppia il caso: il periodo è quello delle discussioni relative alla Riforma Sanitaria, approvata solo lo scorso anno. Una serie di e-mail pubblicate dal New York Times svelarono i lavori “diplomatici” tra Nancy-Ann DeParle, consulente di Obama sul testo della riforma e i più potenti lobbisti delle multinazionali del farmaco. Lo scopo, naturalmente, quello di far passare la legge. In cambio BigPharma chiese – ottenendola - una sola cosa: avere mano libera sui prezzi di alcune medicine.

EliBush. Ancor più interessanti, anche per una semplice questione temporale, sono però i rapporti tra le case farmaceutiche e l'Amministrazione Bush che ha materialmente iniziato la campagna militare d'Afghanistan.

Se noti sono i rapporti della Pfizer con l'ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld attraverso la G.D. Searle&Company - di cui dal 1997 è stato presidente fin quando non è stato chiamato da George W. Bush - meno lo sono probabilmente i rapporti tra quest'ultimo e la Eli Lilly. Il padre ha fatto parte del consiglio di amministrazione della società mentre Bush jr ha prelevato da questa sia l'ex governatore dell'Indiana (e responsabile per le operazioni nel Nord America) Mitch Daniels che Randall L. Tobias, che della società è stato presidente. Jacob Lew, dallo scorso febbraio Segretario di Stato, è invece l'uomo della casa farmaceutica nell'amministrazione Obama.

L'"extraordinary rendition" di Alma Shalabayeva un patto politico per chiudere l'affaire-Eni?

Roma – Sui giornali inglesi si parla apertamente di “deportazione”. In Italia si usa un più cauto “espulsione”. Sta di fatto che – al di là delle questioni terminologiche – molti sono gli interrogativi legati alla consegna di Alma Shalabayeva e di sua figlia al Kazakistan, rispettivamente moglie e figlia di Mukhtar Ablyazov, in esilio a Londra dal 2009 in quanto oppositore del dittatore kazako Nursultan Nazarbayev, “caro amico” dell'ex premier Silvio Berlusconi, che così lo definì nel suo viaggio in Kazakistan del 2010. 

La dinamica. Tutto, stando alle ricostruzioni di questi giorni, avviene nella notte tra il 28 e 29 maggio, quando una squadra della Digos (composta, sembrerebbe, da ben cinquanta uomini) fa irruzione in una villetta a Casal Palocco, Roma. L'obiettivo è Ablyazov, ex banchiere, sul quale pende un mandato di cattura internazionale emesso dal governo del suo paese, che lo accusa di aver organizzato una truffa milionaria attraverso la banca Bta. Nel 2003 Ablyazov viene anche arrestato e torturato nell'ambito di un processo che Amnesty International ha più volte contestato, evidenziando inoltre il trattamento non certo “umanitario” fornito agli oppositori politici in carcere. (qui e qui)
L'uomo però non è nella villetta, abitata invece dalla moglie, dalla figlia e da un cognato. Nessuno capisce cosa sta avvenendo per un semplice motivo: i tre parlano solo russo, i poliziotti solo italiano.

Sta di fatto che la donna – la quale gode di un permesso d'asilo in tutta l'Unione Europea e di un passaporto diplomatico rilasciato dalla Repubblica Centrafricana, con il nome di Alma Ayan - viene accusata di detenzione di passaporto falso e portata al Centro di Identificazione ed Espulsione romano di Ponte Galeria, da dove verrà poi imbarcata su un “bombardiere BD-100-1A10 Challenger” noleggiato dall'ambasciata kazaka, appartenente – stando alla ricostruzione che ne fa lo stesso Ablyazov sul suo sito – alla compagnia austriaca “Avcon Jet”, costo del noleggio: 400.000 euro. D'altronde il nostro è ormai diventato un paese di voli illegali e rapimenti, come il caso Abu Omar o il disinvolto uso del nostro spazio aereo e dei nostri aeroporti per operazioni di extraordinary rendition della Cia dimostrano. Da chiarire dunque c'è già un primo aspetto: con chi il governo kazako si è accordato per permettere l'atterraggio dell'aereo?

Approfondimento #1: il memoriale scritto da Alma Shalabayeva (in inglese);

L'oppio afghano finanzia le campagne elettorali (statunitensi)?

fonte: Center for Resposive Politics (foto: www.ecominoes.com)

Washington (Stati Uniti) - Quanto ha inciso il ruolo delle grandi case farmaceutiche nel dare il via all'invasione dell'Afghanistan? Una domanda che solo all'apparenza può apparire “complottista” e che diventa lecita se si considera il ruolo giocato dai brevetti per l'accesso ai farmaci essenziali o il progetto di Auschwitz II, quando la Bayer utilizzava i deportati come “porcellini d'india” per testare i medicinali e che, sommati insieme, danno una risposta eloquente alla domanda.

Il seggio di BigPharma. Nel 2013 la Pharmaceutical Research and Manufactorers of America (PhRMA), uno dei più influenti gruppi di pressione a Washington con 20 lobbisti e 48 società rappresentante ha impiegato oltre 5 milioni di dollari in attività di lobbying, posizionandosi al sesto posto tra i gruppi di pressione verso il Congresso americano in quanto a capacità di investimento secondo il Center for Responsive Politics (da ora CRP). Dal 1998 ad oggi, stando ai dati del think tank americano, con i suoi circa 2 miliardi e 500 milioni di dollari il settore farmaceutico è quello che più si è speso – ed ha speso – per influenzare la politica statunitense, senza guardare troppo al colore politico dei candidati. Una interessante coincidenza vuole che l'attività di pressione sia iniziata proprio quando in Afghanistan il Mullah Omar emanava un decreto (ne parlavamo nella prima parte di questo articolo) che nel giro di due anni portò al crollo della produzione di oppio nel paese.

Nello scorso biennio (2011-2012) tra le società che hanno aperto di più i cordoni della borsa troviamo la Pfizer e la Abbott Laboratories, quest'ultima fino allo scorso anno in contatto con l'amministrazione Obama attraverso William Daley, capo di gabinetto dell'attuale Presidente fino alle dimissioni, che aveva preso nel 2011 il posto di Rahm Emanuel. Oltre a tale incarico – in aggiunta ad una attività nel settore privato che lo ha portato nel consiglio di amministrazione della AL e in quello della J.P. Morgan Chase – Daley aveva ricoperto il ruolo di Segretario al commercio sotto l'amministrazione Clinton (1993-2001).

Con 1.929.465 milioni di dollari, Barack Obama risulta essere il candidato che ha ricevuto più finanziamenti dal settore farmaceutico nel 2012, seguito con un finanziamento di 1.802.513 milioni di dollari proprio da quel Mitt Romney che lo ha sfidato alle elezioni qualche mese fa. Discorso non troppo diverso da quanto avvenuto per quelle che dovevano essere le “elezioni del cambiamento”, che vedono ancora Barack Obama al primo posto per finanziamenti (2.475.336 milioni di dollari), seguito dall'altro sfidante diretto John McCain (826.802 dollari), Hillary Clinton (780.489 dollari) e Romney (376.361).

Nel 2001, all'epoca della guerra in Afghanistan, l'inquilino della Casa Bianca non era Barak Obama ma George Walker Bush. Per "grandi elettori" come le case farmaceutiche, l'unica differenza è il nome verso cui indirizzare i finanziamenti.

[3 - Continua domani]

Già pubblicati:
[1-Afghanistan, l'editto anti-oppio e lo "strano" tempismo di una guerra che non finirà, 9 luglio]
[2- Il Signor Smith svela la "Missione oppio". Intervista a Giorgia Pietropaoli, 10 luglio]

Il Signor Smith svela la "Missione oppio". Intervista a Giorgia Pietropaoli

foto: popoff.globalist.it
Kabul (Afghanistan) - La guerra in Afghanistan scoppiata nel 2001 con la caccia ad Osama Bin Laden e le Torri Gemelle non c'entra nulla. C'entra, e molto, con i risultati dell'”editto” emanato dal Mullah Omar che avevano praticamente cancellato la produzione di oppio dell'Afghanistan, principale serbatoio di riferimento per traffici internazionali e produzione di medicinali. Ne parliamo con Giorgia Pietropaoli, autrice di “Missione Oppio. Afghanistan: cronache e retroscena di una guerra persa in partenza” edito da Alpine Studio nel 2013.

Voglio partire da una domanda provocatoria: il suo libro inizia con la testimonianza del "signor Smith", ma le chiedo: come si può essere sicuri, da lettori, che questi esista davvero e non sia uno "strumento letterario" utile per strutturare poi tutto il libro?
Domanda legittima ma non provocatoria. Provocatorio è il nome che ho dato alla mia fonte, Mr Smith: insomma, chi crederebbe a uno che si chiama Mr. Smith? Ma il mio non è un romanzo. È un saggio d’inchiesta. E se non ci fosse stato Mr. Smith non esisterebbe nemmeno il capitolo che tratta le case farmaceutiche. Ho iniziato la mia ricerca in questo senso proprio partendo dalle parole di questa fonte che, voglio ricordarlo, è un militare che addestrava un reparto dell’esercito afghano. Purtroppo non è la prima volta che qualcuno mi fa una domanda del genere. Il lettore deve aver fiducia nel compito del giornalista, che è quello di verificare se ciò che sta dicendo una fonte è vero. Mettiamola così: quel primo capitolo è il racconto dell’esperienza di un soldato (non dirò il grado) che ha vissuto l’Afghanistan sulla propria pelle, in prima persona. Gli si può credere oppure no. Io ho scelto di credergli e ho cercato di approfondire alcuni indizi che sembravano interessanti e sui quali fino a quel momento non avevo mai riflettuto. E da questa indagine sono usciti documenti, coincidenze, rapporti interessanti che rendono la testimonianza di Smith valida. Non dobbiamo dimenticare che le fonti anonime sono sempre esistite nella storia del giornalismo ed hanno aiutato a rivelare grandi storie, scandali, notizie. Penso alla gola profonda di Bob Woodward e al ruolo che ebbe nel Watergate.

Perché un libro di “cronache e retroscena di una guerra persa in partenza” scritto ora, quando secondo i più diffusi media occidentali il 2014 costituirà la conclusione della missione?
Il conflitto è iniziato nel 2001. Ben dodici anni fa. E non è ancora terminato. Se c’è un momento adatto per tirare le somme, per fare un bilancio è proprio questo. Lo scopo del mio libro è in parte questo: quali sono stati i risultati ottenuti con questa guerra? Il 2014 non sarà l’anno in cui ci ritireremo definitivamente dall’Afghanistan e metteremo fine alle ostilità. Come sempre, questa idea è frutto del modo di fare informazione dei mass media occidentali che, pur di fare propaganda a questa o quella fazione, danno le informazioni in maniera sbagliata o incompleta. Nel 2014 terminerà la missione Isaf, questo si. Ma è già pronto il nuovo piano che lo sostituirà, il “Resolute Support”, che scatterà alla fine del 2014. Rimarranno le truppe (anche se in minore quantità), rimarranno le basi, rimarranno i nostri militari che lavoreranno per gli stessi scopi di Isaf. Hanno solo cambiato la veste, utilizzando un altro nome, ma la sostanza è sempre la stessa.

Afghanistan, l'editto anti-oppio e lo "strano" tempismo di una guerra che non finirà

 Vi sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, la storia ad 'usum delphini', e la storia segreta,dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa.
(Honoré de Balzac, "Illusioni perdute", 1843)


Kabul (Afghanistan) - No, dall'Afghanistan non ce ne andremo. La notizia del ritiro delle truppe occidentali il prossimo anno è un falso. O, per meglio dire, un “verosimile”. Se ne andrà la missione Isaf, ma non le truppe, che rimarranno ufficialmente per «proseguire l'assistenza e l'addestramento delle forze di sicurezza afghane», stando alle dichiarazioni fatte a fine giugno dal ministro della Difesa Mario Mauro in un incontro con i pari-ruolo tedesco ed afghano e che segue il vertice Nato tenutosi il 4 e 5 giugno a Bruxelles, dove è stata definita la missione “Resolute Support”. L'Italia rimarrà in gioco attraverso l'invio di un contingente di 500-700 unità, nonostante non vi sia stato alcun passaggio in Parlamento e, dunque, alcuna possibilità di rendere noto alla popolazione l'ennesimo vilipendio all'articolo 11 della nostra carta costituzionale. [qui e qui]
Al nostro Paese, che assumerà un ruolo di primo piano, toccherà il controllo dell'area occidentale dell'Afghanistan, dove attualmente l'Italia già ha la responsabilità delle province di Herat, Farah, Badghis e Ghor. A Stati Uniti e Germania, gli altri due paesi che guideranno la missione, spetteranno rispettivamente la responsabilità della zona meridionale ed orientale e dell'area settentrionale.

Nonostante i proclami dall'Afghanistan, dunque, nessuno se ne andrà. Anche perché, in questi dodici anni di guerra, c'è un enorme – e in parte inquietante per l'Italia – non detto: Bin Laden, le armi chimiche di Saddam, la democrazia non sono mai entrate nell'agenda americane, sostituite da un'unica parola: droga.

Source: UNODC and UNODC/MCN opium surveys 1994-2001.
The high-low lines represent the upper and lower bounds of the 95% confidence interval.

Approfondimento:  Afghanistan: Lessons from the Last War. The making of U.S. Policy, 1973-1990, di Steve Galser, 9 Ottobre 2001

L'editto afghano. «Da quando abbiamo preso il controllo dell'Afghanistan la produzione di oppio è passata dalle 3400 tonnellate del 2002 alle 8200 tonnellate dell'anno scorso [il 2007, ndr]» [Riccardo Iacona, “La guerra infinita”].