P2, P3, P4: Chi comanda in Italia? (Le inchieste di Gianluigi Nuzzi - Puntata 29/05/2013)

Cricche, comitati d’affari, network orizzontali si annidano nelle pieghe del potere istituzionale. Uomini che si nutrono di relazioni e fanno da cerniera occulta tra politica, economia, amministrazioni. Sono loro i veri potenti italiani?

Luigi Bisignani ai microfoni di "Le Inchieste di Gianluigi Nuzzi". Il giornalista racconta il lato serio della denuncia della trasmissione "Le Iene" sul ruolo dei gruppi di pressione in Italia (per chi volesse approfondire, ne ho chiesto qualche mese fa alla dottoressa Maria Cristina Antonucci, ricercatrice in Scienze sociali presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e docente di Sociologia dei fenomeni politici all'Università di Roma Tre. Le quattro parti dell'intervista le trovate al termine di queste poche righe).

Perché in qualunque forma di governo esiste il cosiddetto "Potere", espressione-ombrello che indica tutto e niente. Così come ne esistono le sue derive criminali che, come ai tempi della Commissione Anselmi, devono essere denunciate. Credere però che a gestirlo siano solo quel migliaio di parlamentari che ogni tanto vengono intervistati sui mezzi di informazione è però una gross(olan)a ingenuità.

Qui l'intervista alla dottoressa Antonucci:
Democrazia, partiti e utilità del lobbismo (1/4);
Lobby, Europa e società civile organizzata (2/4);
Lobbisti, faccendieri e stereotipi (3/4);
Lobby, Regione, dibattito. (4/4)

Teoria delle notizie lente. Peter Laufer scrive il manifesto delle "Slow News"

foto: liquida.it

«Slow down and go deeper». «Rallenta e approfondisci». Bastano due parole per riassumere un intero libro, “Slow news. Manifesto per un consumo critico dell'informazione”, scritto nel 2011 da Peter Laufer, giornalista californiano (NBC News, San Francisco Chronicle, Washington Post tra gli altri), documentariasta e conduttore di talk-show nonché insegnante di giornalismo alla Oregon School of Journalism. 

Più che un libro, il manifesto scritto da Laufer è un appello, una risposta alla connessione perenne alle notizie di chi non può fare a meno di conoscere prima degli altri l'ultimo dettaglio dell'ultima notizia, e dunque tiene la televisione fissa su uno dei tanti canali all news ascoltando le stesse notizie a ciclo continuo per tutto il giorno, controlla newsletter e aggregatori rss o quello che viene postato dai suoi “amici” di Facebook o dai suoi “following” su Twitter e quando non è in casa attiva sms e connessione internet dal telefonino di ultima generazione. «Ecco dunque la regola Slow News: se deve finire per diventare una riga nelle pagine interne del giornale di domani, non perdete tempo con la storia mentre si sta verificando», è uno dei primi inviti – 28 in tutto, sotto forma di regole – al buen vivir informativo, abbandonando l'autostrada e il «camminare a 200 all'ora» per inoltrarsi in sentieri diversi, come avrebbe detto Tiziano Terzani.

Quello che invita a fare Laufer attraverso la "teoria delle notizie lente" a chi l'informazione la fa e a chi la subisce – consumo in ambedue i casi – è, appunto, rallentare, abbandonare la necessità (indotta) dell'”ultimo dettaglio minuto per minuto” per conoscere «le notizie di ieri, domani» come recita lo slogan del suo movimento. «Molto raramente una notizia è così importante per la nostra immediata esistenza da dover conoscere momento per momento qualunque cosa sappiano (o non sappiano) i canali di informazione», «a meno che l'epicentro del terremoto non sia davanti alla porta di casa vostra», si legge nel libro.

Così come è importante consumare criticamente ciò che mangiamo, in egual misura è fondamentale informarsi masticando bene (regola 21) e conoscendo gli ingredienti della nostra dieta, in una ideale prosecuzione dell'altro – e più noto – movimento slow” ideato da Carlo Petrini.

Basta, dunque, alle “junk-news”. Perché per quanto l'agenda sia dettata dai media, quel che bisogna ricordare – riecheggia la vecchia massima di Montanelli – è che ad averla in mano, quell'agenda, è sempre il lettore. A lui (o a lei) il potere di chiuderla quando vuole. 

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Apple celebra il primato tra i brand, poi viene accusata di eludere 74 miliardi di dollari

foto: it.euronews.com

New York (Stati Uniti) – Dal trono al banco degli imputati nel giro di poche ore. È quanto accaduto alla Apple negli scorsi giorni, passata dal celebrare il primo posto per valore del brand al doversi difendere dall'accusa di elusione di 74 miliardi di dollari.

Con i suoi 185,07 miliardi di dollari di valore, l'azienda fondata nel 1976 da Steve Jobs, è un brand amato «a prescindere dal valore del suo titolo in Borsa» come ha evidenziato Nick Cooper, managing director di Millward Brown Optimor che ha redatto la classifica.

Mentre il BrandZ Top 100 Most Valuable Global Brands incorona la Apple come miglior brand al mondo, però, dopo l'apertura di un'indagine dell'Unione Europea per violazione delle norme antitrust a marzo, il Congresso degli Stati Uniti ha stilato un rapporto di 40 pagine sulla società, la cui conclusione lascia poco spazio ai dubbi: elusione per 74 miliardi di dollari tra il 2009 ed il 2012.
L'indagine è riuscita a ricostruire una vera e propria ragnatela di filiali estere - alcune delle quali semplici scatole vuote - che ha permesso alla società di pagare, ad esempio, lo 0,5 per cento di imposte su 22 miliardi di profitti, come accaduto alla Apple Sales International in Irlanda nel 2011 o lo zero per cento su 30 miliardi due anni prima.

«Apple», ha evidenziato il senatore democratico Carl Levin – sostenuto anche dai repubblicani - durante la requisitoria, «non si accontenta di spostare i suoi profitti nei paradisi fiscali offshore, cerca l'esenzione totale, pretende di non avere residenza fiscale da nessuna parte».

La mela apolide. Il motivo di una così alta elusione è che le società apolidi non hanno sede fiscale e – dunque – non pagano tasse. È questo il pensiero fatto intendere martedì da Tim Cook (nella foto), chief executive della multinazionale, nell'interrogatorio davanti alla commissione del Senato che sta indagando sul caso.

A ricoprire un ruolo di primo piano nella ragnatela Cork, in Irlanda, sede della Apple Operations International, nella quale, secondo le indagini, confluirebbero altre 14 società del gruppo battenti bandiera irlandese, tranne la Apple South Asia Pte Ltd con sede a Singapore, la “Svizzera del 2020”.
È dalla cittadina irlandese che si diramano le divisioni internazionali (Europa, Medio Oriente, India, Africa ed Asia) del gruppo, nonostante gli investigatori non siano riusciti a trovarne la sede fisica né, soprattutto, la residenza fiscale. Eppure proprio da qui, stando alla ricostruzione, sono passati i 74 miliardi di dollari elusi, che hanno permesso alla società di risparmiare tasse per 44 miliardi.

Stoccolma, le rivolte nelle periferie chiudono (definitivamente?) il "modello svedese"

foto: huffingtonpost.com

Stoccolma (Svezia) - Sembra la Parigi del 2005, è la Stoccolma del 2013. Lunedì un uomo di 69 anni armato di coltello è stato ucciso dalla polizia. Da quel momento le strade della capitale svedese si sono trasformate nel teatro di rivolte che, arrivate ieri al quarto giorno, non sembrano volersi fermare.  

A riversarsi per primi in strada gli abitanti del quartiere popolare di Husby, a nord della capitale svedese, 11.000 abitanti provenienti per l'80 per cento da Turchia, Libano, Siria, Iraq e Somalia dove alti sono i livelli di povertà e disoccupazione (il 16 per cento contro il 6 per cento del tasso di disoccupazione della popolazione svedese). Ad oggi, riporta Il Post, sono almeno altri 15 i quartieri nei quali si registrano scontri

Fino ad oggi sono state arrestate otto persone - tutte di età compresa tra i 15 ed i 19 anni - e danneggiate circa un centinaio di autovetture, svariati negozi, due scuole, una stazione di polizia ed un centro culturale.

«La gente ha iniziato a reagire alla crescente marginalizzazione e segregazione di classe e di razza degli ultimi 20 anni», ha detto Rami al Khamisi, studente di legge e fondatore del movimento giovanile Megafonen che, al quotidiano The Local, evidenziando come «Queste reazioni avvengono quando non c'è uguaglianza tra le persone, ed è quello che sta succedendo in Svezia». Il "modello svedese" tante volte portato come esempio da seguire si è rotto, incapace di tenere fede a quell'etichetta che, secondo l'Ocse, ha nascosto per molto tempo la più ampia forbice della disuguaglianza sociale tra i Paesi avanzati, portando a trasformare le periferie in veri e propri ghetti. L'esplosione delle "banlieue svedesi" era duque solo questione di tempo.

Il movimento Megafonen, che si occupa di difendere le minoranze nei quartieri periferici di Stoccolma ha più volte denunciato l'eccessivo uso della forza da parte della polizia, tanto da chiedere l'apertura di una indagine indipendente. La polizia ha invece aperto un'indagine interna sulla sparatoria per chiarirne le dinamiche. Il gruppo ha inoltre accusato di «razzismo strutturale» a polizia nei confronti degli abitanti di Husby.

Il primo ministro Fredrik Reinfeldt ha invitato alla calma, chiedendo agli abitanti di Husby di riprendere il controllo del quartiere, mentre la popolazione chiede soluzioni a lungo termine che vadano oltre il semplice aumento della presenza della polizia.

La vicenda ha rilanciato il dibattito sull'integrazione dei migranti e sul modello sociale svedese. Che a questo punto sembra aver adottato definitivamente quello di Parigi e delle sue banlieue.

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#Celochiedeleuropa. Partner dalla doppia identità: i casi Ucraina e Turchia

Kiev (Ucraina) - [continua da qui e qui]. Le manovre diplomatiche nell'Europa dell'est vedono – oltre al “quadrilatero dei conflitti dimenticati” composto dalla Cecenia, dal Nagorno-Karabakh e dai due stati indipendenti in territorio georgiano dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud – due giocatori che ricoprono un ruolo di rilevanza strategica.

Ucraina, il fattore-Tymošenko. Il primo è l'Ucraina, per dimensioni il paese più grande a far parte dell'European Neighbourhood Policy dal quale passa uno degli snodi chiave del sistema di importazione di gas nell'Europa occidentale (da qui passa, ad esempio, il 40 per cento dell'importazione italiana), come ha dimostrato nitidamente la crisi tra Kiev e Mosca del 2009. Dalla fine della Rivoluzione Arancione del 2004, avverte l'Europa, nel paese si è via via erosa quella conquista democratica che aveva fatto guardare al paese come un esempio da seguire (esportare?) per i paesi limitrofi.

A riprova di ciò l'Occidente porta il caso di Julija Tymošenko , che di quella rivoluzione non violenta fu leader e – insieme al volto di Viktor Juščenko, l'ex presidente avvelenato nel 2004 – ne rimane l'immagine più nota.

La Rivoluzione è infatti finita con l'arresto dell'ex Primo Ministro condannata a 7 anni di carcere per abuso d'ufficio in merito al contratto take or pay di fornitura di gas russo particolarmente oneroso per le casse ucraine nel 2009, stessa accusa mossa contro l'ex ministro dell'Interno Yurij Lutsenko, graziato ad aprile dal presidente Viktor Yanukovich. Inoltre, la Tymošenko è accusata di evasione fiscale e di aver ordinato nel 1996 l'omicidio di Yevgen Shcherban, deputato ucraino tra gli uomini più ricchi del paese. Le accuse – senza prove a sostegno – inquadrano l'omicidio nell'ambito dell'acquisto del gas russo della United Energy System of Ukraine (UESU) guidata all'epoca dalla leader della Rivoluzione Arancione. L'esecutore materiale dell'omicidio ha dichiarato di aver ricevuto un milione di dollari da conti correnti riferibili a lei ed a Pavlo Lazarenko, ex primo ministro detenuto negli Stati Uniti per evasione fiscale.

Processi che, date le forti irregolarità denunciate da varie organizzazioni non governative indipendenti, danno una chiara matrice politica alle accuse, come sostenuto sia dalla Tymošenko che de facto dalla Cancelliera tedesca Angela Merkel, che in un incontro dello scorso 17 aprile con il primo ministro estone Andrus Ansip ha minacciato Kiev, sostenendo che nessun accordo con l'Unione Europea potrà essere preso in considerazione se prima non si risolverà – con la scarcerazione, naturalmente – il caso, da inquadrare nel più ampio problema della “giustizia selettiva ucraina”.

#Celochiedeleuropa. Partenariato Orientale: Gasdotti, governi e geopolitica

foto: geograficamente.wordpress.com

Baku (Azerbaijan) - [continua da qui]. Il consorzio che gestisce il giacimento di Shah Deniz, formato dalla British Petroleum (capocordata), dalla norvegese Statoil, dalla compagnia di Stato azera Socar, dalla russa Lukoil e dalla turca Tpao, ha nelle ultime settimane iniziato a valutare le due offerte rimaste sul tavolo relative alla nuova fase estrattiva Shah Deniz II, operativa dal 2017 per un costo di 20 miliardi di dollari.

Da un lato il Nabucco West, versione in piccolo dell'omonimo – e faraonico – progetto euro-statunitense che ha subito un forte ridimensionamento in lunghezza, capacità e (presumibilmente) costi con l'uscita della società tedesca Rwe. Il gasdotto, passato dai 4.000 chilometri iniziali agli attuali 1.300, vede coinvolte nel tracciato Bulgaria, Romania, Ungheria ed Austria, dalla quale arriva la società – la Omv – che ha preso il posto del colosso energetico tedesco consorziandosi con la Bulgaria Energy Holding attraverso la controllata Bulgargaz, la turca Botaş Petroleum, l'ungherese Magyar Olaj (o Mol Group) e la compagnia di stato romena Transgaz.

Con Istanbul, inoltre, il governo dell'Azerbaijan ha firmato lo scorso anno l'accordo per il Tanap, il Trans-Anatolian Pipeline – di cui il Nabucco West diventa la continuazione europea - chiusura dei lavori prevista tra tre anni per 7 miliardi di euro che fornirà alla Turchia 6 dei 16 miliardi di metri cubi annui che da Shah Deniz arrivano in Europa. Oltre ad Austria, Ungheria, Romania, Turchia e Bulgaria, che ad ottobre hanno messo la firma sull'accordo intergovernativo da 30 miliardi di metri cubi di gas annui, il gasdotto ha avuto anche il placet politico dei governi di Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, che proprio nella politica energetica di Bruxelles hanno individuato una priorità strategica nazionale.

Approfondimento #2: Nabucco: sicurezza energetica e risvolti geopolitici 

Sull'altro piatto della geopolitica energetica azera c'è il Tap (Trans-Adriatic Pipeline), il cui tracciato interessa Grecia, Albania e Italia (approdo previsto nel leccese; qui lo Studio di Impatto Ambientale e Sociale (ESIA)  he hanno firmato anche un accordo intergovernativo da 21 miliardi di metri cubi annui. Il progetto coinvolge il gruppo svizzero Axpo (attraverso la Egl) dalla norvegese Statoil e dal gruppo tedesco E.on Ruhrgas.
Ad eccezione della Norvegia, le società fanno riferimento a paesi non certo ostili a Mosca, cosa che – in un progetto nato proprio per contrastare il dominio del Cremlino – potrebbe non essere molto sensato.

#Celochiedeleuropa. Partenariato orientale: tra gasdotti e diritti umani (dimenticati)

foto: geopolitica.info

Baku (Azerbaijan) – Nei primi giorni di maggio il Commissario per l'allargamento e la politica europea di vicinato, il ceco Štefan Füle era a Baku, capitale dell'Azerbaijan nell'ambito del Partenariato Orientale, l'accordo di associazione stipulato nel 2009 dall'Unione Europea per avvicinarsi a sei paesi dell'area ex-sovietica (Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Moldavia e Bielorussia, chiudendo in quest'ultimo caso entrambi gli occhi sul regime di Alexander Lukashenko) attraverso accordi multilaterali e bilaterali.
Tale accordo – al quale nella primavera del 2011 è stata associata l'Assemblea parlamentare UE-Vicinato orientale (EURONEST) e che riguarda anche i paesi del Caucaso meridionale – insieme all'Unione per il Mediterraneo- fa parte della Politica Europea di Vicinato (PEV) volta a «contribuire a rafforzare la stabilità, la sicurezza e la prosperità dei vicini dell'UE a est e a sud, e quindi la sicurezza e la prosperità dell'Unione europea stessa». 

Approfondimento #1: Il partenariato orientale e la doppia periferia europea

Un Partenariato dal volto politico? L'European External Action Service è il sistema diplomatico dell'Unione, istituito dal Trattato di Lisbona ed entrato in attività il 1 dicembre 2010. Guidato dall'Alto rappresentante per gli Affari Esteri, carica ricoperta attualmente dalla britannica Catherine Ashton, vede uno dei punti chiave del suo operato nella European Neighbourhood Policy (ENP, “Politica di vicinato” in italiano) nella quale, per ovvi motivi geografici prima ancora che di politica internazionale, un ruolo cardine è ricoperto dal Partenariato con i paesi dell'ex blocco sovietico, in bilico tra l'appartenenza all'europa delle istituzioni e la nuova-vecchia politica russa nell'area. Proprio per fra fronte a ciò, la ENP – nata sotto un'ottica prettamente “tecnica” - si sta trasformando in un operato fortemente politico, volto in particolar modo a favorire – anche attraverso la “messa all'indice” attraverso il cosiddetto naming and shaming – lo sviluppo di pratiche democratiche in quei paesi guidati da leader che non rientrano nella lista dei “democratici” ma i cui paesi ricoprono per motivazioni varie un ruolo importante nello sviluppo europeo. Mosca accusa per questo l'Europa di utilizzare il Partneariato come strumento di “cooptazione” degli stati delle ex-repubbliche sovietiche per erodere il suo spazio di influenza.

Bulgaria, Borisov chiede l'annullamento delle elezioni

foto: clandestinoweb.com

Sofia (Bulgaria) - «Per la prima volta nella storia democratica della Bulgaria la forza politica che ha vinto le elezioni e ha il diritto a governare chiederà l'annullamento del voto alla Corte costituzionale». Ad annunciarlo in conferenza stampa Bojko Borisov, leader del partito di centrodestra Gerb (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria) uscito vincitore dalle recenti elezioni del 12 maggio.

Come previsto nei giorni scorsi, però, la risicata maggioranza ottenuta – il 30,74 per cento – in aggiunta all'isolamento politico del quale il partito era stato fatto oggetto, non ha permesso a Gerb di ottenere la forza politico-elettorale necessaria a formare un governo. Risultato che, in qualche modo, dovrebbe vedere il favore dell'opposizione, che aveva denunciato il ritrovamento di 350.000 schede elettorali necessarie al partito di Borisov per manipolare l'andamento del voto. Eppure la reazione più dura si deve proprio al principale partito all'opposizione – i socialisti di Sergej Stanišev, arrivati secondi con il 26 per cento di voti – che ha accusato il premier di voler provocare il caos nel paese.

Qualora la Corte costituzionale dovesse respingere l'annullamento – accordandosi con quanto stabilito dalla commissione elettorale centrale, che ha evidenziato come non esistano validi motivi per annullare il voto - il rieletto premier ha annunciato la creazione di dare vita ad un governo di “esperti” che ha, però, pochissime speranze di poter resistere a lungo, come evidenziato dall'agenzia Novinite

Una situazione aggravata anche dal fatto che dei 36 partiti presentatisi alle elezioni, grazie alla soglia di sbarramento fissata al 4 per cento che ha tenuto fuori la rappresentanza di 850.000 elettori, oltre a Gerb ed al Partito Socialista, in Parlamento sono entrati solo il Movimento dei Diritti e Libertà, rappresentante della minoranza turca e la forza xenofoba Ataka, alleata con il governo Borisov nella passata legislatura. Nessuno dei tre partiti sembra avere però alcuna intenzione di entrare nel nuovo esecutivo.

Il ritorno alle urne diventa ogni giorno di più lo scenario più plausibile.

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Bulgaria, Borisov di nuovo al governo tra brogli e stallo all'italiana

foto: lettera43.it

Sofia (Bulgaria) - Bojko Metodiev Borisov (nella foto) vince di nuovo, la stabilità politica perde. Questo è quanto decretato dalle contestate elezioni anticipate tenutesi ieri in Bulgaria, con la conferma del partito di centrodestra Gerb (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria, membro del Partito Popolare Europeo) il quale, pur diventando il primo partito a riconfermarsi consecutivamente al governo dopo la caduta del comunismo, non ha i numeri per formare un governo. Tanto che i primi commenti parlavano apertamente di “stallo all'italiana”.

Le elezioni erano divenute necessarie in seguito alle forti proteste sociali per il rincaro delle bollette dell'elettricità, le politiche economiche e la corruzione (con casi di immolazione) avevano portato, a febbraio, alle dimissioni dell'esecutivo, con l'ex diplomatico Marin Raykov a tenere in piedi il successivo governo tecnico fino allo scioglimento dell'Assemblea Nazionale ed alla conseguente nuova tornata elettorale.

Il partito di Borisov, che prima di salire al potere è stato poliziotto ed ex guardia del corpo del dittatore comunista Todor Živkov non ha i numeri per governare da solo. Con il 30,74 per cento dei voti non è infatti riuscito a raggiungere i 240 seggi necessari per ottenere la maggioranza in Parlamento e, a differenza della precedente esperienza di governo, nessuno degli altri partiti sembra avere intenzione di creare un'alleanza con Gerb, tanto meno quel Partito Socialista che – seconda forza politica del paese con il suo 27 per cento - avrebbe tutto da guadagnare da tale situazione, alla luce dell'impossibilità di formare un nuovo esecutivo di minoranza appoggiato da forze esterne e qualche deputato indipendente come nella precedente legislatura.
Nel caso in cui Borisov non riuscisse a definire la sua squadra cedendo il posto, infatti, il presidente Rossen Plevneliev potrebbe optare per un governo “di programma” dei partiti contrari a Gerb guidato dall'economista ed ex ministro delle Finanze Plamen Oresharski, supportato dal Partito della minoranza turca e dalla società civile, che avrà il compito di restituire fiducia nella politica alla popolazione, rilanciare la crescita e ridurre la disoccupazione.
L'ipotesi di un governo tra Socialisti, Movimento dei Diritti e Libertà (che ha già governato con i socialisti tra il 2005 ed il 2009) ed Ataka potrebbe però non essere ben visto da Bruxelles proprio per la presenza di quest'ultimo, dalle caratteristiche xenofobe ed ultranazionaliste.

Raccontare la guerra tra velocità e competenza. Intervista a Cristiano Tinazzi

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Milano - Internet e giornalismo: un rapporto tanto osannato quanto criticato, come quando - il mese scorso - la necessità di essere veloci sembrava poter complicare la posizione dei quattro giornalisti fermati dai ribelli siriani, per i quali le prime notizie parlavano senza giri di parole di "rapimento" vero e proprio. Ne è nata dunque un'intervista a Cristiano Tinazzi, che con Amedeo Ricucci, Stefano Varanelli ed Elio Colavolpe era entrato in Siria a dicembre. Con lui abbiamo parlato proprio del reporter di guerra, una figura tanto "romantica" nell'idea del lettore medio quanto ignorata dai direttori dei mezzi di informazione. 

Il caso di Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabbous, risoltosi per il meglio, sembra molto diverso dal caso Quirico-Piccinin. In base alla tua esperienza di reporter di guerra, cosa ne pensi?

Il caso di Quirico e Piccinin segue quelli di Tice e Fowley, giornalisti americani spariti da mesi in Siria. Quirico è entrato dal Libano per dirigersi verso Homs ma nessun giornalista da mesi usa più quel passaggio di confine, visto che in diversi sono stati uccisi, rapinati o sequestrati. Nella zona operano bande di predoni, contrabbandieri, uomini di Hezbollah, governativi, milizie filo-Assad Senza contare gruppi slegati e non dall'Els [l'Esercito Siriano Libero, ndr]. I combattimenti in quella striscia di terra che separa il confine da Homs sono molto cruenti. Una zona off limits per tutti. Due mesi fa un inviato della Bbc, Paul Wood, era stato rapito. E nella stessa zona è scomparso quasi un anno fa il giornalista americano Austin Tice.

Torniamo al fermo dei quattro giornalisti (Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali, Susan Dabbous). Perché all'inizio si parlava di "rapimento" quando poi si è saputo essere un "fermo"? Quanto ha influito sulla terminologia la necessità della rete di condividere immediatamente questa notizia? In più, puoi spiegarci la differenza tra le due situazioni?

Un fermo non è una notizia. I media hanno bisogno di titoli da strillare e spesso chi lancia questi titoli non ha nessun interesse a verificare i fatti quanto invece a fare del vero e proprio sensazionalismo. C'è stata una vera e propria corsa a chi per primo dava la notizia quando non si è riusciti a frenare la fuga di informazioni. Cavalli che scalpitavano ai box e decine di telefonate... Poi c'è una certa stampa, come quella del Giornale o di Libero, che ha già una impostazione islamofoba e idee preconcette quando si parla di Medio Oriente e Islam, per cui un fermo diventa rapimento e i rapitori diventano automaticamente dei 'terroristi'.

Guatemala, Ríos Montt condannato ad 80 anni per il genocidio degli indigeni Maya Ixiles

foto: abc.es

Città del Guatemala (Guatemala) – Cinquanta anni per genocidio e trenta per crimini contro l'umanità. È questa la decisione – storica – presa due giorni fa dalla corte guatemalteca contro l'ex dittatore Efraín Ríos Montt (nella foto), 86 anni, che ha già reso nota la volontà di ricorrere in appello. Assolto, invece, l'ex capo dei servizi segreti, José Mauricio Rodríguez Sánchez. Presente al processo anche Rigoberta Menchú, che proprio per aver portato all'attenzione internazionale il genocidio fu insignita del Nobel per la pace nel 1992.

Avvenimento altrettanto storico è che a giudicare Montt sia stato un tribunale nazionale e non, come spesso avvenuto anche nella storia recente, un tribunale internazionale, così come l'aver dato - attraverso questa senteza - conferma a quanto denunciato dall'Onu e dalla Chiesa Cattolica: quanto avvenuto in Guatemala non fu solo una guerra civile durata più tre decenni (dal 1960 al 1996) ma un vero e proprio genocidio.

Iniziato a gennaio 2012, il processo verteva su 15 massacri – dei 266 iniziali - avvenuti durante i sedici mesi del regime nel dipartimento del Quiché, nordest del paese, dove furono massacrati dalla dittatura 1.771 indigeni Maya-Ixiles - di cui quasi la metà bambini tra zero e dodici anni - accusati dal regime di supportare la guerriglia di sinistra dell'Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca (URNG).
Fondamentali, per la condanna definitiva, sono state le molte donne che hanno testimoniato sulle torture e soprattutto sugli stupri sistematici – 1.400 quelli oggetto del processo - che subivano, «prima dai soldati sani e solo alla fine da quelli ammalati di sifilide e gonorrea», come ha raccontato una donna all'epoca adolescente.

Montt, salito al potere con un colpo di stato militare il 23 marzo 1982 e sostituito, sedici mesi dopo, tramite un altro colpo di stato dei militari guidato dal generale ed ex ministro della Difesa Oscar Humberto Mejía Victores, pur continuando ad avere un ruolo di primo piano fino al suo ritiro a vita privata nel gennaio 2012, ha sempre negato ogni addebito sulle stragi, incolpando l'esercito, delle cui azioni non era sempre messo al corrente. Tesi che non può comunque essere completamente smentita alla luce della distruzione, avvenuta nel 1985, di tutti i documenti “compromettenti”, episodio che rende impossibile definire la reale catena di comando dei massacri, nella quale però forte fu la pressione esercitata su Montt da Ronald Reagan, allora Presidente degli Stati Uniti, volta ad evitare che il Centroamerica diventasse una delle basi del comunismo internazionale, che poteva contare già sul Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale del Nicaragua e su Fidel Castro a Cuba. 

Deeqa Aden Gures, morte (accidentale?) di una mediatrice culturale

Torino - 2 ottobre 2012, ore 3 del mattino. Una telecamera di sicurezza ha appena ripreso una donna, sul ponte che da piazza Vittorio Veneto porta alla cattedrale della Gran Madre. Dopo qualche passo incerto si ferma e si accascia al suolo, senza rialzarsi più. Un minuto e mezzo dopo un'automobile la travolgerà, forse uccidendo Deeqa Aden Gures, 39 anni, mediatrice culturale appartenente ad una delle famiglie più ricche ed importanti della Somalia, conosciuta come l'”angelo dei rifugiati”, in particolare di quei rifugiati somali che, riproponendo la divisione in clan che ne distingue la società, grazie a lei erano riusciti ad unirsi per difendere insieme i loro diritti.

Il “forse uccidendo” non è un refuso né un errore. Perché fino ad ora, a sette mesi di distanza, l'unica certezza è che Deeqa è morta con la testa schiacciata. Il perché, il come ed il chi rimangono un mistero. Per questo – e per portare la vicenda all'attenzione di cittadini e mezzi di informazione – è stato costituito il “Comitato per la verità su Deeqa”. Forte è, infatti, la volontà di fare chiarezza, in particolare di Luigi Tessitore, marito della donna e consulente per il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), che all'agenzia di stampa Redattore Sociale ha tentato di spiegare i tanti misteri legati a questa morte.

Innanzitutto l'idea che il claudicare sia da ricondurre all'alcol. «Il pm, con un giro di parole a mio avviso poco edificante vorrebbe darci a intendere che fosse ubriaca: sarebbe caduta priva di sensi, in una sorta di coma etilico, e in seguito investita» anche se, evidenzia Tessitore, «Il tasso alcolico era dello 0,3, ossia l'equivalente di una birra piccola». È per questo, probabilmente, che la Procura della Repubblica di Torino ha chiesto l'archiviazione del caso.
Inoltre un mistero rimane anche l'investimento. L'autopsia non è riuscita a determinare se le ferite al cranio siano da attribuire alle ruote dell'automobile o ad eventuali percosse tramite bastone o mazza da baseball, in quanto non ci sono tracce di pneumatico sul cranio né sul luogo sono stati rinvenuti sangue e materia organica, tanto da rendere incerta persino la dinamica dell'investimento, impossibile da chiarire anche con le riprese della telecamera, le cui immagini non sono nitide.

Sempre più forte diventa il timore che questo non sia un incidente ma un omicidio, date anche le minacce che nelle tre settimane precedenti la morte la donna aveva ricevuto fisicamente e telefonicamente anche in maniera palese, come quel “Deeqa verrà fatta fuori stanotte” scritto il 30 settembre addirittura su Twitter.

Karzai ammette: presi soldi dagli Stati Uniti (e dall'Iran)

foto: decryptedmatrix.com

Kabul (Afghanistan) – Si è sempre detto che Hamid Karzai fosse un presidente più amato dagli Stati Uniti che dal popolo afghano. Ora, grazie alle rivelazioni di Matthew Rosenberg del New York Times, quelle voci trovano ulteriore conferma. Negli ultimi dieci anni, infatti, la Cia ha depositato mensilmente valigette piene di denaro negli uffici del presidente e che finivano nelle mani di membri del Consiglio Nazionale Afghano, tra i quali Mohammed Zia Salehi, arrestato nel 2010 per traffico di denaro, finanziamento ai Taleban e commercio di oppio, al culmine di un'operazione di contrasto alla corruzione che aveva il suo fulcro nella Kabul Bank

Quei soldi, secondo Karzai, sono serviti per curare i feriti, per l'istruzione dei giovani o per altre operazioni comunque legali. Secondo le fonti del quotidiano newyorkese – funzionari statunitensi rimasti anonimi – sono stati invece utilizzati per corrompere politici e signori della guerra, tra i quali alcuni al governo, come i vicepresidenti Muhammad Qasim Fahim e Karim Khalili.

La notizia di per sé non stupisce e, anzi, più che di scoop sarebbe forse più giusto parlare di ammissione. Non essendo riusciti a batterli sul campo, attraverso Karzai gli Stati Uniti hanno lavorato ad un piano alternativo: comprarsi i signori della guerra afghani a suon di milioni di dollari, forse l'unico modo per realizzare una exit-strategy davvero sicura. L'unico risultato realmente ottenuto è stato infatti quello di dare protezione, soldi e legittimità alle stesse reti – il traffico di droga, i Taleban – che ufficialmente si combattevano.

«Noi li chiamavamo “soldi fantasma”. Arrivavano in segreto, ripartivano in segreto» ha raccontato al New York Times Khalil Roman, dal 2002 al 2005 vice capo di gabinetto di Karzai, che fino al 2010 riceveva con lo stesso sistema soldi anche dall'Iran, il cui scopo dichiarato era quello di spaccare l'asse Kabul-Washington, con gli americani che avevano tutto l'interesse a tenersi buono il potente gruppo di potere che ruota intorno al presidente.
Non è chiaro se gli americani abbiano ricevuto ciò che volevano, anche alla luce del fatto che – scrive Rosenberg - «invece che ingraziarselo, i pagamenti sembrano ben illustrare l'opposto: Karzai sembra non essere comprabile».

Oltre a Fahim si sa che parte del denaro è finito nelle tasche del fratello del presidente, Ahmed Walid Karzai, a capo del Kandahar Strike Force fino al suo omicidio, avvenuto nel 2011.

Kosovo, concluso il primo grado del processo ai trafficanti d'organi della clinica Medicus

foto: politibalkando.blogspot.it

Pristina (Kosovo) – Cinque condanne per traffico di organi. A questo è arrivato un tribunale dell'Eulex la missione europea in Kosovo iniziata nel 2008 - a fine aprile, chiudendo in questo modo il primo grado del processo, iniziato nel 2011, per i fatti della clinica Medicus di Pristina, dove sono stati illegalmente espiantati circa una trentina di reni da cittadini dell'Europa dell'Est e dell'Asia centrale.

Intorno ai 15.000 euro il prezzo – non sempre corrisposto – pagato ai donatori dalla clinica, che poi rivendevano i reni per cifre che arrivavano anche a 100.000 euro, per lo più cittadini di Israele, Canada, Stati Uniti, Germania e Polonia.
Il processo era iniziato iniziato nel 2008, quando i dolori post-operatori di Yilman Altun, una delle vittime, all'aeroporto della capitale kosovara avevano permesso di scoprire tale traffico.

Condannato ad otto anni di carcere con sospensione dalla professione e multa di 10.000 euro per associazione criminale e traffico di esseri umani Lufti Dervishi, urologo ed ex proprietario della clinica vicino ad Hashim Thaçi, attuale primo ministro kosovaro. Con le stesse accuse è stato condannato a sette anni e tre mesi con pagamento di 2.500 euro per le stesse accuse Arban Dervishi, figlio dell'urologo. Entrambi sono stati invece assolti dalle accuse di frode, falsificazione di documenti e di aver arrecato gravi danni fisici alle vittime.
Inibizione dell'esercizio della professione di anestesista per un anno e tre anni di carcere per Sokol Hajdini, capo anestesista durante gli espianti. Un anno di carcere, infine, per gli altri due anestesisti, Islam Bytyqi e Sulejman Dulla. Per i tre è stata invece rigettata l'accusa di attività medica illegale.

Assolto, inoltre, l'ex ministro della Sanità kosovara Ilir Rrecaj, accusato di aver occultato informazioni che avrebbero permesso di scoprire quanto avveniva nella clinica. Rrecaj, pur ammettendo di essere a conoscenza dei fatti, ha tuttavia negato di aver coperto o agevolato tali operazioni. Se ne è lavato le mani, in buona sostanza.

Mai presentatisi in aula e perciò condannati in contumacia i due imputati-chiave, ovvero il chirurgo turco Yusuf Erçin Sonmez, soprannominato “Dottor Frankenstein”, accusato di essere l'esecutore materiale degli espianti, arrestato a gennaio 2011 per traffico di esseri umani e favoreggiamento dell'immigrazione illegale e Moshe Harel, cittadino israeliano di origine turca arrestato a maggio dello scorso anno nell'ambito di un'indagine su un altro gruppo di trafficanti di organi a cui era affidato il compito di reperire le vittime tra Russia, Moldavia, Turchia e Kazakistan.

Cecenia, don't clean up the truth

foto: Russian Justice Initiative
Groznyj (Cecenia) - Per far capire agli americani dove fossero i Balcani che si apprestava a bombardare, Bill Clinton si presentò in televisione con una mappa geografica. Qualche anno prima la stessa operazione era stata fatta da Richard Nixon, anch'egli munito di cartina per presentare ai telespettatori americani dove fosse il Vietnam.
Si è dovuto invece limitare ad un semplice comunicato Petr Gandalovič, ambasciatore della Repubblica Ceca, costretto ad evidenziare come il suo paese non abbia niente a che fare con la Cecenia (qui la cartina realizzata da Foreign Policy).

Non solo gli americani, però, peccano di ignoranza verso la Cecenia, divenuta un vero e proprio buco nero mediatico iniziato con il “patto antiterrore” tra George W. Bush e Vladimir Putin del 2002. Un aiuto nella guerra al terrore del presidente americano in cambio dell'oblio su quanto accade in Cecenia o nei paesi vicini, vittime della “cecenizzazione” dell'area caucasica. Un patto che ora, grazie alla “declinazione cecena” dell'attentato di Boston (di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo approfondimento), potrebbe permettere all'ex KGB di chiudere definitivamente la questione ammantandola dietro ad un nuovo capitolo della “guerra al terrore”. Mentre sullo sfondo si staglia il profilo delle Olimpiadi invernali del 2014 che si terranno a Soci, poco lontano dal nord del Caucaso. Debellare la malapianta cecena è, dunque, un obiettivo più che concreto per Putin, che con le cancellerie occidentali dalla sua, deve ora convincere solo l'opinione pubblica internazionale.


Cecenia: lo scenario del conflitto
Un'operazione che non può avvenire se non con argomentazioni più che convincenti – come la possibilità di un terrorismo ceceno libero di mettere bombe in Occidente potrebbe essere – data la necessità di dover coprire le innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrate contro la popolazione civile. Nonostante la Cecenia non viva più in un conflitto aperto pur essendo, secondo vari commentatori, un vero e proprio genocidio dimenticato (approfondimento in allegato), come quello armeno, il regime di Ramzan Kadyrov – uomo di Putin arrivato a governare la piccola Repubblica caucasica dopo la “normalizzazione” voluta da Mosca – continua ad avere la principale opposizione nelle madri dei civili torturati, scomparsi (più di 10.000 persone) o uccisi (tra i quali 35.000 bambini, numero più alto dei desaparecidos argentini) nei campi “di filtraggio” o per mano delle “unità di pulizia dei boschi”, nome utile a coprire veri e propri squadroni della morte come i “Kadyrovity”, direttamente riconducibili all'attuale presidenze Ramzan Kadyrov. «Il terrorismo islamico è sicuramente un problema in Cecenia, ma è sbagliato ricondurre tutta la crisi a questa minaccia. Non si devono confondere cause e conseguenze: la causa del conflitto ha radici profonde e lontane, mentre il terrorismo è un sottoprodotto della guerra», denunciava in un'intervista del 2006 a SwissInfo Andreas Gross, all'epoca relatore speciale per la Cecenia al Consiglio d'Europa.

"Fratelli Cecenia", gli attentatori di Boston tra ignoranza e strumentalizzazione

Tamerlan (a sinistra) e Dzokhar Tsarnaev (a destra)
foto: repubblica.it
Boston (Massachusetts, Usa) – È stata definita un nuovo 11 settembre da chi vi ha preso parte. Si è parlato – non senza evidente esagerazione giornalistica – di “strage”. Ma cosa è stato, davvero l'attentato della maratona di Boston dello scorso 16 aprile? Troppe le chiavi di lettura che sono state fornite nelle ore e nei giorni immediatamente successivi: il gesto di un folle, un attentato organizzato da movimenti anti-patriottici o troppo patriottici data la prossimità del Patriot Day, infine la pista internazionale, con la Cecenia diventata, per qualche giorno, il fulcro del nuovo asse del male, in attesa che – venuto meno lo sceicco del terrore e depotenziato il mad dog coreano – il mondo conosca nomi e città della nuova geografia del terrorismo internazionale.

Il primo ad essere stato incolpato delle bombe alla maratona di Boston è un ragazzo di 17 anni, Salah Barhoun, fa il maratoneta per la sua scuola. Era lì per guardare la corsa non potendovi prendere parte. La sua unica colpa? Avere la pelle nera, come rimarcherà inizialmente la CNN. Il riconoscimento sembra però più frutto del “denuncismo” della rete – le foto rilasciate dalle forze dell'ordine hanno, come di consueto, scatenato una dilettantistica caccia all'uomo - che non di attività investigativa propriamente detta. La matrice dell'attentato è, secondo le prime analisi, chiaramente internazionale. Per quale motivo rimarrà un mistero.
L'FBI infatti si corregge poco dopo, rilasciando un'altra foto. Due giovani di sesso maschile, razza caucasica, berretto da baseball in testa. Praticamente il 90% dei giovani statunitensi. La matrice dell'attentato diventa dunque interna. Sicuramente il gesto di un folle isolato o un'attentato a sfondo razzista. Il perché, anche in questo caso, rimane un mistero.

Così come un mistero rimane, allo stato delle cose, capire le motivazioni che hanno spinto due fratelli, Tamerlan e Dzokhar Tsarnaev a compiere l'attentato. Sono loro, stando alle nuove foto, i due giovani caucasici col berretto in testa. L'identificazione fotografica, che costituisce la prova principale del loro coinvolgimento, potrebbe però non essere poi così certa. Con i loro nomi che escono sui giornali, comunque, si chiude la caccia all'uomo. E si aprono gli interrogativi. I due – come scrive l'antropologa ed esperta di media Sarah Kendzior su Al Jazeera - diventano ben presto «il genere sbagliato di caucasici».