the Iranian way of life

Il 2009 è stato, tra le tante cose, l'anno del decennale delle proteste di Seattle contro il WTO, momento nel quale il mondo ha iniziato a conoscere il movimento anti-globalizzazione (nelle varie sfaccettature e con i vari nomi che ad esso si sono via via dati).

«The whole world is watching». Il mondo vi sta guardando, urlavano i manifestanti in quei giorni. Oggi degli altri manifestanti, a migliaia e migliaia di chilometri dagli Stati Uniti, dal centro dell'Impero, stanno manifestando. Per le strade di Teheran e delle altre città della Repubblica Islamica dell'Iran si continua a scendere in piazza per chiedere cose come «libertà» e «democrazia», espressioni poetiche e suggestive, parafrasando Gaber. Già, ma quale «libertà» e quale «democrazia»? Questo dobbiamo ancora capirlo.
La storia degli scontri in Iran – stando ai media del circuito mainstream – si può banalmente riassumere in questi termini: c'è un signore brutto, sporco e cattivo, salito al potere con la menzogna, che vuole la bomba nucleare per distruggere il mondo. È quindi normale che “le forze del Bene Supremo” entrino in azione per impedire ciò e portare quelle libertà e – soprattutto – la democrazia che il popolo oppresso chiede. Semplice, no?

Un altro dvd è possibile

"Viviamo sulla terra. Non abbiamo altro. La stiamo distruggendo. Che fare? L'ho chiesto ai massimi esperti mondiali. Mi hanno parlato per ore del presente e del futuro. Di come salvare la terra per i nostri figli i nostri nipoti. Ho raccolto le loro testimonianze in questo documentario. Chi lo vedrà non avrà più alibi." [Beppe Grillo]
Terra Reloaded. Il DVD che cambierà il mondo.
Poteva essere questo un ottimo pay-off se avessi scritto questo post prima di aver visto il video. Ma visto e considerato che una recensione è sempre postuma, l'uso del passato non è un errore.

Leggendo la frase che si trova sul sito creato appositamente per il lancio del dvd, sembrerebbe che questo documentario debba svelare chissà quali “verità”. Invece niente di nuovo sul fronte ambientale, parafrasando il romanzo di Erich Maria Remarque del 1929. Assolutamente niente.
Non c'è un punto nel dvd che lasci allo spettatore “mediamente informato” la sensazione che da questo documento ne possa ricavare qualcosa di interessante. Perché uno dei punti principali è proprio il target di un documento come Terra Reloaded: non serve essere esperti di marketing o di pubblicità per capire che chi ha intenzione di guardarsi questo dvd – io l'ho trovato come file torrent in rete (il perché poi ve lo spiegherò in seguito) – è una persona che più o meno sa cosa aspettarsi durante l'evolversi di questa sorta di conferenza in differita. Quindi siamo davanti ad un tipo di target che è, appunto, mediamente informato su quali siano i danni del cambiamento climatico, quali i principali fattori inquinanti e quali – eventualmente – le possibili soluzioni. Per cui, per questo tipo di target, un dvd del genere (alla “modica” cifra di 16€) credo sia assolutamente inutile. In particolare poi, credo che faccia poca presa proprio sul target a cui più fa riferimento, che è poi il target principale di Grillo e cioè sui giovani, perché noi giovani fin da piccoli abbiamo sentito parlare di ambientalismo, di problemi legati all'inquinamento et similia, per cui per quei giovani che si informano – lo ripeto – non si trova poi molto materiale che non sia già stato in qualche maniera assimilato.

Fossi nel nuovo “Santone dell'Opinione Pubblica Lobotomizzata” eviterei trionfalismi auto-celebrativi, ma questa è solo una considerazione personale. Non entro nel merito di quel che viene detto nel documentario, per il semplice motivo che avendo di fronte studiosi ed intellettuali globalmente riconosciuti del calibro di Jeremy Rifkin, Joseph Stiglitz, Wolfgang Sachs e gli altri non c'è niente da eccepire, quel che viene detto corrisponde esattamente alla terribile situazione in cui il pianeta si trova.
Voglio invece soffermarmi su due spunti: il video – come si vede in apertura – è prodotto dalla Casaleggio Associati, guardacaso la stessa società che si occupa della gestione del personaggio Grillo (commercializzazione del personaggio innanzitutto) in associazione con Greenpeace, almeno stando a quel che dice il guru genovese. Però guardando il video non c'è neanche il minimo riferimento a Greenpeace! Mi immaginavo che almeno nei titoli di coda un microscopico “in association with” ci fosse, e invece no! Per cui mi viene da pensare che questo tipo di collaborazione sia abbastanza sbilanciata verso il gruppo di lavoro del nostro. Domanda cattivella: sapendo che Greenpeace – come lo stesso Grillo ci dice in una puntata di 168, il suo programma su YouTube – vive delle sovvenzioni dei suoi sostenitori, quanto incasseranno loro e quanto incasserà la Casaleggio Associati? Non è che il dvd “amico dell'ambiente” è solo un altro modo di far cassa confidando in quel particolare tipo di target che crede che guardare dvd e farsi portare in piazza sia “protestare” e cercare di cambiare il mondo?

E qui arriviamo al secondo punto che mi dà da pensare: io non so come venga prodotto un dvd, però mi chiedo se portare avanti battaglie per la salvaguardia del pianeta continuando a produrre libri (cioè a tagliare alberi per la carta, a meno che non si utilizzi la carta riciclata...) o comunque supporti “fisici” - come appunto il dvd – non sia antitetico alla battaglia che si vuol combattere. Io sono cresciuto nel “humus culturale” del movimento altermondialista, che vede alla voce “anti-globalizzatori” un signore di nome Richard Matthew Stallman, hacker e attivista che si è sempre battuto contro il copyright.
Le due cose – dvd e copyright – che apparentemente nulla hanno a che fare tra di loro, vedono un punto di connessione sul concetto della circolazione della Cultura, come evidentemente è questo dvd (che una volta si sarebbe chiamato “divulgativo”). Ora: per quale motivo io devo pagare 16 euro per un documento che – secondo chi l'ha prodotto – è di interesse addirittura internazionale? Questo è solo uno tra i tanti esempi che si potrebbero fare sulla necessità di una circolazione della Cultura che sia veramente free. Lo stesso Rifkin ad un certo punto ci ricorda che noi giovani siamo nati nell'epoca della Rete, di Youtube, facebook, dei blog etc etc, perché non usare questi canali per una divulgazione scientifica così importante? E questo può essere fatto anche per i libri, i filme tutto quel materiale che ha carattere di interesse nazionale e/o internazionale. Qualcuno potrà obiettare che il prezzo di un prodotto viene stabilito – anche – come recupero delle spese sostenute per la sua creazione. È il fondamento dell'economia d'altronde, niente da eccepire. Ma stiamo parlando di un metodo vecchio. Pensiamoci un attimo: più o meno tutti abbiamo un pc in casa, e più o meno tutti disponiamo di una connessione alla Rete più o meno veloce (questo non è rilevante ai fini di quel che sto dicendo...), giusto? Quindi qual'è la differenza tra andare a comprare un dvd, un libro, un cd e comprare quello stesso prodotto non nella sua forma “famosa”, ma digitalizzato in internet? Si può avere lo stesso identico prodotto, della stessa fattura, ma senza il supporto originario, così da avere due vantaggi: in termini economici perché ci sarebbero meno costi da fronteggiare (ad esempio verrebbero meno tutti i costi legati all'impaginazione, alla creazione “fisica” di libri e supporti magnetici) ed in più, non dovendo spostare fisicamente il prodotto, si eliminerebbero tutti quei costi legati alla produzione ed al trasporto da un punto ad un altro di quel che si è acquistato, così da avere anche un ritorno “verde” in termini di minor inquinamento (portato ad esempio dai gas di scarico dei camion che distribuiscono il dvd in questione).

Questo, secondo me, sarebbe un primo passo per una vera “rivoluzione amica dell'ambiente”. O sbaglio?

Storia di Natale: da Charles Dickens a...Trenitalia


La storia: «Privo di biglietto perché impossibilitato a farlo mostra i soldi al controllore. Ma viene costretto a scendere dalla polizia ferroviaria».

Appena ho capito di cosa trattasse l'articolo di Shulim Vogelmann mi è venuta in mente Ebenezer Scrooge, l'avaro protagonista del Canto di Natale di Charles Dickens. Ma credo che al confronto della storia che sto per raccontarvi, anche lui avrebbe avuto un briciolo di umanità in più.

Il 27/12 su uno degli Eurostar Bari-Roma sale un ragazzo, disabile, senza biglietto. Succede tante volte, d'altronde. Non è né il primo né l'ultimo a farlo. E come prassi il controllore – una giovane ragazza ben truccata, di venticinque anni (tenete a mente l'età, ci tornerò in seguito) – svolgendo l'attività per cui è pagata, si trova a chiedere il biglietto al ragazzo. Una persona normale, indipendentemente dalle funzioni che svolge, si renderebbe conto che quel caso in particolare va trattato “con prassi diversa”. Come nella migliore tradizione italiana, invece, l'autorità predisposta non si discosta minimamente da ciò che le viene imposto dal regolamento: un sovrapprezzo di 50 euro (più il prezzo del biglietto). C'è una cosa che mio padre – ferroviere “di lungo corso” - mi ripete spesso quando gli racconto la mia vita “da pendolare”: questi ragazzi, le nuove leve di Trenitalia, vivono con le stesse paure di un operaio o di qualunque lavoratore dipendente in questo paese: il rinnovo del contratto. Per cui gli viene in pratica fatto il lavaggio del cervello dai padroni (quegli stessi che pretendono che i viaggiatori si portino panini e coperte da casa invece che spendere soldi per portare il parco-treni, anche quello d'elite, ad un livello che possa almeno catalogarsi sotto la voce “decente”; ma questa è un'altra storia...) che li portano de facto a lasciare il cuore in stazione, come evidentemente ha fatto il personale di bordo in questa situazione. Ma si sa che il business, per Trenitalia, è l'unica cosa da perseguire, anche a Natale ed anche di fronte a casi come questo.

In realtà l'operato del personale è inappuntabile – a parte il non aver dato il numero di matricola al giornalista – perché si sono solo limitati ad applicare il regolamento. Ma almeno il Canto di Natale finisce con la “redenzione” di Ebenezer Scrooge, con Trenitalia niente happy ending. D'altronde business is business...

Diario da Gaza - di Stefano Savona

«Sto cercando di trovare le parole, ho bisogno di parole, parole convincenti, parole penetranti, che ti fanno un buco in testa e che poi lasciano frammenti in ogni dove schizzi di miseria chiazze di paura brandelli di sogni e resti di cultura, parole come raffiche di mitra in un mercato o come missili sparati al terzo piano di un palazzo, che facciano male cazzo, parole tanto forti da zittire tutto il mondo occidentale, solo per un attimo, soltanto per provare ad ascoltare, l’impotenza, il rancore…parole a fare male, picchiate sulla faccia come calci di fucile e pugni e sputi e schiaffi, parole…»
Queste sono le parole con cui inizia "Flowers of Filastin" degli Al Mukawama, gruppo napoletano nato come progetto alternativo di Luca "'o Zulù" Persico, frontman della 99 Posse che più di una volta ho citato su questo blog. Parole, come quelle che non riesco a trovare adesso, dopo aver visto il documentario che vi ripropongo qui sotto, su quel che significa fare quotidianamente i conti con la guerra, le bombe, i missili e i morti ammazzati.
Se il video-post precedente (Paolo Barnard: "capire il torto". I 100 anni della pulizia etnica in Palestina) era il tentativo di capire come, e soprattutto perché, oggi, in Palestina si continua a morire e a farsi ammazzare lottando per una terra che ufficialmente il popolo palestinese non ha, il documentario di Stefano Savona serve - o per lo meno io spero che serva - a capire come vive un palestinese. Take a look...


Qui le altre parti
parte 2° [http://www.youtube.com/watch?v=yIEdS70-PrQ]
parte 3° [http://www.youtube.com/watch?v=h_LoRexPTLc]
parte 4° [http://www.youtube.com/watch?v=zCYdN9efXug]
parte 5° [http://www.youtube.com/watch?v=c5bnwdaOcks]
parte 6° [http://www.youtube.com/watch?v=SO4gso1o8Tg]
«Laken ha hia arty huna Yajibu an auda, ila arty, ila Filastin
Aud min ajli hauiaty mithla jady, qabla an yatrukù Filastin
Audu hurru kay aktaru, an akuna usfuran au akuna shajarah(tun)
Kamà raghiba jady»
(Ma eccola là, la mia terra, voglio ritornare nella mia terra, in Palestina.tornare per una identità, come mio nonno, prima di lasciare la Palestina.Tornare, libera di scegliere se essere un uccello, come sempre avrei voluto, oppure un albero, come il nonno aveva sempre desiderato.) Mona Zaarour, 12 anni, campo profughi di Chatila.

Paolo Barnard: "capire il torto". I 100 anni della pulizia etnica in Palestina

In un paese che ha serie difficoltà a ricordare la propria storia perché troppo impegnato tra shopping e reality show vari, forse chiedere di interessarsi alla storia di altri paesi è una richiesta vana. Ma nel momento in cui esiste un popolo senza terra - il popolo palestinese - che da oltre un secolo subisce quotidianamente una vera e propria pulizia etnica sia fisica tramite il conflitto con gli israeliani sia mediatico con la cancellazione della Verità e l'asservimento del circuito mainstream alla causa sionista, credo che tentare per lo meno di spiegare, grazie al prezioso lavoro di un giornalista eccezionale (e per questo scomodo) come Paolo Barnard, come si è arrivati agli scudi umani, al fosforo bianco e a "Piombo Fuso", sia il minimo che chi come me - che da anni ormai ho scelto di stare al fianco dei fratelli palestinesi - possa quantomeno tentare di fare. Il video dura circa un'ora, credo si possa "sprecare" questo breve lasso di tempo per un pò di cultura e per tentare di capire perché esiste una guerra ormai secolare che nessuno racconta. O per lo meno non come dovrebbe.



Qui le altre parti:
parte 2° [http://www.youtube.com/watch?v=9H9Zc9BMIIY&feature=player_embedded]
parte 3° [http://www.youtube.com/watch?v=p3jHssKy_2c&feature=player_embedded]
parte 4° [http://www.youtube.com/watch?v=mZfR-WhRtcg&feature=player_embedded]
parte 5° [http://www.youtube.com/watch?v=52_asLLLaNc&feature=player_embedded]
parte 6° [http://www.youtube.com/watch?v=8NTVlA16Q5s&feature=player_embedded]
parte 7° [http://www.youtube.com/watch?v=l60mTxRFYUI&feature=player_embedded]

Fabbriche a gestione (A)narchica


Deve essere una sensazione strana passare il Santo – per chi ci crede – Natale in fabbrica. Sicuramente una di quelle esperienze che chi la fabbrica la porta avanti (leggasi alla voce: operai) non vorrebbe mai fare, eppure...

Eppure è quel che è capitato a Pomigliano D'Arco, a Termini Imerese, ai ricercatori dell'Ispra ed agli operai di Agile (ex Eutelia) e che capita ad un sacco di altri operai nel paese. C'è la crisi, dicono. Io però quel che vedo è che la crisi non è uguale per tutti, perché chi aveva prima della crisi – imprenditori, industriali, dirigenti et similia – continua ad avere, chi non aveva prima, a maggior ragione, non ha neanche ora. Insomma, per citare Zulù, il frontman della 99 Posse, i magnaccia dell'economia continuano a fare i magnaccia, e la povera gente finisce sempre più in mezzo alla strada.

In realtà mi sto chiedendo se il problema non sia tanto la crisi in quanto tale ma proprio loro: i “protettori”. Quelli che escono dalle università e diventano subito top manager nell'azienda del papi (no, non il Presidente del Consiglio), oppure quelli che diventano dirigenti senza mai essere passati per la vera “anima” della fabbrica, cioè la catena di montaggio.
In questo periodo mi capita spesso di parlare con gli operai, molti dei quali in cassa integrazione o in altre situazioni simili e spesso mi chiedo cosa potrebbe succedere nel caso in cui – per incanto – quelli che una volta si chiamavano “padroni” venissero buttati fuori dalle fabbriche – e quindi dal processo capitalistico-produttivo – che verrebbero così gestite da chi veramente porta avanti il buon nome del signor padrone: gli operai. Sarebbe l'instaurazione di una sorta di dittatura del proletariato teorizzata da Karl Marx all'interno della fabbrica, in pratica.

Non credo di dire niente di così nuovo e sconvolgente, considerando anche che un qualcosa di molto simile è stato teorizzato ed è avvenuto, in varie fasi del più o meno recente passato, sia nel nostro paese che in altre parti del mondo, in particolare – almeno è stata l'esperienza più significativa – in Argentina.

Antonio Gramsci scriveva, ormai moltissimi anni fa, su Ordine Nuovo:
«(...) questo nuovo governo proletario è la dittatura del proletariato industriale e dei contadini poveri, che deve essere lo strumento della soppressione sistematica delle classi sfruttatrici e della loro espropriazione. Il tipo di stato proletario non è la falsa democrazia borghese, forma ipocrita della dominazione oligarchica finanziaria, ma la democrazia proletaria che realizzerà la libertà delle masse lavoratrici; non il parlamentarismo, ma l'autogoverno delle masse attraverso i propri organi elettivi; non la burocrazia di carriera, ma organi amministrativi creati dalle masse stesse, con la partecipazione reale delle masse all'amministrazione del paese e all'opera socialista di costruzione. La forma concreta dello Stato proletario è il potere dei consigli o di organizzazioni consimili»
In questi nuovi organismi (detti Consigli di Fabbrica):
«L'operaio, entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società, allo stesso modo che il cittadino entra a far parte dello stato democratico parlamentare.»
Questa teorizzazione veniva a Gramsci – che lo scriveva intorno al 1920 – dalla sua attenzione al mondo ed alle istanze anarchiche, che definivano tali strutture in modo che la figura dell'imprenditore – e la sua utilità sociale, dunque – divenisse completamente inutile. Formularono infatti un tipo di organizzazione orizzontale, senza servi né padroni (fosse stato diversamente non sarebbero stati anarchici, d'altronde) in cui ogni reparto sceglieva un commissario – scelto tra gli operai stessi – il cui compito era quello di esaminare il ciclo di produzione, divenendo così il referente sia verso gli altri reparti – e quindi verso la fabbrica tutta – sia verso il reparto stesso. Pur sembrandolo non era una forma di controllo del commissario sui suoi uomini, ma un controllo degli uomini sul loro commissario. Oltre a ciò, i commissari avevano anche il compito di nominare i consigli di fabbrica ed ovviamente – come tipico della cultura anarchica – il loro incarico poteva essere ridiscusso in qualsiasi momento.

Abbiamo detto che questo tipo di organizzazione rende inutile la presenza dell'imprenditore, il rovescio della medaglia, però, è che per riuscire al meglio in un'organizzazione che deve comunque essere perfetta ed agire senza scricchiolii vari, bisogna che il personale sia formato da persone con elevate capacità tecniche, in grado di coprire e mandare avanti tutto il ciclo di produzione, dalla ricerca delle materie prime per la lavorazione alla commercializzazione del prodotto finito, passando per la tenuta dei conti e dei rapporti con fornitori e clienti. Per applicarlo alla situazione attuale del nostro paese, dunque, ci sarebbe da lavorare parecchio prima di poterne gettare le basi. Ma questa è un'altra storia...

In realtà quel che per ora ho trattato in chiave abbastanza teorica, vede una sua forte applicazione pratica – sostanzialmente ben riuscita – in Argentina, dove l'occupazione delle fabbriche è iniziata intorno al 2001. Quando parlano di “occupazione delle fabbriche” gli argentini non scherzano, non si limitano a presidi davanti agli stabilimenti o a salire su tetti e gru (come nei casi nostrani della Ispra e dell'Innse, quest'ultimo finito positivamente per gli operai, tra l'altro). Quando gli argentini decidiono di occupare una fabbrica ne prendono pieno possesso, come è stato alla Zanon – uno degli esempi più riusciti, come potrete leggere dall'approfondimento che torvate in chiusura di post – alla Bruckman od in tante altre aziende. Le occupazioni in quel periodo – siamo nel pieno della crisi economica – riguardano per lo più piccole aziende in corso di fallimento con in media 38 operai, con tecnologie obsolete e spesso in cattiva condizione per la mancata manutenzione. Non so voi, ma io in queste pochissime righe noto delle forti analogie con la situazione nostrana.

Una volta presa “fisicamente” la fabbrica, bisognava iniziare a fare i conti con i problemi legati alla produzione (approvvigionamento, mancanza di credito, problema manutenzione macchinari et similia), dopodiché si passava ai problemi legati alla commercializzazione. Per far fronte a questi problemi, gli operai-imprenditori trovarono due soluzioni: la socializzazione della fabbrica e l'amministrazione giudiziaria. Con la prima si “democratizzava” il processo decisionale all'interno della fabbrica tramite lo strumento di democratizzazione per antonomasia: l'assemblea, arrivando così a quella struttura organizzativa orizzontale teorizzata dagli anarchici di cui dicevamo precedentemente. Ciò in pratica altro non fa che ricalcare il modus operandi dei Consigli di Fabbrica teorizzati da Gramsci, con la differenza che nel caso argentino spesso si procedeva anche al sequestro dei dirigenti (cosa che non farebbe poi così tanto male neanche in Italia, così, tanto per far capire ai quadri come si vive sotto il giogo del ricatto costante da loro perpetrato). L'amministrazione giudiziaria viene utilizzata proprio per questo, per allontanare – sia fisicamente che in termini di potere decisionale – i dirigenti dalla fabbrica, anche se costituisce solo il primo passo della nuova politica operaistico-imprenditoriale (permetteva di non interrompere la produzione, innanzitutto).

L'utilità di lasciare la fabbrica nelle mani degli operai credo sia evidente: chi meglio di un operaio sa qual'è il miglior modo di portare avanti il proprio lavoro? Certo, come già evidenziato a) in Argentina c'è stato un regime di amministrazione giudiziaria, e quindi una forma di parziale “statalizzazione” di quelle esperienze e b) c'è bisogno per questo di personale decisamente capace e qualificato, ma con un maggior investimento dello Stato – sia in termini “ideologici” cioè in termini di peso che il lavoro ha nell'interesse del governo sia in termini meramente economici, magari con la creazione di leggi ad hoc – credo politiche di questo tipo possano essere tranquillamente portate avanti. D'altronde l'Argentina è lì a testimoniarcelo...
Nel nostro paese poi, un qualcosa di questo tipo potrebbe anche eliminare, o quantomeno limitare, quel mezzo genocidio fatto di gente che la mattina va a lavorare ma che – perlopiù per i tagli che i padroni fanno per diminuire i costi di gestione – non torna più a casa. Perché è scontato dire che se un operaio lavora all'interno della fabbrica ha tutto l'interesse a che in quella fabbrica si rispetti anche la più stupida norma sulla sicurezza. A meno che non sia un pazzo od abbia interessi diversi, naturalmente...

Il modello di fabbrica ivi descritto, in ultima analisi, potrebbe indurci a considerare che, a volerlo fare, una risposta al fallimentare modello capitalista in cui abbiamo vissuto fino ad oggi (e che ci ha portato al sistema ingiusto nel quale viviamo) c'è. Basta volerlo.


Approfondimenti:

Maria Claudia Falcone

Ieri sera, aspettando la mezzanotte, ho guardato un film che in qualche modo mi ha toccato più di quanto potessi immaginare. Si intitola "La notte delle matite spezzate" e mi ha fatto pensare molto al fatto che della storia dei desaparecidos argentini si parla molto, ma se ne parla sempre come "desaparecidos", come insieme. Non si parla mai, invece, di chi erano quei desaparecidos. Quali erano i loro nomi, i loro sogni, cosa facevano e quant'altro. Per questo, da questo momento, questo blog inizia una sua "rubrica speciale" su queste persone (sperando di riuscire a trovare quanto più materiale possibile). Inizio con lei, Maria Claudia Falcone, considerata il simbolo dei desaparecidos, un pò l'Anna Frank della dittatura argentina.


Maria Claudia Falcone nasce il 16 Agosto 1960 all'Istituto Medico Platense nel parco de La Plata, Buenos Aires, Argentina. Suo padre Jorge Ademar Falcone fu sottosegretario alla Salute Pubblica (1947-1950); sindaco di La Plata (1949-1950) e senatore provinciale (1950-1952) durante il governo di Juan Domingo Perón. Fu arrestato e condannato a morte per aver partecipato alla Revolución Libertadora del 1956, condanna poi evitata per amnistia.

La passione politica doveva essere molto forte in casa Falcone. Perché anche Claudia, come il padre, se ne interessa. Quando arriva al “Colegio de Bellas Artes” si iscrive all'UES (l'Unión Estudiantes Secundarios, l'Unione degli Studenti Superiori) e ne diventa ben presto una leader. Perché Claudia non è solamente la dirigente di un gruppo studentesco. Claudia è convintamente peronista e fa parte del movimento dei Montoneros, il gruppo partigiano – di ispirazione peronista – che in quegli anni fronteggia la dittatura militare argentina ed i gruppi paramilitari di destra sorti in quegli anni espressione armata della dittatura.

Il suo impegno politico – come molti giovani in tutto il mondo in quel periodo – non si limita solo a parlare alle assemblee studentesche. Attraverso i volantini, le scritte sui muri, le petizioni, attraverso l'impegno sociale profuso nei villaggi e nelle aree degradate di La Plata tenta di combattere la sua guerra contro le ingiustizie e contro il regime terrorista e criminale di Jorge Videla, arrivato al potere con un colpo di stato nel 1976.
I giovani argentini in quegli anni erano molto interessati alla politica, e molti di loro – come nel caso di Claudia – la praticavano quotidianamente, che fossero peronisti o appartenessero alla gioventù guevarista avevano tutti un unico, grande, sogno comune: una vita migliore, per tutti.

Nell'inverno del 1975 il movimento studentesco lottava per l'ottenimento di una tariffa ridotta sul biglietto per l'accesso ai mezzi pubblici, il Boleto Estudiantil Secondario, che esisteva già per legge provinciale, ma a La Plata ancora non era stato introdotto. La loro battaglia si concluse il 13 settembre, con una marcia che portò circa 3000 studenti di La Plata sotto il Ministero dei Lavori Pubblici. Neanche la dura repressione poliziesca potè nulla contro la forza di questi giovani. Claudia, naturalmente, fu una delle più attive nell'ottenimento del BES, nonostante non ne avesse alcun bisogno (abitava vicino alla scuola che frequentava). Ma l'idea di combattere per l'ottenimento di un diritto che migliorasse la vita di tutti è uno dei pensieri tipici di persone idealiste come Claudia e molti di quei ragazzi.

In quelle manifestazioni, però, succede qualcosa. Claudia, Panchito, Clara, Pablo, Oracio, Daniel vengono fotografati dalle patotas, le squadracce della polizia politica.

Per loro tutto cambia il 24 marzo del 1976, quando con il golpe contro Isabelita Perón (terza moglie di Juan Domingo) Videla e i suoi prendono il potere, instaurando il “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. Un nome come un altro per definire i rastrellamenti ed il genocidio di 30.000 persone avvenuto dal 1976 al 1981. Perché Claudia, Clara, Pablo e gli altri sono solo alcuni dei tristemente noti desaparecidos argentini, quegli uomini, donne e giovani (soprattutto) fatti sparire dal regime solo perché non abbassarono la testa contro il Potere militare.

Claudia sparì – insieme ai suoi compagni – alle 00:30 del 16 settembre 1976 – la “noche de los Lápices” (in italiano “la notte delle matite spezzate”) - quando i militari della Tripla A (l'Alianza Anticomunista Argentina fondata da José López Rega, segretario di fiducia di Juan Domingo Perón) rapirono lei e Maria Clara Ciochini, 18enne dirigente UES di Bahía Blanca che viveva in clandestinità. La Tripla A era un vero e proprio squadrone della morte, braccio militare del regime all'interno della Guerra Sucia, la guerra sporca combattuta in quegli anni nel paese. Claudia aveva compiuto da un mese esatto 16 anni. Solo 16 anni.

Il verbo spagnolo desararecer, come l'italiano “sparire”, è un verbo intransitivo; desaparecidos è un participio intransitivo, usato con il significato di “chi è stato fatto sparire”. Che è proprio quel che successe ai 30.000 argentini.

Claudia e gli altri ragazzi furono portati al “Pozo de Arana”, il campo di concentramento di La Plata e diretto dalla Delegación de Cuatrerismo de Arana, dipendente dalla Comisaría 5.
Definire come “l'inferno sulla terra” quel che subirono (le ragazze furono violentate; i ragazzi subivano scosse elettriche; unghie strappate; colpi su tutto il corpo e la terribile picana elettrica; un pungolo utilizzato dai gauchos argentini negli anni 30 per controllare il bestiame e facilmente riadattabile a strumento di tortura; quasi tutti erano legati con le mani dietro la schiena, con la corda che passava dietro al collo praticamente nudi). Dal “Pozo” - in cui rimangono 7 giorni – Claudia e gli altri iniziarono un tour all'inferno passando per il “Pozo de Banfield” - o Brigada de Investigaciones de Banfield – dove rimasero tre mesi in condizioni ancor più disumane rispetto a quelle che avevano vissuto ad Arana. Talvolta, però, con quella grinta che spesso il popolo argentino tira fuori nei momenti più neri della propria storia (personale e collettiva, evidentemente) Claudia intonava le canzoni dei Sui Generis – un noto duo rock argentino di quegli anni – tra cui “Rasguña las piedras” (“graffia la pietra”, ndr), canzone che richiama il senso di prigionia e desaparición in cui vivevano.

Negli stessi momenti in cui i giovani, le donne, gli uomini che diverranno famosi col nome di desaparecidos venivano torturati, fuori dai campi di concentramento altre donne come la madre di Claudia iniziavano a riunirsi, a girare i vari commissariati, a chiedere che fine avessero fatto i loro figli (o comunque i loro cari). Claudia non era considerata una detenuta (tutti i desaparecidos infatti erano detenuti illegali), per cui la sua carcerazione non risultava in alcun registro. Perché semplicemente, per la legge infame in vigore durante la dittatura, Claudia era desaparecida. Era semplicemente scomparsa. Non poteva essere stata la polizia a prenderla, perché la polizia agiva nel rispetto della legge. Sicuramente a rapirla erano stati i gruppi eversivi, i suoi stessi compagni. O almeno questo è quel che i militari avevano avuto l'ordine di dire alle madri dei desaparecidos, quelle stesse madri che si riuniscono ogni giovedì sera nella piazza principale di Buenos Aires, Plaza de Mayo – dalla quale prendono il nome – per chiedere la reaparición con vida de sus hijos.
Perché i militari in vita hanno prelevato quei ragazzi ed in vita le madres vogliono averli indietro. Perché – come dice Zulù, il frontman della 99 Posse per presentare una canzone dedicata alle Madres de Plaza de Mayo – se gli vogliono restituire un mucchietto di ossa allora devono anche tirare fuori un assassino. E loro (le madres) lo vogliono vedere in galera.

Secondo alcuni testimoni – spesso gli ex carcerieri – molti desaparecidos furono sedati e lanciati nel Rio de la Plata nei famosi vuelos de la muerte, quegli stessi voli che sono stati oggetto di scherno del nostro premier-giullare un po' di tempo fa. Altri ancora furono uccisi alla scuola di addestramento della marina militare ESMA a Buenos Aires (sicuramente il campo di detenzione più celebre, per quanto l'uso di questo termine possa apparire macabro...). Altri ancora venivano gettati nell'Atlantico col ventre squarciato da una coltellata affinché i loro corpi non tornassero più a galla.

Claudia viene giustiziata con un colpo di pistola alla nuca nei sotterranei di Banfield tra l'1 ed il 15 Gennaio 1977. Per la legge argentina risulta ancora desaparecida.

La mano anonima
A mi hija María Claudia, militante de la UES secuestrada durante “La noche de lo lápices”

Mano anónima aleve y asesina,
con sólo tocarteha intenta
domacular tu pureza,
tu inocencia,
por cierto, fracasando.
Tu grandeza de almaes infinita.
Tu generosidad, ilimitada.
Virtudes talesson inmaculables.
La mano anónima, aleve y asesina,
no ha podido mancharte
por mas que lo intentara.
Y esa pureza
constituye tu triunfo.
TU VICTORIA y su derrota.
Has vencido, hija mía,
y tu victoria ha sido apocalíptica.
Aunque tu estés ausente todavía
yo te lloro y te admiro al mismo tiempo.
[Juan Ademar Falcone]


Buon Natale, Claudia.

In amore e guerra tutto è permesso

Tra le due notizie che arrivano da Gaza non so quale delle due sia più raccapricciante. Il vecchio proverbio dice che «in amore e in guerra tutto è permesso». Ma procediamo per gradi.

Durante la prima Intifada – 1987 – si diceva che gli israeliani avessero una strana “usanza” di guerra: restituire i cadaveri dei giovani palestinesi, dopo 5 giorni, con una cucitura che andava dall'addome alla gola. Noi italiani abbiamo avuto modo di vedere questa pratica sul corpo di Stefano Cucchi, il giovane 31enne arrestato, torturato ed ucciso dalla polizia nell'ottobre scorso. Perché questa strana operazione? Perché gli israeliani avevano bisogno di “pezzi di ricambio” (cornee, ossa, pelle etc...) per i loro ospedali, in particolare quelli militari dove la pelle veniva riutilizzata per curare le ustioni dei militari della Stella di David.

«Dopo il prelievo delle cornee incollavamo le palpebre dei cadaveri, ma questo non veniva fatto per quei cadaveri per i quali sapevamo i familiari avrebbero aperto le palpebre». È la confessione-shock di Jehuda Hiss, dottore presso l'istituto di medicina legale Abu Kabir al quotidiano svedese Aftonbladet. Modus operandi poi confermato anche da un comunicato stampa dell'esercito israeliano, che però si era lavato la coscienza dicendo che questa era una consuetudine non più in voga da una decina d'anni. Evidentemente anche in guerra esistono le mode...
Quando esce lo scandalo c'è un mezzo incidente diplomatico tra Israele e Svezia, con il premier Netanyahu che pretese una ferma condanna per l'articolo che svelava procedure non degne di chi professa la sua appartenenza alla razza umana. Condanna che non arrivò perché il premier svedese fece notare una certa “postilla” nella carta costituzionale svedese: la chiamano libertà di stampa. Se un articolo simile fosse uscito nel nostro paese filo-sionista (ed in questo destra e sinistra, come in molte altre cose, vanno a braccetto) come minimo il giornalista che se ne sarebbe occupato sarebbe stato cacciato con disonore dal giornale per il quale lavorava. Oltre all'accusa di essere comunista, che è un epiteto ormai buono per tutte le stagioni.

Nel 2004 Hiss viene rimosso dall'incarico a causa di irregolarità nelle autopsie su denuncia di familiari di soldati israeliani e palestinesi. Il Procuratore Generale di Israele fece cadere le accuse ed oggi Hiss è ancora al suo posto, ufficiosamente a continuare la pratica di “ricercatore di ricambi autorizzato”. Tutto il mondo è paese, evidentemente.

In realtà c'è una cosa che non capisco: non sarà pericoloso utilizzare organi contaminati da impiantare sugli israeliani?

Nei giorni scorsi è stato presentato a Roma uno studio – realizzato dai professori Paola Manduca dell'università di Genova, Mario Barbieri del CNR e Maurzio Barbieri de “La Sapienza” - su tracce di elementi chimici tossici rilevate sui crateri delle bombe israeliane nel 2006 e durante l'operazione Piombo Fuso (un nome una garanzia) tra il 2008 ed il 2009. Quel che ne è venuto fuori è sconvolgente. Nei crateri di Beit Hanoun, Jabalya e Tufah ci sono residui di elementi quali il Tungsteno ed il Mercurio (che hanno effetti tossici e cancerogeni); Molibdeno (tossico per gli spermatozoi con effetti sulla spermatogenesi); Cadmio (cancerogeno); Cobalto (che ha effetti mutageni e può causare la rottura della catena del dna). La videoconferenza Roma-Gaza dove si sono illustrati questi tremendi risultati, è stata seguita dai principali organi del circuito mainstream di tutto il mondo, tranne che da quelli italiani (c'erano solo pochissimi giornalisti della rete antagonista), per i quali ormai il metodo di nascondere verità “scomode” - essendo noi un paese “sionist-friendly” - si è allargato ormai anche su scala nazionale.

Nei crateri – ovviamente – si riscontrava anche la presenza di uno dei più devastanti agenti chimici che l'uomo potesse inventare: quel fosforo bianco che, utilizzato durante la guerra in Vietnam (1962-1975) continua ancora oggi, a distanza di più di trent'anni, a far nascere bambini con forti deformazioni e malattie genetiche. Ma d'altronde si sa, “in amore e guerra tutto è permesso”. Anche il genocidio di bambini non ancora nati.

Soppressione volontaria di pianeta.


Più passa il tempo, più vedo i “grandi” della Terra riunirsi in queste mega-riunioni e più mi convinco che prima o poi come definizione di “vertice internazionale” avremo qualcosa di molto simile a: leggi alla voce bluff.
Perché quel che è successo nei giorni scorsi a Copenhagen (o No-hope-naghen, come è stata ribattezzata dagli attivisti dei movimenti di contestazione) non si può considerare nient'altro che per quel che è stato realmente: una riunione dei soliti emissari dei poteri forti dell'economia in politica, i quali ogni tanto hanno questo vizietto di riunirsi in una località a scelta per dare l'idea che si stiano occupando della salvaguardia del pianeta e dell'umanità tutta. A parte che ancora non ho capito per quale motivo si chiamino vertici (le disquisizioni linguistiche le lasciamo però ad altri momenti...), è stata talmente evidente l'inutilità di questa conferenza – termine che mi sembra più appropriato - che i grandi signori del mondo se ne sono scappati nel cuore della notte. Così, come fanno i mariuoli da quattro soldi.

«Nessun impegno vincolante». Potrebbe essere questo il sottotitolo di una eventuale “No-hope-naghen story”. Perché questo è stato il modus operandi nella capitale danese, pieno di “ci impegneremo”,“controlleremo” ed altre tante care belle promesse. Come al solito. D'altronde senza fare promesse da non mantenere non sarebbe stato un vero vertice internazionale.

Mentre i vari Obama, Sarkozy, Wen Jiabao si impegnavano a non impegnarsi, c'era chi – come Ian Fry – non faceva mistero delle lacrime versate al vertice. Perché? Ian Fry è il rappresentante delle isole Tuvalu, destinate a scomparire a causa del surriscaldamento del globo (la popolazione ha per questo chiesto ospitalità alla Nuova Zelanda...) ed è stato probabilmente tra le voci più dure e dissidenti dei giorni scorsi: «Sono sei mesi che abbiamo presentato questo emendamento ed adesso ci viene detto che non c'è abbastanza tempo per discuterlo. Non è possibile che un pugno di senatori (americani, ndr) tenga in mano il destino dell'umanità» dice.

Oltre a Fry, a fare scalpore è stata sicuramente l'area sudamericana. Non tutti, ovviamente:
non certo quel Presidente Lula che pur di continuare a produrre biocarburante firmerebbe qualunque cosa; saranno sicuramente ricordati – invece - i due “nemici dell'impero” per antonomasia: Hugo Chávez Frìas ed Evo Morales il quale, vestito nell'abito tradizionale delle feste degli Indios, ha avuto forse l'unica idea degna di nota di questi giorni: istituire, nell'ambito delle Nazioni Unite, un tribunale ambientale per i crimini contro la Pachamama (la Madre Terra).
Il Presidente venezuelano invece ci ha tenuto a fare il suo “show antimperialista” , denunciando come l'organizzazione poco limpida e non democratica – con documenti che venivano fatti visionare solo ad alcuni dei partecipanti – sia paradigma di come viene amministrata la politica internazionale.

Non c'è stato – invece – l'Obama dei tempi migliori. Il presidente americano – che ormai persegue l'unica politica dell'”obaganda” e della difesa di lobby e potentati vari – si è limitato ad una stantia retorica che fa molto Apocalipse Now (“qui si può o prendere una decisione storica per i nostri figli e nipoti o prendere tempo” è stata l'unica frase memorabile del suo intervento di “ben” 8 minuti...). Il bluff dell'uomo che doveva cambiare il mondo continua. Se non fosse per l'incalcolabile numero di morti che ha fatto inizierei quasi a rimpiangere George W. Bush.
Non contento, il Premio (ig)Nobel per la Pace ha anche definito insufficiente ma comunque un passo avanti straordinario - e qui evito ogni commento – l'accordo. A questo punto sorge però un dubbio: quando dice “insufficiente” sappiamo che si riferisce al destino del nostro pianeta. Non capisco però se con “passo avanti straordinario” si riferisca alla salute del pianeta o ai guadagni delle grandi imprese inquinanti (Shell, Exxon, Monsanto, ecc. cioè le vere vincitrici del vertice).
Ed a proposito di “nomi e cognomi” di chi ci guadagna, bisogna evidenziare come in terra danese si sia anche affrontato il problema delle energie pulite. Peccato che lo si sia affrontato nel verso sbagliato, definendo come “puliti” gli agrocarburanti, cioè una delle cause della crisi alimentare degli ultimi anni e – insieme alla deforestazione – responsabile di oltre il 17% delle emissioni di gas serra (stando all'IPCCC) nonché al terzo posto tra le attività umane responsabili del cambiamento climatico. È stata introdotta in questa lista di “energie amiche dell'ambiente” anche l'energia nucleare, ma solo per il futuro (non so voi ma io la leggo come una “leggera” presa per l'ecologico deretano questa...).

In tutto questo l'Italia si faceva riconoscere, ed anche in questo caso non c'è niente di nuovo: se non facciamo una figura meschina ad ogni vertice internazionale non siamo contenti. Innanzitutto abbiamo bloccato gli accordi, mossa abbastanza prevedibile per un paese che, negli stessi momenti della riunione danese, deliberava sulla creazione di una centrale elettrica a carbone da 1320 megawatt a Saline Joniche in Calabria e che ha raggiunto il colmo quando la nostra Ministra per l'Ambiente – sig.ra Stefania Prestigiacomo – ha ben pensato di mollare i lavori di Copenaghen per tornare in patria e “battezzare” la nuova bicicletta elettrica prodotta dalla Ducati. Quando si è servitori della periferia dell'impero, d'altronde, questi sono i politici che capitano sottomano.

Il non accordo è stato un «patto suicida di distruzione, per mantenere la dipendenza economica da un pugno di Paesi». È stato il grido, disperato, di Lumumba Stanislas Dia-ping, capo negoziatore sudanese che ha guidato il G77 (il blocco dei 130 paesi tra i più poveri del pianeta). Alcuni esponenti del c.d. Primo Mondo hanno storto il naso, hanno parlato di paragone disgustoso quando lo stesso Lumumba ha paragonato i signori che sedevano a quei tavoli e che stavano decretando la morte per surriscaldamento del pianeta ai gerarchi nazisti che idearono i forni crematori per gli ebrei. Ma è risaputo che i paesi ricchi soffrano di un certo imborghesimento e non apprezzino certo chi li critica.

Dicevamo che ogni buon vertice internazionale ha dei “personaggi” che si ripetono, nonostante trascorra il tempo e cambi l'ambientazione. Un personaggio della letteratura classica dei vertici internazionali è l'arrestato. A Copenaghen ce ne sono stati 3, attivisti di Greenpeace, i quali si sono macchiati del reato di lesa maestà: hanno infatti aperto alcuni striscioni – sui quali si potevano leggere slogan come “I politicanti discutono, i politici cambiano le cose” che è stato usato da Greenpeace per dare il benvenuto nel Regno di Danimarca – al ricevimento della Regina. Il giudice li ha condannati a tre settimane di galera. Il vero crimine, però, non lo commettevano i tre attivisti. Il Crimine, quello con la “c” maiuscola appunto, lo stavano commettendo i presidenti ed i funzionari di stato e delle istituzioni sovranazionali, i quali si sono resi correi, assieme alle multinazionali ed alle lobby inquinanti del più grande crimine della storia dell'umanità: soppressione volontaria di pianeta.


Approfondimenti:

Cosa possiamo fare:
Possiamo inviare una e-mail a Barack Obama, Kevin Rudd (Primo Ministro australiano) e ad José Manuel Barroso (Presidente della Commissione Europea) come segno di protesta per il fallimento del vertice [per farlo http://www.greenpeace.org/international/campaigns/climate-change/changethefuture]

Gambizzazioni in diretta tv

Guerra civile fredda, strategia della tensione: sembra che ci godano, i politici e i pennivendoli di destra, a gridare al ritorno al clima che si respirava negli anni '70. D'altronde è normale che sia così: quando ti allei con i leghisti del ce l'ho duro, a fare la parte del ce l'ho moscio non ci stai. Vecchie reminiscenze machiste.

Pur sforzandomi non riesco proprio a capire. Non capisco come si possa credere a tutte quelle dabbenaggini – ed uso una terminologia “diplomatica”- che abbiamo potuto vedere a reti quasi unificate nei giorni dell'attentato al re. Non voglio rientrare nel merito se l'aggressione sia davvero accidentale o sia stata premeditata e studiata a tavolino per ricompattare e far risalire nei consensi il premier e la sua cricca (credo di averne parlato ampiamente in precedenti articoli...), ma mi chiedo come il popolo che si definisce di destra possa credere a quel che abbiamo visto. Per un labbro tagliato (tra l'altro: si diceva fosse il labbro inferiore ma il cerotto era sul labbro superiore. Ma vabbé, sono dettagli direbbe qualcuno) 5 giorni di ricovero ospedaliero? Non vi sembra che ci abbiano un po' “campato” su questa storia?
Indipendentemente da quale sia il simbolo che ognuno di noi vota sulle schede elettorali: esiste qualcuno che veramente è così credulone da essersi bevuto l'emergenza degna di una puntata di E.R.? Per un labbro spaccato 5 giorni d'ospedale. Se gli sparavano che succedeva, dovevamo andare tutti in pellegrinaggio a Lourdes a chiedere un miracolo? Eppure io qualche elettore di destra intelligente lo conosco anche...


C'è la stessa aria degli anni '70, dicevamo. Non so se l'aria sia la stessa perché a quel tempo non ero nato, ma so che il clima che quegli stessi che parlano di “abbassare i toni” stanno infuocando non mi lascia tranquillo. Per due motivi innanzitutto: a) checché ne dicano gli organi di stampa filo-governativi gli operai e i proletari in genere (termine caduto in prescrizione) continuano a non sapere come portare il pane in tavola mentre leggono dei soliti aiutini tra potenti, e sappiamo cosa vuol potrebbe succedere se la classe operaia tornasse ad avere anche la forza per incazzarsi; b) di matti – non solo quelli psicolabili – è pieno il paese. Per cui non mi meraviglierei se qualcuno decidesse di rispondere all'aggressione a Berlusconi. Ed è proprio questo che mi fa molta paura.

Gli anni '70 non li ho vissuti. Però ho – purtroppo – vissuto praticamente tutta l'epopea berlusconiana, e da che ho memoria si è sempre parlato di un complotto ai suoi danni da parte di “una certa” magistratura, di “un certo” giornalismo e via discorrendo, e nella logica del complotto sta anche quello di partire dal presupposto che se c'è un complotto c'è anche qualcuno che lo sta ordendo no? Bene: quei nomi sono stati fatti pochi giorni fa in quella seduta parlamentare dalla chiara impronta gandhiana da Fabrizio Cicchitto (n° tessera P2 2232), uno che trenta anni fa si batteva contro il sistema ma che, come molti, ha capito che mangiare nel piatto del sistema poi così schifo non fa.



«(...)quasi voglia tramutare lo scontro politico durissimo in atto in guerra civile fredda e poi questa in qualcosa di più drammatico».
Questa frase non la capisco. O meglio: non ne capisco le intenzioni, perché non so se sia un'opinione del “muratorino romano” Cicchitto o se sia un'esortazione affinché qualcuno si spinga davvero più in là, dando la possibilità ai tanti guitti che infestano l'istituzione parlamentare di portare a termine il loro piano (magari – visti i soggetti interessati – quello di rinascita democratica di Gelli).

Ma il punto che mi spinge a scrivere – di nuovo – di queste faccende è un altro. E torniamo di nuovo ai tanto acclamati anni '70.
In quegli anni c'era, da parte delle Brigate Rosse, un'usanza un po' particolare: le gambizzazioni. È capitato a tante persone, in quegli anni, di essere sparati alle gambe (questa era la procedura delle gambizzazioni, infatti): ne fece le spese, tra gli altri, Indro Montanelli, che sappiamo essere tra i maestri di Marco Travaglio, oggi nella bufera come “mandante morale” dell'aggressione di Tartaglia. Oppure capitava che qualcuno, per affiliarsi alle Br, decidesse di uccidere un giornalista scomodo come Walter Tobagi, giornalista che fin da subito si occupò – dalle pagine del Corriere della Sera – del fenomeno terrorista che investì quegli anni.

Il trattamento riservato ai giornalisti in quel periodo è lo stesso che oggi viene riservato ai giornalisti “anti-regime” Marco Travaglio e Michele Santoro: si diceva – e si dice – che sono causa di tutti i mali, che sono servi al servizio di questo o quello e così via.
Non mi interessa qui discettare sull'obiettività o meno del lavoro dei due, basti in questa sede ribadire che non sono uno dei massimi estimatori del primo e considero poco obiettivo il giornalismo del secondo (ma essendo dell'idea che il giornalismo non possa essere obiettivo non gliene faccio certo una colpa).

Quel che mi interessa è che le parole del piduista Cicchitto – non me ne voglia nessuno, ma il termine “onorevole” proprio non riesco ad associarlo al suddetto – assomigliano tanto ad una gambizzazione. Gambizzazione mediatica, naturalmente.
Dicendo che Travaglio, Santoro, Di Pietro hanno armato la mano di un signore in cura da circa 10 anni per disturbi psichici – peraltro sapendo bene di dire il falso – non si fa altro che riproporre quel concetto di “nemico da abbattere” che trent'anni fa portò il paese in una guerra in cui ragazzi ammazzavano altri ragazzi per far dominare la loro “ideologia”; in cui si dava dimostrazione di “forza” sparando alle gambe di magistrati – come il giudice Alessandrini – o di giornalisti. Oggi si fa la stessa cosa senza spargimento di sangue. Almeno per ora...

Oggi si dice che chi denuncia le malefatte del sistema di potere politico ed economico vuole ribaltare la democrazia; si dice che chi mostra alla gente “la verità dei fatti” è uno sporco terrorista che vuole destabilizzare lo Stato. E questo è logico: è la parte marcia del Potere che si difende.

Però mi chiedo come il popolo di destra possa credere ad una storia simile. Mi stupisco in particolare di quella parte della destra che una volta – neanche tanti anni fa – aveva in bocca parole come “legalità”, e si ergeva in battaglie a sua difesa. Mi chiedo come possano aver messo da parte il forte senso dello Stato e del rispetto delle leggi che dicevano di avere. Mi chiedo come abbiano potuto abdicare all'intelligenza per accettare tutto questo...


Ma ora è il momento della pubblicità.

Aggressione alla sbarra

Sarà che sono uno che dubita "a prescindere", ma - come potete leggere scorrendo il blog - fin da subito ho avuto qualche remora a fidarmi della verità "ufficiale" sull'aggressione a Berlusconi. Stasera trovo delle foto, pubblicate su quel "covo di terroristi" del sito di Repubblica, che confermano alcune mie domande:

Reperto n°1
Domanda n°1: Cos'è quell'oggetto non identificato (che ho cerchiato in rosso...) nella mano di una delle guardie del corpo del premier? 


Reperto n°2

non so come siete abituati voi, ma io solitamente, quando mi sporco, difficilmente mi pulisco con quella che - più che un fazzoletto - ha l'aria di essere una di quelle buste nere per l'immondizia. Guardate poi la posizione delle mani: siamo sicuri che più che l'atto di "difendersi", il premier non si stia inserendo qualcosa in bocca (non so, magari qualcosa che ci porta al misterioso sanguinamento illustrato successivamente...)?

Reperto n°3
in questa foto, come potete facilmente notare, l'arcata dentale inferiore del premier - nonostante la lacerazione del labbro - è pulita, cioè priva di sangue...

Reperto n°3bis
mentre in questa foto possiamo vedere il lato destro della bocca - quello non colpito dalla statuetta quindi - decisamente insanguinato...Ci sarebbe anche la questione della "sparizione" della ferita sotto l'occhio sinistro, ma quella diamo per buono che sia stata pulita.


Continuano ad esserci sempre più cose che non tornano in questa faccenda. Più si va avanti e più si trovano "prove" del bluff governativo.


Meditate gente, meditate.

Berlusconi teorizza la Shock Emotivity?

“Per mestiere, dinanzi ad una verità ufficiale ho sempre cercato di vedere se non ce n'era una alternativa, nei conflitti ho sempre cercato di capire non solo le ragioni di una parte, ma anche quelle dell'altra.” [Tiziano Terzani].
Stamattina mi sono svegliato con questa frase in testa. Il riferimento, ovviamente, oggi è ancora al “caso” dell'aggressione a Silvio Berlusconi. Ecco, appunto. L'aggressione: siamo sicuri che ci sia stata davvero? O meglio: siamo sicuri che la ricostruzione che è stata fatta sia effettivamente quel che è successo? Ecco perché mi è venuta in mente quella frase di Terzani. Perché voglio controllare se in questa storia la verità ufficiale puzza. Ma andiamo con ordine.

Si dice che per avere una prova accertata servano almeno tre indizi. Io per ora ne ho solo due, quindi lavorerò su quelli:

1° prova: video aggressione. RaiNews24: dal 38° secondo possiamo vedere che il premier è inquadrato senza impedimenti, stringe mani, chiacchiera con i suoi sostenitori. Fa quel che fa di solito, insomma. Al minuto 1:44 – il momento esatto dell'aggressione – la camera si sposta, per poi tornare ad inquadrare il premier subito dopo. Non c'è, almeno in questo video dunque, la prova inconfutabile che Berlusconi venga colpito dalla riproduzione del Duomo. C'è poi un altro video – che non sono riuscito però a ritrovare – in cui si vede esclusivamente il momento dell'impatto tra un oggetto non meglio identificato (se ne scorge solo l'ombra) ed il volto del premier.
Peccato che da quell'angolazione sia l'unica ripresa effettuata. In nessuno dei due video, però, si ha una visualizzazione completa della scena. Quindi non abbiamo la certezza, noi che abbiamo visto tutto da casa, che effettivamente la ricostruzione fatta dalla stampa ufficiale sia quella veritiera.

...e continuo a chiedermi se non ci sia una verità alternativa. Ma proseguiamo.

2° prova: video aggressore (non sono riuscito a trovarlo su youtube, per cui linko quello da facebook): si vede chiaramente l'aggressore che scaglia la statuetta, ma io la statuetta arrivare in faccia al premier non la vedo...

Per cui cosa ci assicura che effettivamente l'aggressore sia Massimo Tartaglia e non qualcun'altro? Voglio dire: se dopo più di 40 anni hanno scoperto che a Dallas il giorno dell'omicidio di John Fitzgerald Kennedy c'era anche un altro potenziale assassino, cosa ci dice che nei coni di buio delle telecamere, non ci sia qualche altro “lanciatore occulto”?

Dulcis in fundo, oltre alle prove abbiamo anche la testimonianza diretta. Ecco appunto, la testimonianza diretta. Perché ce n'è una sola? È possibile che, in una piazza piena di adulatori del premier, non ci sia una persona che abbia fatto qualche ripresa, qualche foto con il proprio telefonino? Se così fosse sarebbe un caso più unico che raro no? Comunque: la testimonianza – inconfutabile – ci viene da Striscia la Notizia, che intervista due signori, fantomatici fratelli, che non vogliono però farsi riprendere in faccia per non farsi pubblicità. Al che mi sorge un dubbio anche in questo caso: chi sono i signori? Sono magari esponenti del PdL (non so, magari votano Rifondazione per quel che ne sappiamo...) e non vogliono farsi riprendere per non far capire la bufala? Anche perché la loro testimonianza arriva il giorno dopo l'accaduto, quando cioè tutti hanno visto il video, che circola in rete, e tutti possono quindi ricostruire com'era vestito l'aggressore (cappello adidas, giaccone...quel che si vede nel video in pratica).
In psicologia cognitiva viene studiato un fenomeno che si chiama “falsa memoria”, e consiste nell'avere sì un ricordo di quel che accade – come può essere la materia del contendere che stiamo trattando in questo post – che però non è ciò che veramente si è visto, e quindi si è immagazzinato in memoria, ma deriva o da invenzione totale (tesi possibile), da ricordi parzialmente alterati (altra tesi possibile) o da aggregazione di varie memorie distinte che possono ingenerare, appunto, un falso ricordo (o falsa memoria che dir si voglia).
Con il materiale che abbiamo a disposizione – cioè riproduzioni parziali della scena – sono possibili tutti e tre questi “scenari”. Voglio dire: se messo davanti al video in questione, anch'io sarei in grado di dire com'era vestito Tartaglia. Di più no, ovviamente, perché dal video non si vede. Ma niente è stato chiesto in merito. Viene semplicemente chiesto un generico “siete certi che sia lui”. Il perché, quali prove inconfutabili abbiano per dirlo non ci viene detto. Così anch'io posso dire di essere certo che quell'uomo è l'aggressore, visto che è l'unico che vedo...Come facciano ad essere sicuri dei ruoli, mi chiedo, non viene chiesto perché non interessante (ricordiamoci che i due signori non possiamo identificarli...) o perché conviene non chiederlo? Come diceva Andreotti: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Non avendo però prove che i due signori mentano, diamo per buona la loro ricostruzione. Ed anche qui c'è qualcosa che non torna, e che è secondo me ben più grave dell'aggressione in sé.
Uno dei due fratelli, ad un certo punto, dice di aver informato un poliziotto che stava parlando al telefono il quale gli avrebbe risposto di chiamare il 113. Oltre a lui, ci viene detto, c'erano anche altri poliziotti ed alcuni carabinieri. Ora: che io sappia il compito di un esponente delle forze dell'ordine è – lo dice il nome stesso – assicurare l'ordine no? Per cui se io cittadino ti dico che c'è un pericolo, e tu tutore dell'ordine non intervieni non è reato? Perché se il tuo lavoro non lo fai cosa ci stai a fare lì? E soprattutto: perché devi essere pagato per non fare il tuo lavoro e startene beatamente al telefono? La risposta del poliziotto, poi, può configurarsi come una sorta di “abuso di potere” (visto che oltre al non intervento in situazione di pericolo c'è anche il dileggio all'onesto cittadino?). Oltre a lui c'erano altri poliziotti e carabinieri. Loro perché non sono intervenuti? Che non avessero interesse ad intervenire? O forse gli è stato ordinato di non intervenire?

Arrivati a questo punto, mi è d'obbligo citare Naomi Klein e la “teoria dello shock” così brillantemente descritta in Shock Economy. Cosa c'entra la Klein con questa storia? La teoria dello shock (economico) ci dice, in breve, che:
«per poter imporre un nuovo corso all'economia di uno stato smantellando il pre-esistente occorre uno "shock" talmente forte da creare una "tabula rasa" nella popolazione. Prima che la popolazione possa riprendersi dallo shock bisogna aver creato un nuovo sistema legislativo finalizzato al cambiamento delle politiche economiche, e soprattutto al mantenimento delle nuove politiche nel tempo. Politiche, ovviamente, in puro stile liberista: privatizzare, licenziare, liberalizzare il mercato.»
Vi dice niente questa definizione? Analizziamo quel che c'è scritto: lo shock, guardando anche a come i media stanno trattando la cosa, c'è. È evidente. A seguito di uno shock c'è un periodo in cui chi l'ha subito deve riprendersi (il periodo in cui, secondo la definizione, bisogna fare “tabula rasa”): in questo momento, infatti, sull'onda emotiva dell'aggressione, il governo sta per attuare una serie di leggi speciali che mineranno la nostra libertà. Prima fra tutte la libertà della rete, unico strumento d'informazione che non può essere imbrigliato dalla politica (né di destra né di sinistra, ovviamente). Sappiamo che la maggior parte delle persone si informano grazie alla televisione che, a reti unificate, oltre a parlare della quasi morte del premier (per una semplice fratturina neanche così evidente poi...), stanno dicendo che l'humus terroristico del XXI secolo fermenta proprio lì, in rete, dove orde di piccoli terroristi anti-premier crescono al grido di “taggati!” (che ci volete fare, ognuno c'ha l'urlo che si merita!). Sappiamo – oltre gli scherzi e le ironie – che il miglior momento che ha un governo per attuare leggi difficilmente digeribili dalla popolazione è proprio il momento in cui il popolo è emotivamente instabile, come l'isteria di questi giorni ci sta facendo vedere. È successo dopo l'11/9 negli Stati Uniti con il Patriot Act nel 2001, è successo con il pacchetto sicurezza qui in Italia, instaurato dopo l'omicidio Reggiani.

Più che di shock economy – non trattandosi di materie di quella natura – dunque, affermerei che il governo italiano sta creando una nuova teoria dello shock: la Shock Emotivity.

Aggressione con Duomo

Che noia questi italiani...
Capita che un signore di più di 70 anni venga colpito con un oggetto contundente da un 42enne con problemi psichici e già si parla di ritorno agli anni '70, si dice che in realtà quello squilibrato è armato dalla sinistra “terrorista” ed altre cazzate simili.
O meglio: a dirlo sono i soliti quattro pennivendoli di regime, i quali ovviamente obbediscono all'ordine di dare la colpa alla sinistra. Senza se e senza ma.


In realtà questa situazione mi fa ridere. Perché mi fa capire ancora una volta quanto la televisione di quel signore lì abbia lobotomizzato le nostre menti. I “cavalieri dell'Ave a Silvio” (Fede, al quale ieri sarà preso un mezzo infarto, Belpietro, Minzolini e compagnia lodante) dicono che è colpa dei leader della sinistra? Il patriottico popolo de' pecoroni fa sì con la testa. Come quei cagnolini che una volta si usava mettere come orpello nelle automobili.
C'è poi il solito intelliggentone che ha capito tutto per cui l'aggressione a Berlusconi è come l'omicidio del commissario Calabresi (leggasi Giampaolo Pansa sul CorSera o Sgarbi a Canale 5). Fossi nei familiari del commissario mi sentirei profondamente offeso.
Perché il governo Berlusconi – quindi non il singolo individuo – con le sue politiche ha mandato un sacco di gente in mezzo alla strada, permettendo agli amici di applicare politiche per cui oggi lavori e domani ti licenzio solo perché mi stai antipatico; permettendo che sui cantieri non si perseguano politiche di sicurezza e nel settore edile ci sia la più alta percentuale di morti al primo giorno di lavoro solo perché nei giorni in cui eri vivo lavoravi in nero sennò non ti pagavano, mentre i padroni, quelli che vengono in azienda a dirti come si fa il tuo lavoro senza mai averlo fatto continuano a guadagnare più e meglio di prima. Non so voi, ma per me queste leggi, o le non leggi che vengono fatte, come quella che permette ad un padrone di tenerci in pugno come novelli schiavi (oggi conosciuti come interinali), sono politiche di governi che pianificano omicidi.

Smetta di fare la vittima” sembra essere la dichiarazione – smentita – di Rosy Bindi. Se l'abbia detto davvero non lo so. Ma ha perfettamente ragione. Basta guardare la santificazione a reti unificate del premier che sta avvenendo su tutti i media nazionali. Non dico che l'aggressore abbia fatto bene, ma a forza di aizzare allo scontro una piazza già calda, è normale che a qualcuno venga in testa di passare oltre, di passare all'azione fisica.
Dovrei accodarmi al politicamente corretto e dire che mi dispiace perché “il matto” ha colpito l'istituzione? Beh, non aspettatevi che dica ciò perché non è vero. Non gioisco, ovviamente, per il livello di esasperazione a cui si sta portando questo paese. Ma non mi straccerò certo le vesti per quel che è successo ieri sera. Perché alla fin fine, ieri sera non è successo assolutamente niente.
Un signore ha aggredito un altro signore. E allora? Dov'è la notizia? So che in realtà la notizia c'è, ovviamente. Ma mi chiedo perché, visto quanto se ne sta parlando nel circuito mainstream, non si riservi lo stesso trattamento mediatico quando le aggressioni sono tra “comuni mortali”, tra i tanti “signor nessuno” che abitano questo paese.

Ieri sera, a caldo, mi incuriosì molto una fonte francese che sosteneva la bufala intorno all'aggressione. Non so se la cricca del premier possa arrivare a tali bassezze morali – non credo, ma non ci giurerei – ma se qualcuno aveva remore a credere al complotto intergalattico ai danni del premier con il quale veniamo ammorbati ad ogni possibilità, ne abbiamo ora una prova lampante. Talmente lampante da sembrare falsa.

Non mi interessa qui perorare o meno la tesi complottistica. Mi interessa solo che, grazie a questa trovata, possiamo facilmente trovare le connessioni con le dichiarazioni dei servi dell'impero di Sua Emittenza che circolano da qualche giorno.

Fedele (di nome e di fatto) Confalonieri: «il governo intervenga su internet per tutelare il copyright Mediaset contro youtube e google». Non so quanti lo ricorderanno, ma Confalonieri è il presidente di quella stessa Mediaset S.p.A. che ha fatto causa a youtube per il non rispetto di un fantomatico diritto di copyright (o “proprietà intellettuale” che dir si voglia). Oggi, casualmente, dal governo presieduto dal padrone di quell'azienda, ci viene detto che la rete – in particolare i social network – è fucina per terroristi in erba, basti vedere i gruppi che sono nati per inneggiare all'aggressore di Sua Emittenza il premier.
Conclusione: il gruppo di potere televisivo di Berlusconi ha trovato il modo di censurare la rete. Con la scusa di chiudere i siti “terroristici”, tra cui molti blog, facebook, youtube otterranno che i contenuti che oggi possiamo vedere gratis delle loro trasmissioni non saranno più visibili.
E questo non è fatto dal governo per combattere “le frange estreme dei movimenti extraparlamentari”, è fatto da Mediaset – e simili – per costringere le persone davanti allo schermo del televisore, costringendo così a guardare quel che loro decidono di farci vedere. Se poi a ciò aggiungiamo anche che la maggior parte della popolazione televisiva guarda solo la Rai e Mediaset, e che le stesse sono sparite dala piattaforma Sky – che permetteva una possibilità d'informazione maggiore – tramite l'imposizione del digitale terrestre, capite bene che la chiave di lettura diventa non più quella di un complotto contro, ma quella di un complotto a favore.

Visto che siamo in tema internet vi segnalo questo nuovo gioco su facebook: dopo “rimbalza il clandestino” da oggi è partito il gioco “crea anche tu il tuo gruppo pro-Berlusconi!”Di cosa si tratta? È un gioco molto semplice (d'altronde, chi lo ha iniziato non deve certo essere un grande pensatore del nostro tempo...): prendete uno dei tanti gruppi contro Berlusconi, cambiategli nome e...sorpresa! Avete ottenuto anche voi il vostro bel gruppo pro-Berlusconi su facebook che tanto piacerà ai telegiornali di regime che lo manderanno anche in onda!
Peccato che scorrendo su quei gruppi si abbia qualcosa di questo genere:


A me non sembra siano proprio commenti inneggianti a Berlusconi quelli che leggo, no?

A “La Telefonata” di Belpietro (ops...) il Sottosegretario al Ministero degli Interni Alfredo Mantovano ci fa sapere che i servizi avevano già da settimane la convinzione che qualcosa stesse per succedere. Al che mi viene un dubbio: se lo sapevano perché hanno posto il Premier di fronte ad un pericolo simile? Perché se lo sapevano ma hanno sottovalutato il problema, credo si possa dire che i servizi segreti sono dunque inutili per comprovata incapacità nello svolgimento delle proprie funzioni di sicurezza. Oppure ci sarebbe la seconda strada, quella del “lo sapevamo, ma siccome il premier in questi giorni compariva sui giornali e in tv per i suoi rapporti con la mafia c'era bisogno di spostare l'attenzione – e i voti – verso altro con qualcosa che facesse scalpore.” E visto che molti anni fa i nostri servizi segreti avevano sviluppato una certa dimestichezza nel mettere bombe in piazza (come a Piazza Fontana, Piazza della Loggia etc...) ufficialmente contro lo Stato Italiano, non mi meraviglierei per questa seconda ipotesi.

Per cui, più che parlare di teorie complottistiche contro il governo - che tanto piacciono ai famosi pennivendoli di cui sopra ed al loro beneamato popolo de' pecoroni - inizierei a pensare che sì, un complotto in atto in questo paese c'è. Ma non è quel complotto di cui scrivevo prima, quello di una "certa parte" della sinistra (Di Pietro con la sinistra non so cosa c'azzecchi però...), ma quello fatto dal governo nei confronti della povera gente. Quella che tutti i giorni perde il proprio posto di lavoro per i "tagli", le "esternalizzazioni" o che muore sul proprio posto di lavoro perché non c'è tutela e non ci sono controlli delle forze dell'ordine (che devono pagare di tasca loro benzina e carta per le fotocopie...).

È questo il vero complotto: "chi vola alle Bahamas e chi va all'obitorio", come cantavano i 99 Posse qualche tempo fa. Ma questa è un'altra storia...

E anarchici distratti caduti giù dalle finestre.

Strana storia quella degli anni '60 italiani.
Strana storia in particolare se ti capita di essere un anarchico e di abitare a Milano.
Perché ti può capitare, se sei un anarchico milanese, di entrare dalla porta di una questura e di uscirne dalla finestra. Del quarto piano.

«Penso al 12 Dicembre '69, allo stato delle stragi, allo stato delle trame» canta il gruppo napoletano della 99 Posse in “Odio/Rappresaglia”.

Ma cos'era successo quel 12 dicembre 1969?

17 persone morte ed 88 ferite. È questo il bilancio della bomba – contenuta in una borsa di pelle di colore nero posta sotto uno dei tavoli presenti nei locali della banca – esplosa alla Banca Nazionale dell'Agricoltura. Ore 16:37, venerdì 12 dicembre 1969. Piazza Fontana, Milano.

È un anno movimentato, il 1969. È l'anno di Jan Palach, lo studente cecoslovacco che si dà fuoco in piazza San Venceslao per protestare contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia; è l'anno di Woodstock e dello sbarco sulla luna. Ed è – in Italia – l'anno degli anarchici.
Il 25 Aprile infatti, due bombe ad alto potenziale scoppiano presso lo stand della FIAT alla Fiera campionaria e all'ufficio cambi della Banca nazionale delle comunicazioni, presso la stazione centrale.
Per le due bombe viene accusato un gruppo di anarchici, poi tutti scagionati.

È l'anno degli anarchici, il 1969 dicevamo.
È l'anno degli anarchici perché il primo ad essere incolpato della c.d. Strage di Piazza Fontana è Giuseppe Pinelli, militante del Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, già fermato per gli attentati di aprile.
Pinelli, dunque, non è sconosciuto alla questura. E non è sconosciuto neanche a chi deve occuparsi di interrogarlo, in particolare a Luigi Calabresi, commissario e vice-responsabile della squadra politica proprio alla questura milanese. I due si conoscono più di quel che possa sembrare, se è vero – come ci dice Adriano Sofri in “La notte che Pinelli” - che i due si scambiano consuetudinalmente regali per il Natale. Se così non fosse, se Pinelli non fosse davvero così conosciuto, non si spiegherebbe perché una volta fermato gli viene data la possibilità di seguire la volante della polizia con la sua bicicletta.

È il 12 dicembre. Lo sanno tutti che Pinelli è innocente. Perché quello di mettere le bombe non è il suo stile, ma la pista anarchica è l'unica pista che in quei concitati giorni viene seguita. Perché non c'erano prove verso altri o perché qualcuno, qualche “entità particolare” aveva dato l'input di seguire solo la “solita” pista anarchica? Non si sa. Si sa solo che 4 giorni dopo il fermo di Pinelli viene arrestato Pietro Valpreda, il ballerino Valpreda. L'uomo che secondo Cornelio Rolandi, il tassista che sarà il teste principale di quei giorni, è sceso dal suo taxi davanti alla Banca con una grossa borsa nera, come quella che verrà rinvenuta vicino alla voragine nei locali dell'istituto bancario. O forse no. Forse Rolandi non ricorda bene, forse è stanco dal lavoro. Perché prima dice che sicuramente è Valpreda l'uomo della valigia – tanto da far titolare al Corriere della Sera che “il mostro” era stato catturato – ma poi dice che sì, Valpreda c'era in piazza Fontana, ma senza valigetta.
La pista anarchica perde così il fulcro sul quale si basava. E forse è il momento di guardare da qualche altra parte. Però...

Però il giorno prima dell'arresto di Valpreda è successa quella cosa.
È successo che Pinelli è volato giù dal quarto piano della questura. Si è suicidato, dicono.
Era alle strette Pinelli, stava per crollare e, per non parlare, ha preso la rincorsa e con abilità ginnica estrema ha scavalcato con un salto la ringhiera di 92 cm. Non è una cosa da tutti. In particolare se, in una stanza di 4 metri e 40 cm per 3 metri e mezzo, devi prendere la rincorsa evitando una scrivania, uno scaffale libreria, un termosifone, una stufa, un mobiletto portatelefono, uno scaffale per la macchina da scrivere, un attaccapanni, una poltroncina e due,tre, forse quattro sedie. E poi c'è la finestra: oltre ai 92 centimetri della ringhiera, c'è anche da considerare che solo il battente di sinistra era aperto (spazio quindi di 60 cm) – perché quel giorno faceva caldo, a Milano. O forse perché in quella stanza stavano fumando – cosa che rende ancora più difficile l'operazione di salto. Ah, e poi ovviamente bisognava evitare gli uomini presenti nella stanza.

Insomma: Pinelli non si è buttato da solo dalla finestra. E tantomeno può avere valore la tesi del malore, perché se ti senti male non hai le forze per aprire una finestra. Ed ovviamente gettarti di sotto.

Assodato che Pinelli e Valpreda erano innocenti, e quindi – anche in questo caso – la pista anarchica era da scartare, chi è stato a mettere la bomba in piazza Fontana?

Il 14 Novembre 1974 Pier Paolo Pasolini, sul Corriere della Sera, scriveva il famoso articolo che iniziava con “Io so” - ripreso anche meravigliosamente nel film “Ilaria Alpi: il più crudele dei giorni”, ma questa è un'altra storia...
C'è qualcun'altro, in quel periodo, che avrebbe potuto scrivere quelle due parole: io so.
Si chiama Vittorio Ambrosini, è un avvocato e giornalista vicino ai futuristi che ha fatto il capitano degli Arditi durante la prima guerra mondiale. Non ha dubbi Ambrosini: a mettere le bombe in piazza Fontana sono stati quelli di Ordine Nuovo, tesi che diverrà preminente quando si scoprirà la provenienza delle borse usate per contenere l'esplosivo (acquistate a Padova) e del timer di una lavatrice utilizzati per l'esplosione. Sarà Guido Lorenzon, segretario di una sezione Dc di Treviso, a fare per primo il nome di Giovanni Ventura. Giovanni Ventura e Franco Freda, editori neofascisti, diventano i nuovi accusati delle bombe a piazza Fontana. E guardacaso, sia Giovanni Ventura che Franco Freda appartengono proprio al gruppo degli ordinovisti.
Da questo momento in poi finiscono le “certezze” sulla strage di piazza Fontana. Perché, ad esempio, ci sono rapporti particolarmente vicini tra alcuni uomini dell'estremismo nero e uomini del SID (Servizio Informazioni Difesa), in particolare nelle persone di Giovanni Ventura e Guido Giannettini che poi scapperà in Francia e poi in Argentina, dove si consegnerà all'ambasciata italiana nel 1974. Si scoprirà poi, grazie alla “bocca della contro-verità italiana” Giulio Andreotti che Giannettini è stato fatto espatriare coperto proprio dai servizi segreti. Quegli stessi servizi che, nelle persone del generale Gian Adelio Maletti e del capitano Antonio La Bruna, tenteranno di far evadere Giovanni Ventura, cosa che gli costerà – insieme a tanti altri reati – l'arresto nel 1976. Il 21 maggio 1981, l'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio diffonde la “famosa” lista degli iscritti della loggia massonica Propaganda2 (meglio nota come P2). Tra gli iscritti compariranno proprio i nomi di Maletti (numero di fascicolo 499) e La Bruna (502), che però si diranno sempre estranei alla loggia.
Che ci fossero i servizi segreti dietro alla mano “nera”?

A voler studiare la storia di quegli anni, a volerla studiare approfonditamente, si ha sempre l'impressione che quel che si sta leggendo, che si sta studiando, non sia qualcosa di realmente accaduto, qualcosa da libro di storia ma che piazza Fontana, il terrorismo nero, i servizi segreti deviati, facciano parte di un grande libro di finzione. Di quelle spy-story alla 007, per capirci. Quelle storie fatte di complotti di Stato e di Stati contro altri Stati. Peccato che poi le bombe, i morti ti facciano capire che tutto quel che è successo non è frutto della fantasia di qualche brillante scrittore, ma è la realtà.

Quella realtà fatta, ad esempio dei trentatre “non ricordo” pronunciati dall'allora Presidente del Consiglio Andreotti il 18 gennaio 1977 in merito alle circostanze per cui venne posto il segreto politico-militare sulla posizione di Giannettini, rendendo così impossibile l'operato d'indagine degli inquirenti.
La realtà. Forse l'unica cosa a cui in quegli anni difficilmente si riusciva ad arrivare nelle indagini sulla c.d. strategia della tensione.

In un'intervista a Repubblica del 2000, Maletti “aprirà” la “pista internazionale”:
«La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell'estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l'arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione (...)».
“Pista internazionale” che sarà poi ripresa per la strage alla stazione di Bologna, quando il senatore a vita – ed ex Presidente della Repubblica – Francesco Cossiga ipotizzerà il coinvolgimento del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e del gruppo Separat di Ilich Ramirez Sanchez, noto come il “comandante Carlos”.

Dopo circa 40 anni da quegli avvenimenti non si può iniziare a parlare di quelle stragi con la frase “la verità è:”, perché una verità accertata, una verità riscontrabile (nelle carte processuali, ad esempio) non c'è. Si sanno ormai nomi, fatti, luoghi e retroscena di quel che fu la strategia della tensione, con tutto il corollario di terrorismi rossi e neri, ma in questo paese di campanilismi sportivi e politici, c'è ancora qualcuno convinto che le bombe in piazza e quelle sui treni le abbiano messe i “rossi”.