Perché se non lo leggo non esiste

Grozny (Cecenia) - “In una bella mattina di sole alla fine del 2001, quando era appena finito il coprifuoco, a un incrocio nel centro della città di Argun, vicino al mercato che cominciava appena ad animarsi, alcuni soldati stavano in cerchio con i fucili puntati verso il basso. Per terra, ai loro piedi, giacevano tre ragazze nude, di tredici o quattordici anni. Non cercavano neanche di rannicchiarsi o di coprirsi con le mani. Erano vive ma probabilmente inebetite. Erano coperte di sangue, lividi e fango. Appeso a un bastone c'era un cartello che indicava il suolo. Diceva: «È quello che vi aspetta, tutte, troie schifose. Scoperete tutte con noi». Poco a poco intorno a loro si era raccolta una folla, nessuno aveva dubbi su cosa fosse successo. Alcune donne si strappavano il velo e le commesse si toglievano il grembiule per coprire le ragazze, prima di tutto la faccia, per non farle riconoscere. Gli uomini si voltavano dall'altra parte e continuavano per la loro strada.”[tratto da Cecenia: il disonore russo di Anna Politkovskaja]

Nonostante la frequenza di questi reati, nessun militare è mai stato processato. Anche perché, come dice la legge russa, senza l'esplicito consenso dei superiori un militare non può essere giudicato.

Chi tutela il male quando il bene se prepara ad ammazzare?

Dovrei dire che questa è una storia strana.
Una di quelle storie cupe, macabre, che spesso fanno da trama a qualche film tv.
Invece no. Perché questa è una storia che più classica non si può. Una storia del “bene” contro il “male”. Di quelle che spesso fanno da trama a qualche film tv.
Solo che in questo caso non si sa chi sia il “bene” e chi sia il “male”.

Ed ogni volta che leggo di casi del genere mi torna in mente “Vulesse” dei 99 Posse, nel punto in cui dice

World Food Day 2009




Il mondo spende 1.340 miliardi di dollari in armi ogni anno mentre la fame distrugge 1 miliardo di persone. Investire nell'agricoltura significa salvare delle vite.

Ode alla Vita

[Nell'immagine: "Il villaggio di Prades" di Joan Mirò]


Lentamente muore
chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore
davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore
chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore
chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza
porterà al raggiungimento
di una splendida felicità.

[Martha Medeiros]

Tremate! Tremate! I terroristi son tornati!


Avete presente la fantomatica lettera di minacce ad opera delle Brigate Rosse a quelli che alcuni anni fa i 99 Posse definivano "I 3 Porcellini", cioè Berlusconi, Bossi e Fini (vabbé, diciamo che ora sono 2 e mezzo, che Fini non si sa che vuol fare). Questa è la divertentissima risposta trovata in rete (grazie a Baruda) che permette di inquadrare la faccenda come effettivamente dovrebbe...

Tremate! Tremate! I terroristi son tornati!

Siamo tutti vittime del (anti)Sistema?

L'altro giorno – mercoledì 21 – ero al bar a chiacchierare con un'amica e collega davanti ad un'ottima tazza di caffé (non so perché ma dopo lezione il caffé si prende con più gusto, sarà anche merito o colpa della compagnia...) quando entra una ragazza enfatizzante perché di lì a poco sarebbe andata ad assistere ad una conferenza di Marco Travaglio.

Fino a non molto tempo fa più o meno quella sensazione ce l'avevo anch'io. Voglio dire: hai più o meno 20 anni d'età, sei nel periodo in cui sei “contro”, a prescindere. Cosa c'è di meglio di uno che va addirittura contro il nemico pubblico numero 1 e la sua cricca (cioè Berlusconi...)? Cosa c'è di meglio dell'accodarsi ad un “messia dal Veritiero Verbo” seguendolo con tanto di bava alla bocca? Sembra un po' quel modo di fare della tattica militare denominato “Search and Destroy”. Creati un nemico che puoi vedere in faccia, cercalo e distruggilo, con ogni mezzo.
Perché è questo quel che mi sto convincendo stiano facendo da un po' quelli che Paolo Barnard definisce “paladini dell'Anti-Sistema”: tutto il male viene da Berlusconi. Cioè viene dall'uomo Berlusconi. E quindi va denunciato, demonizzato, delegittimato. A meno che tu non sia Massimo D'Alema che nel 1994 crea la Bicamerale per non vittimizzarlo. Quindi non gli si concedono “scappatelle”, ma allo stesso tempo si chiude un occhio per amici e parenti che – perdonate la brutalità – vanno a puttane (e non nel senso metaforico del termine), si giustifica l'amico imprenditore e che dichiara 50 invece che 100 perché “in questo paese si pagano troppe tasse inutili”; non ci scandalizziamo se l'amico o il vicino di casa usa le autorizzazioni per disabili senza averne il diritto perché “in questa città non si trova un parcheggio neanche a pagarlo oro!” et similia.
Il concetto – tanto per non tirarla per le lunghe – è che si combatte il simbolo del malcostume, ma non il malcostume.

Ma cos'è di destra? Cos'è di sinistra?

“Ma cos'è la destra? Cos'è la sinistra?”
Cantava Giorgio Gaber ormai tanti anni fa.

Beh, non so voi come la pensiate, ma secondo me questa domanda (anche se a livello di scrittura sono due le considero come domanda unica) non ha una risposta facile.
Ma partiamo dall'inizio.

L'inizio di questa storia è una di quelle chiacchierate tra una lezione universitaria e l'altra in cui si parla del più e del meno, e per me spesso “il più e il meno” equivalgono a parlare di quel che succede nel mondo.
O meglio: questo post affonda le sue radici ancora più in là, in un'altra domanda, una di quelle che quando le senti magari non ti lasciano granché, ma che poi diventano peggio di un tarlo nel cervello. Ora – piccolo inciso per spiegare la domanda – il mio “bagaglio universitario” è uno zaino un po' modificato, pieno di frasi di canzoni e di quelle spillette che forse 10 anni fa facevano molto “alternativo” e che oggi invece stanno divenendo il massimo del conformismo (almeno in alcuni casi) tra cui una con il simbolo della pace.

Premio Nobel per la "Memoria (scarsa)"

Ho già scritto di quanto reputi una cazzata - e scusate il francesismo - l'assegnazione del Premio Nobel per la Pace al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, quindi non starò qui a ripetere i motivi che mi portano ad accettare la notizia con tanto stupore (e da quel che vedo e leggo il mio è uno stupore condiviso...).

Non posso neanche dire che l'assegnazione sia "politica", perché guardando ai precedenti vincitori non ci sono "connivenze imperialiste" dei paesi ricchi che si spartiscono il premio tra loro, visto che - ad esempio - questo stesso premio è stato vinto nel 1984 dall'arcivescovo sudafricano (ed attivista anti-apartheid) Desmond Tutu o - 10 anni dopo - da Yasser Arafat.
L'unica cosa che posso fare è accodarmi a Washington Post che ha fatto una sua personalissima assegnazione:


Ve la ricordate tutti no?
Lei si chiamava Neda Agha-Soltan, aveva 27 anni ed è stata uccisa nel giugno scorso in Iran, durante le proteste derivanti dai brogli elettorali che hanno rimesso sullo scranno più improtante Mahmud Ahmadinejad. Qui in Occidente molti l'avranno già dimenticata, vista la sterile velocità con cui fagocitiamo informazioni senza che queste possano in qualche modo scalfire le nostre quotidianità. Come abbiamo dimenticato la protesta stessa, per il semplice motivo che non leggiamo più cronache da Teheran e, come è risaputo, se una cosa non c'è sui giornali vuol dire che non esiste, semplicemente.

Forse più che il Premio Nobel per la Pace a Neda dovrebbe essere assegnato un "Premio Nobel alla memoria", perché magari sarà solo una provocazione quella del Washington Post [qui il link che richiama alla notizia battuta dall'agenzia Adnkronos, perché non sono riuscito a trovare l'originale della notizia "free"], però credo sarebbe stato importante non tanto per noi "ricchi e pasciuti" occidentali che domani avremo già scordato la notizia, ma sarebbe stato importante per i nostri fratelli e compagni iraniani, che magari avrebbero visto questo gesto come un modo per essere affianco alla loro battaglia, come a dire: "continuate così, perché la strada per la libertà e la pace è quella che avete intrapreso".

Perché alle volte la storia si cambia anche stando lontani dalle stanze dei bottoni. Come stanno tentando di fare in Iran ed in tante altre "zone fantasma" del nostro pianeta...

Premio Nobel per le intenzioni

Dicono che quando vuoi fare il giornalista devi separare i fatti dalle opinioni.
Dicono che quando vuoi fare il giornalista devi raccontare i fatti. Le opinioni devi tenertele per te.
E allora stiamo ai fatti:

Barack Obama ha vinto il Premio Nobel per la Pace.
E questo è un fatto. Senza ombra di dubbio.
Un fatto quantomeno controverso mi verrebbe da dire, perché se andiamo a vedere quegli altri, di fatti, quelli che ogni giornalista usa per controllare se quel che dice o scrive è vero, non so se questa notizia sia un fatto “oggettivamente condivisibile”.

Nel mondo, ad oggi, ci sono 25 conflitti attivi. Tra i tanti si contano le 38.500 vittime del conflitto afghano in 8 anni o le 50.000 tra la Russia e la Cecenia (10 anni), oppure le 301.200 vittime del conflitto del Darfur, Sudan, in “soli” 6 anni di conflitto.
Secondo i dati di PeaceReporter, dal 1948 (conflitto in Birmania, il più “vecchio” tra quelli indicati), ci sono state 3.425.000 vittime. È come se in 61 anni avessimo cancellato la Lituania!


Dicono che quando vuoi fare il giornalista devi separare i fatti dalle opinioni.
Che Barack Obama per ora sia più un fenomeno mediatico che non un fenomeno in campo politico però, non so se considerarlo come un fatto (se guardo alla destra americana) od un'opinione (mia). E qui mi riferisco – anche – al comportamento tenuto in merito alla riforma sanitaria (Internazionale di Agosto 2009). Ma questa è un'altra storia...

Io credevo che un premio Nobel – indipendentemente dalla categoria – si vincesse perché si era fatto qualcosa di importante. Che so, trovato il vaccino per l'Hiv, fermato una guerra, o qualunque altra cosa. Ecco, appunto. Tutte cose per cui prima le fai e dopo ricevi il premio.
Obama no. Per lui è diverso. Lui i premi li vince prima. Li vince “a prescindere”. Perché lui è “IL” presidente. Quello dell'”Yes we can” e del cambiamento mondiale. Che però, per ora, a me sembra un cambiamento ancora troppo teorico che pratico. D'accordo, diamogli ancora un po' di tempo perché non si può cambiare il mondo in un giorno, come dice una vecchia canzone dei Morcheeba “Rome wasn't built in a day”, quindi...


Dicono che quando vuoi fare il giornalista devi separare i fatti dalle opinioni.
E dopo aver espresso i fatti, si passa alle opinioni.
E' un'opinione, anche se sto iniziando a sentirla da parecchie “fonti”, che più che di “effetto Obama” si debba parlare di “Obaganda”. Cioè di una forma di propaganda mediatica che ruota intorno alla figura del “mitologico” 44° Presidente degli Stati Uniti d'America. Quegli stessi Stati Uniti che nella giornata di ieri, in Afghanistan, hanno ucciso 120 persone bombardando una festa in onore del loro presidente. Evidentemente volevano unirsi ai festeggiamenti, anche se lo hanno fatto in un modo alquanto originale.

E' un'opinione (o forse un fatto?) che ci siano persone che quel premio lo meriterebbero certamente più del Presidente americano. Per il semplice motivo che queste altre persone qualcosa di “fattibile” l'hanno già fatta: c'è chi tenta di aggiustare gli errori della guerra come Gino Strada con Emergency, c'è chi a 13 anni combatte contro il lavoro minorile in Pakistan e per questo viene assassinato. Iqbal Masih si chiamava. La sua storia ricorda un pò quella di Giuseppe Di Vittorio. Mi chiedo quanti ne abbiano mai sentito parlare. Mi chiedo quanti nel nostro paese, in un paese in cui si intitolano giornali ai “fatti” dando ovviamente solo quelli che sono più di comodo a portare avanti la propria politica, conoscano la storia sia di Iqbal che di Di Vittorio.
Ma anche questa, è un'altra storia...


Dicono che quando vuoi fare il giornalista devi separare i fatti dalle opinioni.
E credo sia un fatto abbastanza condivisibile ed oggettivo che il Premio Nobel per la Pace a Barack Obama sia più un “premio alle intenzioni” che non un vero e proprio “premio ai fatti”.

Vuoti di memoria...

Ci sono storie che nascono nelle ombre.
Ci sono storie che nascono nelle ombre e così continuano la loro vita. Finché qualcuno non decide di puntargli sopra qualche riflettore in più.

E' questo il caso di “Carte False. L'assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Quindici anni senza verità”, libro che ho finito di leggere poche ore fa e che può aiutare – secondo me – a far conoscere una storia che noi giovani, noi che siamo cresciuti dalla fine degli anni '80 in poi, non sempre conosciamo.

La storia è quella della giornalista 32enne del Tg3 Ilaria Alpi e dell'operatore triestino di Videoest Miran Hrovatin, che ha accompagnato Ilaria nel suo ultimo viaggio in Somalia sulle tracce del traffico di rifiuti tossici che il nostro paese – per presunti accordi tra l'allora premier Bettino Craxi e Siad Barre, padre-padrone della Somalia degli anni '90 – faceva con le fazioni di Ali Mahdi e Aidid (che in quel periodo si combattevano per prendere il posto dello stesso Barre) in cambio di armi.
E' difficile per me a volte considerare che giornalisti di quel calibro – perché Ilaria aveva la “stoffa” del giornalista – abbiano calcato gli stessi suoli di gente come Fede e Minzolini, che non certo possono definirsi “giornalisti”.
Comunque, la storia di Ilaria Alpi è una storia relativamente nota. O meglio, sono noti i misteri che da 15 anni a questa parte, da quel 20 marzo del 1994 aleggiano intorno a questa storia. Ed ogni mistero porta con sé un interrogativo. Come quello dei 3 taccuini e delle 5 videocassette sparite dal materiale che Ilaria e Miran avevano con sé in Somalia e che in Italia non sono mai arrivate. Alcune di quelle cassette contenevano un'intervista ad Abdullahi Mussa Bogor, meglio noto come “il signore di Bosaaso” e che – come assicura egli stesso alla Commissione d'inchiesta – ha una durata di circa 2 ore e 30 minuti. In Italia di quella lunga intervista ne sono arrivati solo 12 minuti! Cosa si diceva nel resto dell'intervista?
O come tutto il mistero – ma qui credo se ne potrebbe scrivere un'ampissima bibliografia – relativo alla figura di Giancarlo Marocchino, un faccendiere italiano che dagli anni '80 abitava in Somalia e a cui tutti gli italiani – giornalisti compresi – si rivolgevano. Perché Marocchino, oltre ad essere un faccendiere è stato anche accusato di essere tra gli ispiratori del traffico d'armi e di rifiuti su cui stava indagando Ilaria. Marocchino è stato il primo a giungere sul luogo in cui Ilaria e Miran sono stati assassinati con una vera e propria esecuzione (colpo unico, alla nuca, da breve distanza...). Quel che forse molti hanno dimenticato – o comunque non sapevano – è che a soli 50 metri c'era l'ambasciata italiana! Ok, i nostri militari stavano smobilitando, ma c'erano ancora alcuni uomini ed un paio di colonnelli (Fulvio Vezzalini e Luca Rajola Pescarini). Perché nessuno è uscito dopo aver sentito i colpi di pistola? Come facevano a sapere che quei colpi non erano indirizzati verso l'ambasciata? L'unica risposta che sono riuscito a trovare plausibile (considerando anche che i “vertici” dettero l'ordine di non intervenire...)è che nell'ambasciata qualcuno sapeva. Qualcuno che stava in alto nella scala gerarchica dei nostri uomini in Somalia. Magari quegli stessi colonnelli che, a circa un anno di distanza, furono promossi? Perché una cosa è certa: l'input di uccidere Ilaria e Miran non è partito dalla Somalia (a meno che non si voglia considerare lo stesso Marocchino come il grande deus ex machina, ma secondo me non è così...). Il comando è partito dal nostro paese. E molti potevano essere i mandanti. Potevano essere i servizi segreti (deviati o non...), potevano essere le imprese coinvolte nel traffico (altrimenti come si spiegherebbe che Giorgio Comerio, proprietario della O.d.m. di cui mi sono occupato nel precedente articolo “Scorie a perdere” e che con Ilaria Alpi nulla sembra avere a che fare, avesse tra le sue carte il certificato di morte di Ilaria?). E venendo alla morte di Ilaria: quando Marocchino arrivò al pickup bianco della Toyota (tra l'altro mai giunta in Italia, visto che quella che ci hanno inviato non è quella di Ilaria, in quanto il dna ritrovato nel sangue sul veicolo non è lo stesso di Luciana Alpi, la mamma di Ilaria che si è sottoposta al testo...) Ilaria era ancora viva, tant'è vero che le usciva ancora il sangue dal naso. Perché non è stato chiamato un medico? E per quale motivo si è preferito portare sia Ilaria che Miran – che invece era morto sul colpo – direttamente al porto di Bosaaso?
E perché quando è stata istituita la prima Commissione d'inchiesta sul caso Carlo Taormina che la presiedeva considerò come unica opzione fattibile quella della “vacanza” dei due giornalisti, morti per un rapimento andato a finire male (quella che oggi chiameremmo “pista islamica”...)? Taormina stava forse coprendo qualcuno? E se sì, chi?


Queste sono alcune delle tante – troppe – domande che vengono in mente quando si ha a che fare, volontariamente od involontariamente, con il “caso Alpi”. Domande senza risposta, come tante in questo paese dei misteri.
Purtroppo neanche il libro “Carte False” riesce a rispondere, semplicemente perché per rispondere a queste domande dovremmo trovare tutte le connessioni. E da 15 anni a questa parte c'è qualcuno che queste connessioni non vuole farle trovare.
Questo libro, però, può comunque far conoscere – tramite alcuni articoli – la storia, il modo d'intendere il giornalismo e, in parte, la personalità di Ilaria e Miran. E può, forse, non far perdere la memoria ad un paese che troppe volte, da Piazza Fontana alle stragi del '92, ha sofferto di immensi vuoti di memoria.

Scorie a perdere


Questa è una storia particolare.
Questa è una storia di uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà, come diceva Leonardo Sciascia.
Questa è una storia di nebbie. Nebbie che avvolgono tutto. Avvolgono uomini che scavano nella verità e avvolgono uomini che quella verità tentano di occultarla. Ed avvolgono navi.

Per iniziare questa storia partiamo dalla provincia del Guangdong, Cina. Ogni anno 150 milioni di televisori, lavatrici, frigoriferi ed altra immondizia “tecnologicamente avanzata” viene portata in queste terre, note non certo per la ferrea normativa ambientale. Più del 90% di questi rifiuti però non viene portato in qualche azienda per il riutilizzo o per il definitivo smaltimento. Finisce invece nei garage delle abitazioni, in strada, negli orti e viene trattato senza la minima precauzione. Da dove viene quell'immondizia? Alcuni di quei rottami partono da Aiello del Friuli, Udine, dove confluiscono i rottami di ditte friulane, liguri, venete e lombarde allocate in un sito di stoccaggio non autorizzato e dove arriva quello stesso materiale di scarto che le “grandi ditte” del Nord (quelle che portano sulle loro spalle – a detta loro – il peso economico dell'azienda Italia) spesso imbarcano su carrette del mare per mandarle in qualche altra zona lontana dall'aura di magnificenza con la quale vengono dipinti dai nostri quotidiani. Le mandano così lontane che spesso queste carrette si perdono nel mar Tirreno. Italia.

Cetraro (Cosenza) – Un mezzo telecomandato sottomarino messo a disposizione dalla Regione Calabria ha ritrovato a 500 metri di profondità nel mare antistante le coste cosentine il relitto di una nave. Cosa che di per sé non dovrebbe destare dubbi o far porre troppe domande, tant'è vero che la notizia è passata praticamente inosservata sui media del circuito mainstream. Ma una nave dai cui oblò si vedono due scheletri (o almeno questo è quel che sembra vedersi...) e dalla quale si potrebbero prelevare ben 120 fusti pieni di materiale non identificato si può considerare “normalità”?

Cosa contengano quei fusti è irrilevante ai fini ambientali. Che contengano vernici, solventi, acidi o materiale di altro tipo la cosa certa è che quel materiale non fa bene alle nostre acque, visto che dai rilevamenti effettuati in passato sono stati accertati eccessivi livelli di piombo. La prua della Cunski, questo il nome della motonave affondata, è squarciata. Che qualcuno abbia voluto portar via quei fusti prima che potessero essere ritrovati?