L'eredità dei missili di Comiso? L'ecoMUOStro

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Niscemi (Caltanissetta), 31 maggio 2012 - Trent'anni fa, mentre Stati Uniti ed Unione Sovietica si contendevano il mondo diviso del Muro di Berlino, l'Europa conobbe un terzo “giocatore”, che per un decennio si oppose alla politica del riarmo sovietico-statunitensi sotto la bandiera del “Senza missili dall'Atlantico agli Urali” e che vide, per l'Italia, il momento più importante durante la pacifica battaglia contro i missili della base americana di Comiso. Quel movimento vedeva tra i propri leader Pio La Torre e Pippo Fava. Proprio quest'ultimo, all'epoca, titolò un proprio articolo «ti lascio in eredità i missili di Comiso». «Discutiamone per un istante poiché si tratta della nostra vita e soprattutto di quella dei nostri figli», scriveva il giornalista, che verrà poi ucciso dalla mafia l'anno dopo, «La guerra nucleare è come un assassinio mafioso: non si dichiara, ma si esegue, cioè si scatena senza preavviso e nel momento più imprevedibile». Oggi, forse, lo titolerebbe in un altro modo: «ti lascio in eredità l'ecoMUOStro di Niscemi».

Si chiama Muos, acronimo di Mobile User Objective System, è una stazione di telecomunicazioni satellitari formata da tre antenne di 18,4 metri di diametro (due funzionanti perennemente ed una di riserva, stando ai dati forniti dalle autorità militari) e due torri radio alte 149 metri che la Marina militare degli Stati Uniti ha intenzione di terminare entro il 2015, con una colata di cemento prevista in 2059 metri quadri[1]. Luogo scelto per il posizionamento la riserva naturale “Sughereta” di Niscemi, Caltanissetta, Sicilia sud-orientale, dove è giù presente – in contrada Ulmo – una base americana. O sarebbe meglio dire “Portaerei Sicilia sud-orientale”[2][3]. Il suo scopo è, anche, quello di decuplicare la trasmissione delle informazioni. «Significa che basta anche una tempesta solare, che ha degli effetti enormi sulle telecomunicazioni» - diceva Antonio Mazzeo nel suo intervento nell'ambito del convegno nazionale Scuola e Ambiente tenutosi al liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Niscemi - «arrivano dei byte errati ad un computer, vengono letti in modo errato e possiamo scatenare una guerra nucleare».
Come trent'anni fa, con i 112 missili Cruise a testata nucleare e la creazione della base militare di Comiso, nel ragusano, segnale eloquente ed inquietante che la guerra globale stava – e sta – spostandosi nel mare nostro.

Il luogo prescelto, dicevamo, è la riserva naturale di Niscemi, che fa parte della rete di Natura 2000 come sito di interesse comunitario ed inserita nel maggio 2008 nel Piano territoriale paesaggistico approvato dalla Provincia, che la definiva sotto «livello di tutela 3»

L'operazione "Coffee Break" blocca le forniture mafiose di caffè nei locali siciliani

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Palermo, 27 maggio 2012 – Non potendo prendersi direttamente un “Café” - idea già venuta in mente alla 'ndrangheta calabrese con il famoso Café de Paris di Roma, sequestrato ai calabresi nel 2009 ed entrato poi a far parte del circuito di Libera[1] - Cosa Nostra ha pensato di buttarsi sul caffè. Quello con due effe.

Il nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, infatti, ha portato a termine un'indagine – denominata “Coffee Break” - nella quale è stata portata alla luce una fornitura mafiosa di caffè nei locali siciliani attraverso la società Caffè Floriò sas di Zaccheroni Maria e c.“ che per questo è stata sequestrata dal giudice per le indagini preliminari Riccardo Ricciardi su richiesta del procuratore aggiunto della Procura di Palermo Antonio Ingroia e del sostituto Dario Scaletta.
Secondo gli inquirenti, infatti, dietro la società ci sarebbe Francesco Paolo Maniscalco, 49 anni, già condannato in via definitiva per associazione mafiosa e ritenuto molto vicino a Totò “u curtu” Riina. Al boss vengono contestati i reati di trasferimento fraudolento di valori ed estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Attraverso dei prestanome, sarebbero stati nelle disponibilità del boss – che li amministrava direttamente – anche i bar “Trilly” di via Cusmano, l'”Intralot” di via Pisacane e la palestra “Body Club” di via Dante ed ora affidati ad amministrazione giudiziaria.
Posta sotto sequestro anche la società “Cieffe Group srl”, che avrebbe dovuto sostituire la “Caffè Floriò” ma che risultava avere la stessa sede sociale. Un modo classico per continuare lo stesso business criminale ripulendo semplicemente la “facciata esterna”.
Società, il cui valore complessivo è stato stimato in circa quattro milioni di euro, finite tutte sotto sequestro con l'operazione di ieri.

Dodici le persone finite nel registro degli indagati, tutte afferibili alle società sequestrate in qualità di soci o amministratori: Daniela Bronzetti (moglie di Maniscalco), Maria Donis Zaccheroni, Antonino Prester, Francesco Paolo Davì, Giovanna Citarella, Paola Carbone, Antonella Cirino, Giuseppe La Mattina, Teresa Maria Di Noto, Salvatore Dolcemascolo, Laura Seminara e Giuseppe Calvaruso, tutti accusato di concorso in trasferimento fraudolento di valori.
Secondo quanto ricostruito attraverso l'uso di intercettazioni, accertamenti patrimonali e dichiarazioni del 46enne Marco Coga, arrestato nel 2009 quando era considerato elemento di spicco della famiglia mafiosa di Porta Nuova, ai titolari dei locali veniva imposto il cambio di fornitura con metodi alquanto sbrigativi.
Nonostante l'ampiezza di tale fenomeno – anche temporalmente – nessuno ha mai sporto denuncia.

Note
[1] Café de Paris, nuova vita anti-mafia nello storico bar i prodotti di Libera, Repubblica, 19 dicembre 2011

Italia, il mercato rifugio è ancora quello delle armi

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Roma, 27 maggio 2012 - Seppur con tre settimane di ritardo rispetto ai tempi imposti dalla legge – che fissa la scadenza non oltre il 31 marzo - il governo italiano ha finalmente reso noto il “Rapporto del Presidente del Consiglio sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento[1]” relativo all'anno 2011, cioè il documento riassuntivo – dunque assolutamente non esaustivo - dei volumi prodotti dai vari Ministeri interessati alle autorizzazioni alla vendita di armamenti italiani. Avere tali dati “spalmati” nei bilanci di vari ministeri, peraltro, serve anche per rendere più difficoltoso – come evidenzia il giornalista e Peace Researcher Antonio Mazzeo nel video allegato – capire quanto effettivamente l'Italia spenda per gli armamenti.
Il dato generale, che vede un incremento del 5,28% del valore delle autorizzazioni alle esportazioni, conferma ancora una volta come il mercato delle armi, legale o illegale che sia, rimane insensibile alla crisi economica.

Andando ad analizzare i dati si intensifica, per quanto riguarda i dati di competenza della legge 185/90 (“Nuove norme sul controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento[2]”), l'appoggio bancario alla vendita estera dei nostri sistemi d'armi, cioè la concessione di conti correnti da utilizzare per il pagamento delle forniture, per un totale di quattro miliardi di euro, di cui 2,5 relativi alla voce “esportazione” - definitiva o temporanea che sia – ed il restante miliardo e mezzo relativo alle importazioni. 113 milioni di euro, inoltre, sono finiti nelle tasche degli istituti intermediari, la cui tabella riassuntiva è però sparita dal report così come la tabella 15, che riporta gli armamenti venduti ai singoli Paesi. Una tabella con la quale, spiega Francesco Vignarca della Rete per il Disarmo e giornalista di Altreconomia, qualche anno fa è stato possibile bloccare le vendite di elicotteri all'India, la quale li avrebbe poi rivenduti alla Birmania, paese sotto embargo.
Valori che vengono commentati con soddisfazione dal Ministero dell'Economia, per il quale nel 2011 si è registrato un «trend positivo rispetto al 2010, con un incremento del valore complessivo autorizzato pari a circa il 14%».
Sarebbe il caso, forse, di ricordare al dicastero che per quanto in questo periodo di crisi sia necessario racimolare denaro dalle più disparate – e disperate – situazioni si sta comunque parlando di commercio d'armi, non esattamente caramelle.

Iblis, mentre continuano i vuoti di memoria di D'Aquino viene fuori la Girgenti Acque

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Catania, 26 maggio 2012 – Aveva iniziato a parlare circa un mese fa. Poi, per vari problemi tecnici e risposte non proprio chiare, era stato tutto rimandato. Ieri, invece, Gaetano D'Aquino, collaboratore di giustizia dopo aver fatto parte del clan catanese dei Cappello, ha potuto terminare la sua audizione. «Non esiste che la malavita a Catania non abbia un ruolo in ogni nuova grande opera. A meno che, in futuro, non esisterà più. Ricordiamoci infatti che la mafia, negli appalti, ci va con i prestanome», ha esordito D'Aquino, che ha giustificato la sua confusione mentale della prima parte dell'udienza con la perdita del fratello più piccolo, cinque anni di età, morto in un incidente stradale. «Per ventiquattro anni sono stato un mostro e mi faccio ancora schifo per questo. Ma non a tal punto da non avere la testa al funerale», ha detto prima di iniziare l'udienza. Per evitare il ripetersi dei problemi di natura tecnica, inoltre, si è evitata la videoconferenza, portando il teste nell'aula-bunker di Bicocca, “gemella” di quella palermitana.
Quattro ore in tutto, in cui il teste ha dovuto rispondere alle domande dei pubblici ministeri Carmelo Zuccaro e Michelangelo Patanè che della difesa, composta dagli avvocati Pietro Granata e Guido Ziccone.

La deposizione si è concentrata sia sulle elezioni del 2008 che del 2006 dove – ha raccontato D'Aquino – le famiglie catanesi avrebbero appoggiato più di un candidato del Movimento per le Autonomie, nonostante l'interesse non fosse poi così ricambiato, in particolare dall'attuale presidente della Regione, accusato da essere praticamente sparito dopo le elezioni «perché si era montato la testa, dicevano alcuni, oppure con la scusa delle indagini dei Carabinieri».
Per quanto concerne la tornata elettorale il candidato su cui punta il clan Cappello è Giovanni Pistorio, attraverso la mediazione di Peter Santagati, imprenditore della cooperativa Creattività (nella quale D'Aquino, come ebbe a dire nella prima parte dell'udienza, svolgeva il compito di sorvegliante[1] prima di essere sostituito da Lorenzo Fagone «del clan Santapaola del rione Picanello, cugino di Alessandro Porto che portò molti volti») pressato dai politici affinché garantisse posti di lavoro in cambio di appalti e Salvatore Vaccalluzzo, ucciso poco dopo quella tornata elettorale e che, secondo D'Aquino, era «uno dei più famosi usurai di Catania».

Strage di Capaci, il ventennale di Cosa Nostra

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Catenanuova (Enna), 26 maggio 2012 – Tre giorni fa, lo sappiamo, c'è stata la commemorazione per la strage di Capaci del 23 maggio 1992, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo nonché gli uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo ed Antonio Montinaro.
Nelle stesse ore in cui autorità della più disparata caratura facevano passerella a Roma, in Sicilia Cosa Nostra decideva di farsi sentire a modo suo. Tornando a sparare.

Il primo omicidio ci porta nell'ennese, precisamente a Catenanuova, dove sembrerebbe esserci un regolamento di conti per il controllo del territorio – uno dei tanti episodi di una lunga guerra di mafia che vide nel luglio 2008 l'uccisione di Salvatore Prestifilippo Cirimbolo, considerato il capomafia della locale famiglia – in cui, stando alle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, sarebbe coinvolto anche il clan catanese dei Cappello. A rimanere a terra sotto i colpi sparati da una Fiat Punto è stato Prospero Leonardi, 30enne, probabilmente l'obiettivo dei tre uomini che componevano il gruppo di fuoco. Ferito Angelo Drago, 42 anni. Entrambi, secondo gli inquirenti, vicini alla mafia. Leonardi è infatti cognato di Antonino Mavica, arrestato a maggio di un anno fa nell'ambito dell'operazione “Fiumevecchio” insieme ad altre dieci persone tra cui Salvatore Leonardi, che è invece cognato proprio di Angelo Drago.

Ad Aci Sant'Antonio invece, cinque colpi di pistola calibro 7.65 hanno raggiunto Giovanni Nicotra a bordo della sua Peugeot 308. Commerciante nel settore delle bombole di gas e titolare di un'impresa edile, era stato coinvolto nel 1998 dall'operazione “Ficodindia 4” contro il clan Laudani. All'epoca gli fu contestato il reato di estorsione dal quale venne poi assolto. La matrice dell'omicidio, dicono gli inquirenti, sarebbe da ricercare proprio negli affari legati alla sua attività.

Processo Rostagno, udienza tra bossoli e collegamenti somali

foto: contropiano.org

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Trapani, 26 maggio 2012 – Inizia intorno alle 11.30, dopo il ricordo della strage di Capaci, l'udienza numero ventinove del processo volto a fare luce sull'omicidio del giornalista e sociologo Mauro Rostagno, tenutasi mercoledì. A deporre sarebbero dovuti essere Roberto Sipala ex appartenente al clan dei Cursoti negli anni dello stragismo di Cosa Nostra e del quale il pubblico ministero Gaetano Paci ha ricordato l'inattendibilità ed i consulenti tecnici Biagio Manetto e Luca Soldati, tutti convocati dalla difesa.
Sipala, però, non si è presentato in aula ed è per questo stato necessario chiedere l'acquisizione delle sue testimonianze precedenti.

Questa è, inoltre, la prima udienza svolta dopo che il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e i sostituti Gaetano Paci e Francesco Del Bene sono stati ricevuti nella sede dei servizi segreti civili e militari, tornando a Palermo con materiale volto a definire eventuali collegamenti tra questo omicidio e quello avvenuto il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, dove furono uccisi la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin nonché il reale uso che in quegli anni si fece del centro “Scorpione”, nodo trapanese – ed unica sezione aperta nell'Italia meridionale – della struttura segreta Gladio, operante nell'isola tra il 1987 ed il 1990 considerando anche che tra i responsabili della struttura c'era Vincenzo Li Causi, di cui si è sempre detto essere stato tra i più importanti informatori di Ilaria Alpi in terra somala.

Tornando all'udienza, il primo a testimoniare è l'ispettore Manetto della polizia scientifica di Palermo al quale sono state poste domande in merito ai pezzi del fucile, alla traiettorie dei bossoli ed alla dinamica generale dell'omicidio. «Sono nella polizia scientifica dal gennaio del 1983 e mi occupo di balistica dal 1987. Da quell'anno mi sono occupato di tutti i casi della Sicilia occidentale che riguardavano il gabinetto di Palermo» ha esordito l'ispettore, ricordando come si sia occupato varie volte dell'omicidio in questione, sottolineando inoltre come non sempre sia stato possibile svolgere il proprio compito nel migliore dei modi, basti pensare al fatto che la comparazione tra le cartucce – esaminate nel 1996 – ed i bossoli è avvenuta solo nel 2007.
«I fucili usati nell'omicidio Rostagno sono tre. La sequenza dei colpi è questa: prima cinque colpi di fucile davanti, pio i colpi alla testa e poi i colpi di fucile sparati attraverso il lunotto dell'automobile» ma, ha sottolineato l'ispettore dopo essersi concentrato sulla sequenza dei colpi sparati contro la Fiat Duna del giornalista – ucciso con tre fucili, di cui uno esplose in quanto troppo vicino al parabrezza dell'auto, ed un revolver - «non c'è compatibilità con i colpi usati negli omicidi per cui è stato condannato Mazzara». Impossibile, comunque, definire la cronologia dei colpi sparati nonché l'esattezza di altri elementi, date le difficoltà – non sempre casuali – con cui sono state svolte le indagini.

Prossima udienza prevista per mercoledì 30 maggio, quando termineranno le deposizioni dei teste convocati dalla difesa. Il 13 giugno, invece, verrà ascoltato Sipala.

"Chiamiamola tortura". Campagna per l'introduzione del reato di tortura nell'ordinamento giuridico italiano

In Italia la tortura non è reato. In assenza del crimine di tortura non resta che l’impunità.
La violenza di un pubblico ufficiale nei confronti di un cittadino non è una violenza privata. Riguarda tutti noi, poiché è messa in atto da colui che dovrebbe invece tutelarci, da liberi e da detenuti.
Sono venticinque anni che l’Italia è inadempiente rispetto a quanto richiesto dalla Convezione contro la tortura delle Nazioni Unite, che il nostro Paese ha ratificato: prevedere il crimine di tortura all’interno degli ordinamenti dei singoli Paesi.
Quanto accaduto nel 2001 alla scuola Diaz ha ricordato a tutti che la tortura non riguarda solo luoghi lontani ma anche le nostre grandi democrazie. Il caso di Stefano Cucchi, la recente sentenza di un giudice di Asti e tanti altri episodi dimostrano che riguarda anche l’Italia.
Per questo chiediamo al Parlamento di approvare subito una legge che introduca il crimine di tortura nel nostro codice penale, riproducendo la stessa definizione presente nel Trattato Onu. Una sola norma già scritta in un atto internazionale. Per approvarla ci vuole molto poco.


Per aderire:
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Operazione anti-caporalato “Sabr”, sedici arresti per schiavitù e traffico di esseri umani

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Lecce, 23 maggio 2012 – È scattata alle tre di questa mattina l'operazione anti-caporalato “Sabr”, dopo l'emissione di ventidue ordinanze di custodia cautelare, di cui sedici già eseguite, da parte del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Carlo Cazzella, su richiesta della locale Direzione distrettuale antimafia. Condotta dal Raggruppamento Operativo Speciale di Lecce tra gennaio del 2009 e ottobre 2011, l'operazione ha portato all'emersione dei reati di riduzione e mantenimento in schiavitù e servitù nonché di «un vero e proprio “sistema” criminale, efficientemente organizzato» dedito alla tratta di persone a fini di sfruttamento, composto da cittadini italiani, algerini, tunisini e sudanesi attiva tra la Puglia, la Sicilia, la Calabria e la Tunisia – da cui provenivano, insieme al Ghana, la maggior parte dei migranti - che costituiva la base di partenza dei viaggi.
Il modus operandi dell'organizzazione non si discosta da altri casi di sfruttamento e traffico di esseri umani (come l'operazione “Raìs”, di cui scrivevamo ieri): i migranti venivano allettati dalla prospettiva di un lavoro ben remunerato e in condizioni accettabili. Arrivati in Italia, però, i migranti si ritrovavano invece a lavorare al limite della sopportazione psico-fisica per dieci o dodici ore al giorno ricevendo una paga – compresa tra i venti ed i venticinque euro giornalieri – da consegnare quasi interamente al caporale per la permanenza in alloggi nei quali mancavano l'acqua corrente, i servizi igienici e la corrente elettrica.

Il gruppo dei datori di lavoro, al quale viene contestato il rilascio di false certificazioni di assunzione, era costituito dai netini Giuseppe Cavarra, 34enne di Noto e Rosaria Mallia, 35enne, entrambi residenti a Pachino e coinvolti direttamente anche nel reclutamento ; dai neretini Marcello Corvo, 52enne; Bruno Filieri, 49enne; Pantaleo Latino detto “Pantaluccio” 58enne; Livio Mandolfo, 46enne; Salvatore Pano, 56enne; Corrado Manfredi, 59enne e Giuseppe Mariano, detto “Pippi”, 74enne di Scorrano (Lecce); Giovanni Petrelli, 50enne di Carmiano (Lecce).
Del gruppo che materialmente si occupava dell'ingresso dei migranti facevano parte Saed Abdellah, detto “Said”, 26enne sudanese residente a Palermo; Meki Adem, 52enne sudanese residente a Racalmuto (Agrigento); Abdelmalek Aibeche, detto “Alì”, 34enne algerino residente a Vittoria (Ragusa), capo squadra; Belgacem Ben Bechir Aifa, 42enne algerino residente a Nardò, capo squadra;

Operazione "Raìs", smantellata rete di "mercanti di uomini" tra Italia ed Egitto

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Messina, 22 maggio 2012 – Un tir è appena stato fermato sull'autostrada A18 dalla Polstrada di Giardini Naxos. A bordo, oltre al conducente ed un passeggero, nel rimorchio vengono trovati ottantaquattro migranti provenienti dall'Africa. È il 24 luglio 2010.
Tre mesi dopo, il 25 ottobre, la Guardia di Finanza ferma un barcone carico di migranti e diretto a Riposto, nel catanese.
Inizia così l'operazione, denominata “Raìs”, coordinata dalla Procura messinese e portata avanti dalla Squadra Mobile di Messina in collaborazione con le mobili di Ancona, Catania, Siracusa, Milano e Roma ed il Servizio Centrale Operativo e che ha portato, per il traffico di migranti di luglio, all'arresto di Pierpaolo Corsini, 55enne conducente del tir e dipendente della ditta “Michalis”, interessata all'ambito dei trasporti internazionali tra Italia e Grecia.

A capo dell'operazione, secondo le ricostruzioni dei migranti e di alcuni scafisti che hanno poi iniziato a collaborare con le forze dell'ordine, c'era Mohamed Mohamed Abd Rabbo, alias Mohamed El Shiek o “Batraman”, 27enne egiziano ritenuto dagli inquirenti a capo dell'organizzazione, rimasta sconosciuta per almeno un decennio.
Gli altri arrestati nei giorni scorsi sono gli egiziani Mohamed El Sobhy, 26enne conosciuto anche con il nome di Mhamad Nabil; Zakaria El Sayed Attia El Sobhy, 42enne; Mohamed Mohamed Rabie Abdel Aal, 27 anni; Monir Morsi Mohamed Morsi, 31 anni; Mohamed Shalpy Gaurpa Fathi Abdelkader, 47 anni; Reda Gharib, 25 anni nonché gli italiani Massimo Greco, 26 anni, nato a Giarre; Salvatore Greco, 57 anni di Acireale e Fabio Fanizza, anch'egli di Giarre. Tutti e tre risiedevano a Mascali, nel catanese. A luglio, oltre al conducente del tir, vennero arrestati anche gli egiziani Maher Ali Ouda, 32enne residente a Milano; Adel Riad Said Gouhar, 51 anni e Shokry Adovelnaser Mohamedhagag, 28 anni entrambi residenti a Roma. Quest'ultimo – che gli inquirenti hanno descritto dall'aspetto curato, con abiti di buon taglio e capace di parlare un fluente italiano di cui è stato accertato il ruolo di spicco nell'organizzazione – a luglio, in fuga, chiese un passaggio ad una civetta dei carabinieri a Taormina in cambio di cinquanta euro, praticamente spiccioli se paragonati ai guadagni derivanti da tale traffico. È lui, dicono gli inquirenti, ad aver organizzato e gestito il trasporto dei migranti – partito dalla città di Wadyalnatron, nella zona desertica a nord dell'Egitto – ed il loro ingresso sul territorio italiano.

Operazione “Monterrey”, smantellata rete di narcotrafficanti tra Messico e Italia

foto: m.quotidiano.net

Palermo, 22 maggio 2012 – Tre anni di indagine, trentaquattro persone arrestate e dieci quintali di droga (cinque di cocaina ed altrettanti di hashish con un grado di purezza dell'84%, valore commerciale al dettaglio compreso tra gli ottanta ed i cento milioni di euro). Sono questi i numeri dell'operazione “Monterrey” - dal nome della città messicana da cui è partita l'operazione - con la quale gli uomini della sezione antidroga della Squadra Mobile di Palermo, in collaborazione con la Direzione Centrale Servizi Antidroga e la Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato è riuscita a smantellare una rete di trafficanti di droga creatasi tra Messico e Sicilia.

Il gruppo residente in Sicilia acquistava la droga da connazionali residenti in Messico, cioè – come abbiamo raccontato tante volte in questi mesi – da uomini dei cartelli.
Il carico, nascosto all'interno di un forno per la cottura della ceramica, è stato individuato grazie ad una segnalazione degli agenti della Drug Enforcement Administration e fermata in un'area di servizio in provincia di Terni. Attraverso l'informativa dell'antidroga americana è stato possibile collegare questa operazione con una precedentemente realizzata sul territorio palermitano.
Dal Messico, la droga era arrivata in Europa attraverso il canale olandese, per poi giungere nel nostro paese dall'interporto di Milano da dove aveva preso la volta di Napoli in camion.

Ai trentaquattro arrestati, in accoglimento di quanto richiesto dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, il giudice per le indagini preliminari che ha emanato i provvedimenti di carcerazione ha contestato i reati di importazione, traffico sul territorio italiano e detenzione a fini di spaccio delle due sostanze

La stessa indagine ha inoltre permesso di scoprire un altro canale di ingresso degli stupefacenti nel nostro paese, dove venivano fatti entrare attraverso l'uso di corrieri dell'Europa dell'Est.

Cartoline da Melilla. Benvenuti nella Fortezza Europa

foto: canalsolidario.org
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Ciudad Autónoma de Melilla (Spagna), 20 maggio 2012 – «In questo momento» - scriveva mercoledì scorso Patricia Simón su Periodismo Humano[1] - «almeno una ventina di persone si sono nascoste in alcuni nascondigli di Melilla, probabilmente in alcuni terreni che proteggono la città e fanno da anticamera alle valli che la isolano dal continente africano».

Due mesi fa, il 10 marzo, cinquantadue congolesi sono stati espulsi da Madrid e riportati nella Repubblica Democratica del Congo, da dove erano partiti addirittura sei anni prima in fuga dal più povero territorio dell'Africa e dalle sue guerre.
Il timore, in tutti, è quello di essere rinchiusi nel Centro di Identificazione ed Espulsione (in spagnolo Centros de Internamientos de Extranjeros) di Melilla, enclave spagnola situata in territorio marocchino – dove il tempo massimo di detenzione è di sessanta giorni – e soprattutto essere rimpatriati nella Repubblica Democratica per essere incarcerati, come oppositori politici del regime di Joseph Kabila Kabange, nel Centro Penitenziario di Rieducazione Makala di Kinshasa, considerato il carcere più pericoloso del mondo. Fino a pochi anni fa morivano di fame almeno dieci persone al giorno. Per questo era nota come la “prigione della morte”.
Il Marocco – così come la Libia di Gheddafi e la Tunisia di Ben Ali – ha acconsentito alla politica di subappalto del controllo transfrontaliero voluto dall'Unione Europea in cambio dei fondi MEDA, istituiti nell'ambito del Processo di Barcellona (o Partenariato Euro-Mediterraneo) nel 1995[2].

Istituiti già nel 1985 e definiti dalla legge «privi di carattere penitenziario», sul territorio spagnolo sono stati costruiti nove centri per migranti[3] (quello di Melilla è del 1998), anche se la Asociación pro derechos humanos de Andalucía ha documentato l'esistenza di almeno altri due centri fantasma – nella zona di Almería e nelle Canarie – senza essere in grado di definire quanti altri centri “fantasma” esistano sul territorio, data la scontata difficoltà nel reperire informazioni. Come per la situazione italiana, gli attivisti denunciano non solo il regime di carcerazione illegale, ma anche la mancanza di interpreti che possano informare i migranti sui loro diritti (in particolare quello di asilo) nonché l'improvvisazione e l'inefficienza sanitaria. Nel 2008, infine, la Spagna ha inserito nel proprio ordinamento la cosiddetta “Direttiva della Vergogna”, che ha portato a 18 mesi il periodo massimo di detenzione dei migranti sans papier in attesa di rimpatrio.

Palermo, mentre Spatuzza parla del '92 il gotha di oggi è condannato a 150 anni di carcere

foto: palermo.repubblica.it
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Palermo, 20 maggio 2012 – Mentre Santo La Causa parla a Catania[1], a Palermo lo fa un altro collaboratore di giustizia eccellente, Gaspare Spatuzza, auto-accusatosi già da tempo di aver avuto un ruolo centrale nella strage di via D'Amelio procurando la Fiat 126 sulla quale fu piazzato l'esplosivo, parlando davanti ai magistrati di Caltanissetta – titolari delle indagini sul periodo stragista del 1992-1993 – ha rivelato di essere stato anche l'uomo a cui Cosa Nostra affidò il compito di reperire l'esplosivo per la strage di Capaci, arrivato – come ormai ampiamente accertato – dalla Croazia sfruttando il canale aperto a Fiume da Giambattista Licata, esponente del clan dei siciliano dei Fidanzati e della mafia del Brenta, che proprio nella città croata aveva residenza.

«Ricordo che Fifetto Cannella [Cristoforo “Fifetto” Cannella, tra gli esecutori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo ndr] mi chiese, circa un mese prima dell'esplosione in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta di trovare una macchina voluminosa», si legge nei verbali, ripubblicati nei giorni scorsi dal Giornale di Sicilia dopo una prima pubblicazione, fatta a fine 2009, dal quotidiano Repubblica[2].
«Ci recammo a Porticello» - ha continuato Spatuzza - «dove trovammo un certo Cosimo di circa 30 anni ed assieme a lui andammo su un peschereccio attraccato al molo da dove recuperammo dei cilindri dalle dimensioni di 50 centimetri per un metro legati con delle funi sulle paratie della barca. Successivamente constatai che al loro interno vi erano delle bombe. Recuperati i fusti li caricammo sulla autovettura per dirigerci verso la mia abitazione. Una volta arrivati a casa di mia madre, ubicata in un cortile, scaricammo i bidoni all'interno di una casa diroccata di mia zia che era a fianco di quella di mia madre e che noi usavamo come magazzino». In seguito, ha continuato nel suo racconto il collaboratore, venne recuperato altro esplosivo nei pressi del porto, legati ad un peschereccio. «Nessuno» - ha terminato Spatuzza - «mi ha mai detto esplicitamente a cosa servisse l'esplosivo».

Rimangono ancora senza risposta le domande relative all'incursione nell'ufficio al ministero della Giustizia del giudice Falcone, nei giorni immediatamente successivi all'attentato, quando il locale era ancora sotto sequestro, così come nulla ancora si sa su ciò che venne fatto con il suo computer il 6 giugno 1992 né sull'uso che venne fatto dell'altro pc portatile, nel quale Falcone custodiva le informazioni più riservate, tra cui l'elenco degli appartenenti alla struttura Gladio. Come per via d'Amelio, inoltre, a pochi giorni dal ventennale ancora nulla si sa del diario personale di Falcone, sparito come l'agenda rossa di Paolo Borsellino cinquantacinque giorni dopo, in via D'Amelio.

Ma forse le risposte a queste domande non devono essere chieste a Palermo.

Intanto, sempre in merito al periodo stragista, il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta, Francesco Lauricella – in accoglimento di quanto richiesto dalla Procura – ha archiviato l'indagine per concorso esterno in associazione mafiosa per il “punciuto” generale dei carabinieri Antonio Subranni. Accuse che però non hanno trovato alcun riscontro.

Infine, tornando alla lotta alla Cosa Nostra attuale, nei giorni scorsi si è tenuto il secondo grado del processo “Perseo”[3], che ha confermato le decisioni del giudice per le udienze preliminari, condannando il gotha palermitano a 150 anni di carcere./p>

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/05/il-boss-la-causa-racconta-la-mafia.html;
[2] L'esplosivo per le stragi portato dai pescherecci di Alessandra Ziniti, Repubblica, 27 dicembre 2009;
[3] Palermo, processo Perseo: boss condannati a 150 anni liberainformazione.org, 16 maggio 2012;

Il boss La Causa racconta la mafia catanese: da Nitto all'"incontinente"

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Catania, 19 maggio 2012 – Ne avevamo parlato nei giorni scorsi[1]: Santo La Causa, tra i più importanti esponenti della famiglia mafiosa catanese dei Santapaola, ha deciso di collaborare con la giustizia, ed il terremoto che era stato annunciato, nonostante le conferme delle sue parole debbano ancora arrivare, sembra essere iniziato.

«A Catania il capo dell'organizzazione Cosa Nostra è Vincenzo Santapaola», ha raccontato nei verbali posti al centro della seconda udienza del processo ordinario nato da uno dei filoni dell'inchiesta Iblis, il più importante processo attualmente in corso sulle presunte collusioni tra mafia, imprenditoria e politica cominciato ieri davanti al Tribunale di Catania e che vede interessati ventitré dei cinquantatré imputati iniziali. I verbali – risalenti alle prime dichiarazioni dell'ex boss, rilasciate il 5 ed il 15 maggio – saranno resi al più presto disponibili, stando a quanto assicurato dal procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro.

È stata Agata Santonocito, sostituto procuratore, ad aprire alle prime indiscrezioni. «Esistono due livelli» - ha spiegato il magistrato - «Uno basato sul controllo del territorio e la forza bruta e un altro che punta alle infiltrazioni nella politica e nell'imprenditoria».
Secondo l'accusa, ai vertici della famiglia ci sarebbero Vincenzo Santapaola – figlio di “Nitto” e non presente nella prima udienza dell'altro giorno perché colpito da dolori e incontinenza dopo una caduta in cella - e Giuseppe Ercolano. I due sarebbero stati coadiuvati da Natale Fillocamo, Rosario Di Dio e Pasquale Oliva - questi ultimi due referenti delle diramazioni provinciali della famiglia – insieme a Vincenzo Aiello, rappresentante provinciale di una famiglia il cui potere si estende, lungo la fascia jonica, fino a Siracusa e Ragusa e fino a Caltagirone ed Enna.

Fotovoltaico, parco tematico di Regalbuto, grande distribuzione – in particolare il parco commerciale Tenutella, oggi Centro Sicilia e la Safab[2], «su cui si sono concentrati gli interessi di diverse famiglie mafiose siciliane e che dimostra l'influenza sovraprovinciale di Cosa Nostra etnea» – ed edilizia pubblica i principali filoni d'affare seguiti dal clan.
Proprio sulla Tenutella La Causa ha tirato in ballo Nino Strano, ex assessore al Turismo regionale del Popolo della Libertà oggi transitato nel gruppo Futuro e Libertà, il quale «si adoperò per sbloccare le autorizzazioni necessarie». Affermazioni definite calunniose dal senatore.

Brindisi, doppio ordigno esplode davanti una scuola nel giorno della Carovana antimafia

foto:  giornaledipuglia.com
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Brindisi, 19 maggio 2012 – La dinamica non è ancora totalmente chiara, ma quel che è certo è che stamattina una bomba è esplosa alle ore 7,45 vicino all'Istituto professionale “Francesca Laura Morvillo Falcone”, moglie del giudice ucciso a Capaci il 23 maggio 1992 insieme a Vito Schifani, Rocco Dicillo ed Antonino Montinaro. Il bilancio parla di una ragazza deceduta ed altri sette studenti rimasti feriti - tra i quali uno in modo grave – immediatamente trasferiti all'ospedale Perrino.

Secondo quanto trapelato sino ad ora ad esplodere sarebbero stati addirittura due ordigni – entrambi di potenza considerevole esplosi in rapida successione – posti all'interno di un cassonetto per la raccolta differenziata, che sarebbe stato spostato volutamente, secondo gli inquirenti, per avvicinarlo all'istituto. L'esplosione, oltre ai danni visibili all'edificio scolastico, ha danneggiato persino la saracinesca di un negozio posto a circa un centinaio di metri dal luogo dell'esplosione.

Proprio il Tribunale, distante poche decine di metri dalla scuola, è considerato dagli inquirenti uno dei possibili obiettivi, anche se per oggi è previsto l'arrivo della Carovana Antimafia. Un possibile obiettivo che, qualora confermato, renderebbe ancora più inquietante chiedersi il perché di questi due ordigni.

«Ci sono i vigili del fuoco» - ha detto Fabiano Amati, assessore regionale alla Protezione Civile - «non ci sono studenti, un muro della scuola è completamente annerito e ci sono detriti ovunque. È un disastro».

Segui la diretta live da TeleNorba

Aggiornamento ore 11. Prime conferme da parte degli inquirenti, secondo i quali l'obiettivo erano gli studenti e la matrice di natura mafiosa. L'ordigno, allo stato attuale degli aggiornamenti, sarebbe stato costituito da due bombole di gas collegate con un timer.
Intanto è stato istituito un pool di inquirenti per arrivare quanto prima a capire il chi ed il perché delle bombe.
Partite, inoltre, le prime perquisizioni negli appartamenti dei pregiudicati più noti.

Aggiornamento ore 12. Salgono a due le vittime: dopo Melissa Bassi, 16 anni, è ormai confermata la morte di Ilaria Capodieci anche lei 16enne, operata d'urgenza . Entrambe di Mesagne come la maggior parte delle ragazze coinvolte nell'esplosione.

Intanto gli inquirenti stanno seguendo la pista della Sacra Corona Unita. Nei giorni scorsi infatti sono state registrate due operazioni contro l'organizzazione pugliese. Una contro il clan Tornese[1] l'altra proprio a Mesagne, dove - come scrive La gazzetta del Mezzogiorno oggi[2] - l'esplosione di oggi potrebbe essere collegata all'attentato avvenuto nella notte tra l'1 ed il 2 maggio ai danni di Fabio Marini, presidente della locale associazione antiracket.
C'è chi, intanto, come Piero Ancona su SkyTg24, ha iniziato a spostare l'attenzione dall'organizzazione pugliese a quella siciliana. Ma su questo ancora non c'è alcuna conferma. Si inizia a parlare, inoltre, della possibilità che le bombole di gas usate come ordigno siano addirittura tre.


Note
[1] Blitz nel basso Salento. Smantellato clan Scu. 35 arresti per droga, lagazzettadelmezzogiorno.it, 14 maggio 2012;
[2] Gli arresti a Mesagne, lagazzettadelmezzogiorno.it, 19 maggio 2012;

Voci dal pluralismo catanese. Intervista a Claudia Campese

foto: CTzen.it
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Catania, 18 maggio 2012 – In Italia in questi ultimi anni si è spesso denunciata, nel campo dell'informazione, l'assenza di un vero pluralismo. A Catania, poi, con l'impero cartaceo-televisivo di Mario Ciancio Sanfilippo di quel monopolio se ne è fatto direttamente un laboratorio. Nei giorni scorsi ne abbiamo parlato con Antonio Condorelli[1]. Oggi, su quegli stessi argomenti, facciamo quattro chiacchiere con Claudia Campese, direttrice di CTzen.it.

Puoi raccontarci, brevemente, com'è la situazione dell'informazione a Catania e che sbocchi ci sono per una testata giovane e fatta da ragazzi come la vostra?

Da sempre Catania vive in uno stato di monopolio dell'informazione. «L'ho letto sul giornale», dicono i catanesi, senza bisogno di specificare il nome. E' ovvio per tutti che si tratta de La Sicilia di Mario Ciancio Sanfilippo, direttore-editore con diversi interessi in quasi tutte le tv locali e nell'edilizia cittadina. Altri fogli, come Il Giornale di Sicilia, nonostante vengano venduti in città, non fanno base nel capoluogo etneo. C'è poi il caso de La Repubblica che solo da pochi anni distribuisce anche a Catania l'edizione regionale palermitana. Un embargo frutto di un accordo tra gli editori: Ciancio, proprietario dell'unica rotativa etnea, faceva stampare la testata nazionale a Catania a patto che questa non venisse distribuita nelle sue province di competenza. Catania, Siracusa e Ragusa appunto. Nel passato, qualunque tentativo di contrastare questo monopolio ha fallito. Negli ultimi anni sono nate diverse testate, riconducibili però – a grandi linee - a due formule: aggregatori on line di agenzie e giornali di controinformazione. Noi di CTzen non abbiamo intenzione di sostituirci a nessuno. Crediamo che, come in qualunque città civile del mondo, debbano esistere delle alternative. Più occhi e più voci tra cui sono i lettori a scegliere. Se a Catania sei giovane, attento a certe tematiche o semplicemente stufo dello stato della città è più probabile che troverai le notizie che ti interessano - o trattate con un taglio che ti soddisfa di più - su CTzen che su La Sicilia. Anche senza tirare in mezzo motivi ideologici.

Quanto riuscite e siete riusciti a fare in questi mesi, in merito alla creazione del vostro spazio nella situazione informativa catanese e, nel caso abbiate anche riscontri da altre città, siciliana?

A giudicare dal numero di lettori sempre in crescita, dagli attestati di stima che riceviamo, dalle critiche anche severe al minimo errore avevamo ragione a pensare che a Catania ci fosse ancora uno spazio informativo vuoto.

Il giornalismo e il libro paga dei potenti. Intervista ad Antonio Condorelli

foto: loschiaffo.org
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Catania, 16 maggio 2012 - Perché intervistare Antonio Condorelli? In questi mesi, raccontandovi quello che avviene in Sicilia, spesso ho avuto tra le mani materiale firmato da lui. Le sue inchieste, le sue denunce, sono state per me – estraneo geograficamente al contesto siciliano e quindi con un'altra quotidianità con la quale fare i conti – un modo per imparare a conoscere quella parte della Sicilia che mi interessa raccontare, cioè quella della mafia e dei suoi gangli economici, degli appalti dati sempre ai “soliti quattro” noti e tutte le altre storture di una regione – ma il discorso naturalmente sarebbe da ampliare all'intera penisola – che paga un prezzo altissimo ai troppi poteri forti che la tengono in pugno. Il giornalismo, naturalmente, rappresenta la prima barriera di difesa verso questi poteri, attraverso la denuncia e la pubblicazione di nomi, fatti ed episodi. Quando questo naturalmente, rispecchia quel senso “etico” di giornalismo di cui parlava Pippo Fava.


Ti chiederei di fare un breve excursus sulla situazione dell'informazione a Catania, che so essere accentrata per lo più nelle mani di un uomo solo, cioè Mario Ciancio Sanfilippo. E qual è, inoltre, la situazione nell'intera Sicilia?

L'informazione siciliana viaggia sul cartaceo prevalentemente attraverso tre grandi quotidiani (Giornale di Sicilia, Gazzetta del Sud, La Sicilia) che hanno in comune l'editore Mario Ciancio, socio del Giornale di Sicilia e della Gazzetta e unico proprietario de La Sicilia. I tre quotidiani hanno spezzettato il territorio e attraverso la distribuzione il sistema diventa blindato. In ciascuna edicola di Catania arrivano circa 200 copie de La Sicilia e massimo 9 della Gazzetta del Sud o del Giornale di Sicilia. Quindi il cittadino che vuole comprare un quotidiano, grazie a questo accordo commerciale trentennale, trova La Sicilia a Catania, il Giornale di Sicilia a Palermo, la Gazzetta del Sud nel messinese.
Ma il fattore determinante è quello della scelta dei cittadini e dei politici che fanno a gara per un trafiletto sul quotidiano di Ciancio, in una società basata sulla comunicazione, apparire sul quotidiano vuol dire esistere e per un politico è tutto. Il discorso vale anche per l'estrema destra e l'estrema sinistra. Faccio un esempio pratico: quando ho pubblicato sul Il Fatto Quotidiano la notizia che Mario Ciancio era indagato per concorso in associazione mafiosa non c'è stato un politico, un'associazione, compreso le “agguerrite” compagini di destra e di sinistra che hanno osato commentare, anche solo con un colpo di tosse, la notizia, confermata dalla Procura.

Messico, né silenzio né indifferenza

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Città Del Messico (Messico), 13 maggio 2012 - «Aiutami. Mi trovo in Messico e qui stanno succedendo cose orribili. Sabato scorso a Veracruz hanno ucciso una mia collega giornalista della rivista Proceso, per la quale scrivo anch'io. Si chiama Regina Martínez. È stata strangolata a casa sua e oggi, nello stesso Stato di Veracruz, hanno trovato i corpi di altri tre giornalisti. Qui in questo articolo[1] si dice ancora che sono due, ma proprio adesso abbiamo saputo che sono tre, e c'è anche il corpo di un'altra persona, ma ancora non sappiamo se sia un giornalista. In questo articolo[2] dicono che prima di essere uccisi questi giornalisti sono stati torturati e mutilati. In questo Stato, governato dal dicembre del 2010 da Javier Duarte, sono stati uccisi almeno 11 giornalisti. Undici nell'arco di un anno e mezzo. Le vittime sono Miguel Ángel López Velasco, suo figlio, fotoreporter Miguel López Solana; Yolanda Ordaz, Noel López Olguin, Regina Martínez Pérez. Oltre i tre di oggi. Aiutami a farlo sapere. Spero che tu possa diffondere la notizia sul sito di Ossigeno. Appena tornerò in Italia ne riparleremo».

Questo è l'appello arrivato ad Alberto Spampinato, direttore e fondatore di Ossigeno per l'informazione, l'osservatorio sui cronisti minacciati e sulle notizie oscurate con la violenza. Ad inviarlo Cynthia Rodriguez, giornalista messicana dal 2006 in Italia come corrispondente della rivista Proceso.

Ad ottobre[3] avevamo cercato di accendere i riflettori sul Messico – in molti casi proprio attraverso gli articoli di Proceso – ritenendo che molte siano le similitudini con il nostro paese (a partire dal potere dei cartelli della droga e delle famiglie di mafia passando per la corruzione della classe politica e, naturalmente, la pericolosità del fare il giornalista). Diventa ancora più importante, oggi, parlare di quel che avviene in quel paese. Innanzitutto perché, come ricorda Spampinato, «ciò che accade in Messico non è un problema solo del Messico[4]». E poi perché la guerra al giornalismo libero scatenata in Messico – dove dal 2000 ad oggi sono già più di settanta i giornalisti uccisi, con 172 aggressioni avvenute nel solo 2011, come segnala l'associazione “Articulo 19” - non può essere ignorata da chi ha per anni convissuto con un giornalismo spesso tacciato di essere schierato più con il potere che non con la verità.

In Messico, nelle scorse settimane, giornaliste e giornalisti come Carmen Aristegui, José Gil, Anabel Hernández, sono scesi in strada per protestare contro questa situazione, sostenendo comunque che «quello che i mezzi di informazione devono fare è continuare ad informare».

Storia di Nike bruciata a vent'anni e del racket nigeriano

foto: dirittodicritica.com
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Misilmeri (Palermo), 13 maggio 2012 – A dicembre il corpo di Nike Favour Adekunle, 21enne nigeriana, lo ritrovarono carbonizzato in mezzo ai rifiuti nelle campagne di Misilmeri, in una stradina di campagna utilizzata ormai come discarica e difficile da raggiungere in auto.
Due giorni fa l'arresto di Giuseppe Pizzo, 58enne operaio di Belmonte Mezzagno, incensurato. Interrogato nei mesi scorsi, Pizzo ha sempre negato tutto. Ma le prove fornite dalla scientifica – primo fra tutti il sangue della giovane ritrovato sul suo pick-up nero – danno una versione decisamente diversa.

Nike era arrivata in Italia agli inizi del 2011 con la promessa di un lavoro sicuro. Promessa che, come spesso capita, si era trasformata presto nell'incubo del marciapiede e del giogo del racket nigeriano, una tra le organizzazioni criminali più potenti dopo quelle italiane e che – come raccontava la giornalista Jenny Kleeman dalle pagine del quotidiano britannico The Independent nell'aprile dello scorso anno[1] – fanno leva su un rito, definito magico nella loro credenza culturale, chiamato “juju”.

Quando vengono acquistate dalle loro famiglie – tutte di Benin City, diventato ormai uno dei centri nevralgici del traffico internazionale di esseri umani a fini di prostituzione – le ragazze contraggono un debito, compreso tra sessanta e centomila euro, verso chi le inganna promettendogli un futuro che non arriverà se non quando decideranno di sporgere denuncia verso i loro protettori e le “maman”, spesso ex prostitute che una volta estinto il debito decidono di passare da sfruttate a sfruttatrici alla quale le ragazze vengono affidate una volta arrivate in Italia. Sarà alle “maman” che le ragazze dovranno restituire il debito ed alle quali pagheranno l'affitto del marciapiede.
Chi non guadagna abbastanza subisce violenze e minacce, le quali riguardano spesso l'eventualità di ritorsioni verso i loro familiari.
Per questo ribellarsi diventa estremamente difficile.

Nike, però, aveva deciso di farlo. Per questo – come raccontava Claudia Brunetto su Repubblica a febbraio[2] – pochi giorni prima di morire aveva comprato un biglietto per Roma, dove avrebbe chiesto il nulla osta alla sua ambasciata per potersi sposare con il suo fidanzato palermitano, chiudendo con quella vita.
In quei giorni, inoltre, le ragazze nigeriane vittime di tratta erano scese per le strade di Palermo a protestare. «Chiediamo maggiore sicurezza. Maggiori controlli e vigilanza. Non siamo carne da macello ma esseri umani in difficoltà. Questa città ci ha accolte con tante promesse, ma adesso siamo confuse. Quello che è accaduto a Loveth [Loveth Eward, uccisa agli inizi di febbraio il cui corpo fu rinvenuto vicino ad un cassonetto della spazzatura in via Filippo Juvara, vicino al Palazzo di Giustizia, ndr]».

Storia di mafia, Stato e Chiesa

foto: tg24.sky.it
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Cinisi (Palermo), 13 maggio 2012 - «Ultrà di sinistra dilaniato dalla sua bomba sul binario», scriveva così il Corriere della Sera il 10 maggio 1978, in merito all'omicidio di Peppino Impastato.
Chissà se don Pietro D'Aleo, parroco della Ecce Homo abbia riletto questo articolo nei giorni scorsi, preparando la giornata commemorativa in ricordo del fondatore di Radio Aut.

«I tempi non sono maturi», ha infatti spiegato il parroco a Giovanni Impastato, che del fratello ha raccolto in qualche modo l'eredità e che si era limitato semplicemente a chiedere una messa per il fratello. La celebrazione è stata sostituita da una veglia di preghiera per la legalità e la giustizia sociale officiata da don Luigi Ciotti, che in contesti antimafia non ha bisogno di presentazioni.

Caterina Palazzolo, responsabile dell'azione cattolica della parrocchia, ha spiegato che la scelta di negare la messa in memoria di Peppino si basa non solo sul fatto che gli esponenti del mondo comunista non avrebbero apprezzato (in un anacronistico revival di “Peppone e don Camillo”), ma anche per scongiurare un possibile incidente diplomatico tra Giovanni Impastato e la sua “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” e Salvo Vitale, amico di Peppino Impastato che oggi guida l'associazione in memoria dell'ex esponente di Democrazia Proletaria maturata due anni fa, quando il sindaco si presentò – insieme ad altri suoi colleghi – dinanzi la casa che aveva ospitato Gaetano “don Tano Seduto” Badalamenti. Una sfilata di colletti bianchi non proprio accettata dall'associazione Impastato.

A questo punto la domanda è d'obbligo, sia alla luce della storia antimafia di una certa parte della Chiesa, sia alla luce di una certa vicinanza di un'altra parte di quella stessa Chiesa al mondo mafioso: i tempi non sono maturi per cosa? Per dire da un pulpito, come diceva Peppino, che «la mafia è una montagna di merda»? Non sia mai che Enrico “Renatino” De Pedis - boss di quella Banda della Magliana che, è ormai storia, sappiamo avesse rapporti molto stretti con Cosa Nostra - si rigiri nella tomba.

Intanto, nel paese che ormai gira al contrario, arriva l'annuncio-shock della ministra dell'Interno Annamaria Cancellieri: «Non dobbiamo aver paura di mettere in vendita i beni confiscati», a dispetto delle tante associazioni antimafia che da anni lottano per il riutilizzo sociale di questi beni. Non contenta, Cancellieri ha risposto a chi le faceva giustamente notare la non certo remota possibilità che questa apertura non significhi altro che rimettere quei beni nelle mani dei boss che, qualora ciò dovesse avvenire, «vorrà dire che saranno nuovamente sequestrati e confiscati e lo Stato ci guadagnerà due volte». Qualcuno spieghi alla ministra che fare questo tipo di indagini non è così semplice come scrivere un disegno di legge.
Per il resto, davvero, lascio al lettore ogni altro tipo di commento.

Vent'anni a Giuseppe Liga, l'architetto-boss erede di Salvatore Lo Piccolo

foto: palermo.repubblica.it
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Palermo, 13 maggio 2012 – L'accusa aveva chiesto per lui ventisette anni, i giudici della terza sezione del Tribunale palermitano hanno deciso che vent'anni e sei mesi di carcere potessero bastare per Giuseppe Liga, 60 anni, per i reati di associazione mafiosa ed estorsione. Assolto, invece, dall'accusa di intestazione fittizia di beni.
Accusa caduta anche per gli altri due imprenditori coinvolti nel procedimento – Amedeo Sorvillo ed Agostino Carollo – in relazione alla Euteco, società rconducibile a Liga. Per loro, i pubblici ministeri Francesco Del Bene ed Annamaria Picozzi avevano chiesto quattro anni a testa.
Inoltre, saranno risarciti 15.000 euro ai commercianti costituitisi parte civile, 5.000 alle associazioni antiracket, 10.000 alla Provincia e 7.500 al Movimento cristiano lavoratori, di cui Liga è stato dirigente fino al 2010, data del suo arresto.

Che svolgesse un'attività parallela a quella di architetto, gli inquirenti lo scoprirono dalle carte trovate in possesso di Salvatore Lo Piccolo il 5 novembre 2007, quando gli uomini della Catturandi della Polizia di Stato gli misero le manette ai polsi, chiudendo così la sua reggenza della Cosa Nostra palermitana. Proprio a Liga era stato affidato il mandamento di Tommaso Natale-San Lorenzo, come si è scoperto da una discussione intercettata tra il boss di Bagheria Pino Scaduto e Giovanni Adelfio, Antonino Spera e Sandro Capizzi della famiglia di Santa Maria del Gesù in merito al tentativo di riorganizzare la Commissione, tentativo concluso poi dall'operazione denominata “Perseo” il 16 dicembre 2008.
Come scrivevamo già ad ottobre[1], inoltre, gli uomini del Nucleo Operativo Ecologico contestano al boss anche di essere a capo della “sezione ecomafia” dei clan palermitani.

Un altro documento che assume diversa importanza è la foto, scattata dagli investigatori della Guardia di Finanza il 2 giugno del 2009, nella quale quale si vede Liga entrare a Palazzo d'Orleans, sede della Regione per incontrare – come confermato dalle intercettazioni – Raffaele Lombardo, a processo in questi mesi con l'accusa di aver intrattenuto rapporti con la mafia catanese nell'ambito del processo Iblis. Lombardo, chiamato a testimoniare al processo, ha confermato i rapporti pur precisandone la natura esclusivamente politica e ribadendo, inoltre, che all'epoca dei fatti non era nota la levatura criminale di Liga.
Il sostituto dei Lo Piccolo e, soprattutto, il reggente della loro ala finanziaria. È stato descritto così da una lunga serie di collaboratori di giustizia Giuseppe Liga, sul quale le indagini sono ancora in corso mentre lui è detenuto nel carcere di Opera, in compagnia di seri disturbi cardiaci.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.it/2011/10/tre-arresti-palermo-cosa-nostra-mette.html

Processo Iblis, udienza rinviata al 24 maggio mentre la Procura chiude le polemiche interne

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Catania, 13 Maggio 2012 – Già tradita, da parte del presidente della Regione Raffaele Lombardo, la promessa di partecipare alle udienze del filone del procedimento che lo vedono coinvolto, insieme al fratello Angelo, deputato nazionale del Movimento per le Autonomie, per voto di scambio aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa.
D'altronde l'udienza preliminare tenutasi nei giorni scorsi è durata solo una manciata di minuti, quelli necessari al giudice per le udienze preliminari Marina Rizza a rinviare il tutto al prossimo 24 maggio per un difetto di notifica agli avvocati difensori dei Lombardo. Sarà lei, adesso, a decidere se imputare i due anche per concorso esterno in associazione mafiosa.

La vera notizia, però, non è l'assenza di Lombardo quanto la presenza, in massa, della Procura catanese. All'udienza hanno infatti partecipato non solo Giuseppe Gennaro ed Agata Santonocito, due tra i sostituti procuratori titolari del fascicolo originario ed il procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro, che sostiene l'accusa nel processo per voto di scambio, ma la sorpresa è stata la presenza di Giovanni Salvi, procuratore capo di Catania, che ha voluto lanciare un segnale forte ed inequivocabile che il vento, in quella Procura, sta cambiando davvero, dando così seguito ad un altro gesto importante per la parte sana di Catania, cioè la sua presenza alla commemorazione dell'omicidio di Giuseppe Fava lo scorso gennaio[1], primo procuratore a farlo in questi lunghi ventotto anni.
«Io sarò presente alle udienze preliminari. L'intero ufficio è unito e le seguiremo insieme», ha sottolineato Salvi, chiudendo di fatto l'epoca degli scontri intestini.

Oltre agli aspetti puramente simbolici, la presenza dell'intera squadra va letta anche da un punto di vista più sostanziale: non solo il fatto che il procedimento Iblis – insieme a tutti i vari filoni d'inchiesta, dunque anche quello relativo ai fratelli Lombardo – è attualmente uno tra i più importanti processi che si sta tenendo in Sicilia, ma anche l'inizio della collaborazione di Santo La Causa, reggente del clan dei Santapaola che con le sue dichiarazioni potrebbe aprire nuovi scenari anche nell'inchiesta Iblis[2].


Note
[1] Fava, storica visita del procuratore capo. Rinascono intanto I Siciliani. Ma Giovani di Claudia Campese, CtZen.it, 6 gennaio 2012;
[2] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/05/santo-la-causa-collabora-con-la.html

Processo Rostagno, le videocassette tornano al centro del dibattito

foto: liberainformazione.org
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Trapani, 12 maggio 2012 – Con la convocazione di Lorella Raggi della Saman, dell'ispettore della Polizia di Stato Bruno Lorenzi e di Antonio Dales della Digos, che il pubblico ministero Francesco Del Bene ha precisato non essere tra quelli indicati, si è aperta ufficialmente l'udienza numero ventotto del processo relativo all'omicidio del giornalista e sociologo Mauro Rostagno, ucciso a Trapani il 26 settembre 1988.

Il primo a salire sul banco dei testimoni è proprio Dales, in servizio a Trapani fin dal 1986, nonostante lo stesso pubblico ministero abbia evidenziato la possibilità che per lui non si sia fatto in tempo a produrre domande. «Avrò presenziato in qualche atto, non ho fatto indagini e non ho mai partecipato ad accertamenti presso l'aeroporto di Kinisia», ha detto il teste prima di essere congedato, dando probabilmente parziale ragione all'avvocato Vito Galluffo – difensore di Vito Mazzara – che lo aveva definito “teste irrilevante”.

Dopo Dales è il turno di Lorella Raggi. «Lavoro alla Saman (la comunità di recupero per tossicodipendenti aperta da Rostagno e Francesco Cardella, ndr) dal novembre 1990. Sono stata sentita per questo processo una o due volte, una volta a Palermo e un'altra volta a Milano. E in generale per Saman forse più di sei volte», ha esordito la teste.
«Divenni amministratore di Saman su invito di Cardella nel maggio 1995, dopo che lo stesso era stato arrestato per truffa nella gestione della comunità. Cardella chiese a me, Giancarlo Zuccotti e Luisa Fiorini di prendere in mano l'associazione. Io mi occupavo della contabilità. Era una attività che già facevo quando c'era lui. Cardella decise di passare la gestione di Saman dopo l'arresto perché voleva andare via dall'Italia.
Verso il luglio 1995 Cardella se ne andò in Nicaragua. Noi continuavamo a dargli comunicazione su Saman. Ci disse di comprare per conto della Saman un immobile suo, intestato ad una società di Milano di via Plinio, per permettere a lui di introitare una somma di denaro. Ci chiese di acquistare l'immobile per tre miliardi e ottocento milioni di lire, un milione e ottocento li voleva subito. Erano i soldi che Saman aveva sui conti correnti».
L'affare, comunque, salta, perché Lorella Raggi e Luisa Fiorini cambiano idea.

Le lacrime istituzionali dimenticano gli operai

foto: linksicilia.it
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Termini Imerese (Palermo), 12 maggio 2012 – Cinque mesi. Da tanto stanno lottando gli operai di Termini Imerese per capire quale futuro li attende dopo l'ormai sicura fine del decennale rapporto con la Fiat.
Un futuro che, dicono, sarà targato Dr Motors, «un'azienda in crisi (con circa trenta milioni di debiti, ndr), che non paga i suoi dipendenti, che non costruisce macchine ma le importa già assemblate dalla Cina, che ha un rapporto con i sindacati a dir poco conflittuale», come scrivevano pochi giorni fa Emiliano Morrone ed Andrea Succi su Infiltrato.it[1]. Nonostante queste poche righe basterebbero per mandare a monte qualunque trattativa tra chi di economia ha inteso quanto meno le basi minime, il governo di quei tecnici che assomigliano sempre più ai politici (tanto da aver ripreso quella vecchia abitudine bipartisan del dare la colpa di tutto al governo che c'era prima[2]) considera l'azienda l'unico interlocutore credibile.
Gli effetti di quella “credibilità”, naturalmente, non la pagheranno tecnici e politici ma gli operai, che per questo hanno deciso di fare da soli, occupando nei giorni scorsi la sede dell'Agenzia delle Entrate e, per qualche ora, la sede della Serit (la versione siciliana di Equitalia). «Il governo nazionale pretende il pagamento delle tasse ed il rispetto delle leggi, ma non mantiene gli impegni presi con i 2.200 lavoratori: ha stralciato le tutele per i 640 esodati, a cui era stato garantito l'accompagnamento pensionistico pre-riforma, e sta mostrando tutta la sua inadeguatezza come garante di un piano di reindustrializzazione che non parte e potrebbe non partire mai. La politica è sparita, forse interessano più le elezioni che il destino di duemila persone», dice Roberto Mastrosimone, leader della Fiom di Palermo.
Per loro era scesa in campo direttamente la ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero, che aveva garantito agli operai due anni di cassa integrazione straordinaria per cessazione attività e altri tre o quattro di mobilità, fino al compimento dei 65 anni di età. Insomma, un vero e proprio accompagnamento alla pensione. Poi è arrivata l'approvazione della nuova riforma delle pensioni a bloccare tutto.

Non si è ancora capito quale modello economico i tecnici abbiano utilizzato per definire accettabile la situazione in cui un operaio, che magari si è spaccato la schiena in un lavoro usurante in questi anni, possa riuscire a barcamenarsi tra fare la spesa, pagare bollette in aumento (con salari per i quali diventa una benedizione la non erosione del valore reale) in un arco di tempo di quattro o cinque anni in cui questi non avrà entrate.

Santo La Causa collabora con la giustizia. Trema la Catania criminale

foto: catania.blogsicilia.it
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Catania, 12 Maggio 2012 – È stata definita come un vero e proprio terremoto la decisione di collaborare con la giustizia dell'ultimo dei “pentiti eccellenti” della Cosa Nostra catanese.
A “pentirsi” - e le virgolette in questi casi sono d'obbligo, dato che non si capisce mai dove finisca il pentimento vero e dove inizino gli sconti di pena – stavolta è Santo La Causa (nella foto), condannato per associazione mafiosa nel 2001 e poi per estorsione aggravata latitante fino al 2009, data del suo arresto, avvenuto mentre stava organizzando un summit a Belpasso per ridefinire le gerarchie interne al clan. Fino a quella data, il suo nome compariva nella lista dei trenta ricercati più pericolosi d'Italia. Sarebbe stato lui a reggere le sorti del clan dei Santapaola.
La decisione di passare dall'”altra parte della barricata” sarebbe stata presa dal boss lo scorso 5 maggio, quando La Causa ha iniziato a collaborare con il procuratore aggiunto Carmelo Zuccaro ed i sostituti procuratori Giuseppe Gennaro, Antonino Fanara e Agata Santonocito e resa nota solo ieri, durante il processo d'appello scaturito dall'operazione “Plutone”.

Detenuto agli inizi degli anni Novanta presso l'Asinara e poi al Pagliarelli di Palermo, nel 2000 viene coinvolto dall'operazione “Orione” che ha coinvolto ben sessanta appartenenti al clan. Già allora, secondo le ricostruzioni fatte dagli inquirenti, La Causa avrebbe ricoperto un ruolo chiave all'interno della famiglia.
Nel 2005 la Corte di Appello catanese gli infligge altri sette anni di reclusione con l'accusa di associazione per delinquere di tipo mafioso, pena indultata l'anno successivo. Da quel momento del boss si perdono le tracce.

Secondo alcuni collaboratori di giustizia, il boss era «uno in grado di fare tremare Catania, per carisma ed intelligenza». Vedremo nei prossimi mesi, dunque, se quello che adesso viene annunciato come un vero e proprio terremoto si rivelerà tale.

E mentre La Causa si “pentiva”, gli uomini della squadra mobile mettevano le manette al 63enne Giuseppe Garozzo, detto “Pippu 'u maritatu”, arrestato con altri venti uomini appartenenti al suo clan, la cosca dei Cursoti, che Garozzo stava tentando di riorganizzare.
Oltre agli arresti catanesi, che dovranno rispondere dei reati di associazione mafiosa, estorsione, traffico di stupefacenti e detenzione di armi da guerra, c'è da registrare anche un fermo in Piemonte, dove la cosca si stava espandendo.

"Diaz" quotidiane. Viaggio nelle "carceri per sans papiers"

foto: tuttosquat.net
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LAMPEDUSA, 6 maggio 2012 – «Non aver elencato, almeno nei titoli di coda del film Diaz, i nomi dei funzionari di pubblica sicurezza processati e condannati, mi ha fatto ricordare il rapporto finale sui desaparecidos in Argentina, presentato all'opinione pubblica senza l'allegato con i nomi dei responsabili dei crimini, e un proverbio: la vipera morde chi è scalzo», scriveva su Il Manifesto, due giorni fa Luis Mario Borri, in merito al film di Daniele Vicari che – da quel che si legge in giro – è ben altra cosa da quella denuncia sociale che il sottotitolo - “don't clean up this blood”, “non pulire questo sangue” - preannunciava. Ma da Genova 2001 di tempo ne è passato. Perché, allora, “addomesticare” un film che avrebbe potuto invece essere ben altra cosa?

Da Genova 2001, comunque, le “Diaz” si sono moltiplicate. Oggi si chiamano Centri di Identificazione ed Espulsione, luoghi nei quali i migranti entrano solo perché scappati da paesi in guerra o da paesi “instabili”, dove non c'è il tempo di fare domanda scritta per avere i documenti in regola. Anche perché spesso il posto in cui farla neanche c'è.
Arrivano in Italia e vengono reclusi in questi centri, dove dalla scorsa estate si può rimanere rinchiusi anche un anno e mezzo senza aver commesso alcun reato penale (al massimo si tratta di un illecito amministrativo). E mentre si aspetta ci si ritrova in mezzo a pestaggi non denunciati per paura – quando non vengono direttamente investiti dai mezzi delle forze dell'ordine come avvenuto al Centro di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano[1] - psicofarmaci, sedativi dietro sbarre alte sette metri e filo spinato. È stato registrato più di un caso in cui a finire in questi centri siano ragazzi nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri, in quanto l'Italia dà la cittadinanza a ragazzi nati da genitori italiani all'estero, che magari con il nostro paese non hanno il minimo contatto (ma che molto aiutano i governi con il voto delle “circoscrizioni estere”) trattando i cosiddetti “G2”, i figli di genitori non italiani nati però nel nostro territorio, come veri e propri “stranieri nella loro nazione”, come cantava nel 2006 Amir, rapper di padre egiziano ma romano di nascita e accento.
Una situazione denunciata sia dalla commissione Diritti Umani del Senato, che lamenta anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento, e dall'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non proprio quelle che si definirebbero “organizzazioni estremistiche”.
Tutto, peraltro, viene fatto senza che ai giornalisti venga permesso di entrare.

Università "dei veleni" Catania, la difesa chiede la non ammissione del dossier-Patanè

foto: ctzen.it
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Catania, 6 maggio 2012 – «Quei documenti non possono essere ammessi come prove». A dirlo sono i difensori degli imputati nel procedimento sulla facoltà di Farmacia dell'università catanese, ribattezzata “facoltà dei veleni” e della quale vi raccontavo un paio di settimane fa[1].
Tra le prove non ammissibili secondo la difesa, ci sarebbero i documenti relativi ai lavori svolti fino al 2009 nell'edificio 2 della Cittadella universitaria, che non potrebbero essere utilizzati in quanto riferibili ad un periodo successivo ai fatti presi in considerazione dal processo. Soprattutto, però, tra le prove non ammissibili ci sarebbero le cinque pagine della “Descrizione dell'attività svolta durante il corso di dottorato di ricerca in Scienze farmaceutiche”, poi conosciuto come “il memoriale” di Emanuele Patanè, dottorando morto nel 2003 per un tumore al polmone che per primo ha denunciato quello che succedeva nel laboratorio dei veleni.

«Nel laboratorio non vi è un sistema di aspirazione e filtrazione idoneo, infatti si avvertivano sempre odori sgradevoli, tossici e molto fastidiosi, spesso eravamo costretti ad aprire le porte in modo da far ventilare l'ambiente» - scriveva il giovane dottorando nel suo memoriale, di cui ampi stralci sono stati ripresi dai giornalisti di “Repubblica” Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti in “Morti e silenzi all'università. Il laboratorio dei veleni”. «Le sostanze chimiche, i reattivi e i solventi erano conservati nel laboratorio sulle mensole, sui banconi, in un armadio sprovvisto di un sistema di aspirazione e dentro due frigoriferi (per uso domestico) anch'essi non dotati di un sistema di aspirazione e filtrazione[...]Nella raccolta dei rifiuti e nel loro trasporto non vi era nessun sistema di sicurezza e, inoltre, queste operazioni non venivano eseguite da personale specializzato», si può leggere in altre parti del testo. È proprio l'acquisizione di questo documento da parte degli organi competenti ad aver reso possibile che si aprisse il processo nel quale – lo ricordiamo – sono indagati per disastro ambientale, falso e gestione di discarica non autorizzata Antonio Domina, ex direttore amministrativo dell'Università, Lucio Mannino, dirigente dell'ufficio tecnico, Vittorio Franco, direttore del dipartimento di Scienze farmaceutiche all'epoca capo della commissione permanente per la sicurezza nella facoltà, Marcello Bellia, Francesco Paolo Bonina, Fulvio La Pergola, Giovanni Puglisi e Giuseppe Ronsisvalle, accusati di non aver verificato l'effettiva sicurezza delle strutture dell'ateneo, per un periodo che va dal 2004 al 2007.