Oil for nothing (di Luca Tommasini)

Si chiama “Oil for Nothing” il video realizzato da Luca Tommasini e prodotto dalla Campagna per la riforma della Banca Mondiale sugli impatti delle attività estrattive delle multinazionali nel Delta del Niger. Nonostante le difficoltà legate alla diffusa militarizzazione del territorio, Tommasini è riuscito a raccogliere numerose testimonianze e immagini che evidenziano come il fenomeno del gas flaring (il gas bruciato in torcia collegato all’estrazione del petrolio) e gli sversamenti di greggio comportino degli effetti molto negativi sull’ambiente e sulle comunità locali. Il tutto senza che le oil corporation si curino troppo delle conseguenze nefaste delle loro operazioni.

Repubblica Democratica del Congo, le elezioni all'ombra di una nuova guerra civile?



Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo)– Associare in questi giorni le parole “Africa” ed “elezioni” significa, principalmente, parlare del voto egiziano, il primo voto libero dalla caduta di Hosni Mubarak, dove – sostiene il quotidiano indipendente Al-Shorouk - «i primi risultati vedono il Partito di Libertà e Giustizia (meglio noto come “Fratellanza Musulmana”) al 47% dei voti e il Blocco Egiziano (una coalizione di partiti laici, ndr) al 22%». Ma il paese dei faraoni non è l'unico paese, nel continente, ad andare al voto.

Dal 2002, da quando cioè il paese non è più ufficialmente nella guerra civile, questa è la seconda volta che i suoi cittadini sono chiamati alle urne. Si mobiliteranno trentuno milioni di cittadini, chiamati ad eleggere il nuovo presidente della Repubblica – undici i candidati – ed i cinquecento parlamentari (con ben 19mila candidati).

A contendersi lo scranno più importante, quello della presidenza, ci saranno Etienne Tshisekedi, leader dell'opposizione, e Joseph Kabila, che governa ininterrottamente dal 2001, da quando ha preso il potere a seguito dell'omicidio del padre Laurent Desirè Kabila da un membro del suo staff ucciso subito dopo.

Più che il risultato del voto, dove sembra scontato si arrivi al terzo mandato di Kabila dopo quelli del 2001 e del 2006 anche per le forti divisioni interne all'opposizione, quello che interessa capire è che tipo di paese uscirà fuori dalla tornata elettorale alla luce dei tanti scontri che si sono registrati nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni tenutesi lunedì 28.
Tre morti sabato a Kinshasa, la capitale del paese, dodici seggi dati alle fiamme nella roccaforte dell'opposizione, Kananga (capitale della provincia del West Kasai), dove sarebbero anche stati rinvenuti sacchi di schede precompilate a favore di Kabila.

L'opposizione è inesistente, e quella che c'è rischia di fare danni, come nel caso del già citato Tshisekedi, 78 anni, esponente dell'Union pour la démocratie e le progrès social che, in barba al nome del partito di cui fa parte, si è proclamato presidente chiedendo ai suoi sostenitori di «correggere i sostenitori della maggioranza» e «aprire le porte delle prigioni per liberare i detenuti dell'opposizione».

«Nelle ore del voto» – scrive Alberto Tundo su PeaceReporter - «la tensione è salita per i prevedibili problemi legati alla scarsa consuetudine con le procedure elettorali, in un Paese in cui ci sono due fusi orari, con una popolazione scarsamente alfabetizzata che tuttavia si è dovuta confrontare con liste elettorali lunghe anche quaranta o sessanta pagine. Alcuni seggi hanno aperto con notevole ritardo, in altri non erano presenti schede né urne. Il timore è quindi che, come più volte annunciato, Tshisekedi possa non riconoscere la sconfitta».
Elettori del partito di Kabila hanno più volte denunciato intimidazioni da parte dei sostenitori dell'auto-proclamatosi presidente della repubblica. Dice Vital Kamerhe, un altro dei candidati, ai microfoni di Radio France International: «La Guardia Repubblicana nelle strade di Kinshasa. È così che sono cominciate le cose in Costa d'Avorio, con le forze speciali». Ed anche allora, come sottolina Tundo, la data delle elezioni fu il 28 novembre.

Kosovo, un fronte che si riaccende?


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/kosovo-un-fronte-che-si-riaccende/21334/

Kosovska Mitrovica (Kosovo nord) - Sessantacinque manifestanti serbi e venticinque soldati della Kfor sono rimasti feriti negli scontri dei giorni scorsi, seguiti allo smantellamento di una barricata composta da carcasse di camion ed autobus nel villaggio di Jangjenica (dieci chilometri ad ovest di Mitrovica, nel nord del paese).

Ferite da armi da fuoco, invece, per tre militari tedeschi, stando alle dichiarazioni di Frank Martin, portavoce delle forze Nato sul territorio kosovaro. Tra i serbi feriti, molti dei quali a seguito dell'uso di pallottole di gomma, c'è anche Krstimir Pantić, sindaco di Mitrovica.
Uwe Nowitzki, portavoce della Kfor, ha dovuto spiegare che l'uso dei lacrimogeni e dei manganelli si è reso necessario in quanto i militari sono stati costretti all'autodifesa, e che hanno deciso di desistere in quanto «le barricate non valgono la perdita di vite umane».

Il clima nel nord del Kosovo è tornato a farsi caldo già dalla metà di settembre, quando a Brnjak e Jarinje, sul confine tra Kosovo e Serbia sono stati dispiegati doganieri dipendenti da Pristina, una decisione definita inaccettabile dal ministro serbo per il Kosovo Goran Bodganovic, in quanto «presa senza nessuna consultazione». La Serbia, infatti, non riconosce l'indipendenza del Kosovo, dichiarata unilateralmente il 17 febbraio 2008 e non accettata dalla popolazione serba del Kosovo del nord, che da qualche giorno ha stilato una vera e propria “dichiarazione d'indipendenza” ulteriore. «Dopo tanti anni di sofferenza e la tendenza delle istituzioni kosovare ad assimilare i serbi» - si legge nel documento - «ci sentiamo costretti a proclamare la nostra indipendenza», l'eco della quale arriva direttamente agli alti vertici serbi, dove il vicepresidente del governo, Ivica Dacic, si chiede «come mai questo diritto è stato riconosciuto agli albanesi che non volevano vivere in Serbia?»

Per oggi è, peraltro, programmata la riunione tra Belgrado e Pristina a Bruxelles. I due valichi saranno al centro delle discussioni. In attesa di capire, il 9 dicembre prossimo, se la Serbia entrerà o meno a far parte dell'Unione Europea. Gran parte della decisione, come è noto, è condizionata proprio dalla ripresa del dialogo con Pristina. I risultati, per adesso, non sono proprio quelli sperati. E la richiesta dell'indipendenza del Kosovo nord non fa certo sperare in un miglioramento.

Messico, l'espansione continentale dei narcos


Morelia, Stato di Michoacán (Messico) - Milenio Television è riuscita ad entrare in possesso di una registrazione audio (un estretto del quale è riportato nel video in allegato) nel quale si sente un uomo, identificato come Horacio Morales Baca, detto “El Perro” (“Il cane”), appartenente al cartello de “La Familia” a Tuzantla (nella zona est dello stato di Michoacán) che minaccia alcuni elettori del Prd (il Partido de la Revoluciòn Democràtica) affinché dirottino il loro voto a favore di Julián Rodríguez Rosales del PRI (il Partido Revolucionario Institucional), così da spostare il risultato elettorale verso il centro.

«Nessuno sa per chi andate a votare, però si può vedere. Alla fine delle elezioni» - continua Morales - «mi danno una copia dell'elenco di chi ha votato e per chi, questa lista è confidenziale, e se qualcuno qui ha votato per Javier saranno problemi». Rodríguez Rosales ha battuto il contendente del Prd per 33.000 voti, ottenendone in totale 329.000. Quanti di quei voti siano arrivati tramite pressioni di questo tipo rimarrà probabilmente un mistero.
Se non ci fossero gli americani. Ne avevamo già parlato agli inizi del mese quando raccontavamo[1] delle operazioni “Fast and Furious” e “Receptor Abierto” con le quali i cartelli – sfruttando una rete di controlli alla frontiere evidentemente fallace – comprano le armi negli Stati Uniti, dove è molto più semplice acquistarle grazie al II emendamento, per poi utilizzarle per insanguinare le strade messicane. Grazie ad una indagine congiunta tra i governi dei due paesi, nei giorni scorsi è stato possibile identificare attraverso il sistema E-Trace, che permette di comparare le armi in assicurate ai cartelli con i database statunitensi, venticinque trafficanti di armi – alcuni dei quali cittadini americani – che assicurano rifornimento costante ai cartelli. Secondo l'indagine circa l'80 per cento delle armi utilizzate dai cartelli proviene dagli Stati Uniti, principalmente da Texas, Arizona, California, Connecticut, Florida, Ohio e Luisiana.
Secondo un report della Secretería de Defensa Nacional (Sedena), dal 1 gennaio al 24 novembre scorsi le forze dell'ordine messicane hanno sequestrato 29.239 armi, il maggior quantitativo mai sequestrato sotto l'amministrazione Calderón Hinojosa, “battendo il record” - stabilito lo scorso anno – di 28.128.

Messico che peraltro – come denuncia Antônio Rangel Bandeira dalle pagine di Notirex.com[2] – ha negli ultimi anni soppiantato il Brasile, diventando uno dei principali fornitori di munizioni in America Latina e nel Caribe, in quanto «le munizioni messicane sono più economiche delle altre».

"Our democratic boys". Piccola storia ignobile del Cnt libico


Dall'omicidio di Mu'ammar al-Gaddafi in Libia non succede più niente. Stando quantomeno ai media mainstream, che hanno quasi completamente oscurato la “nuova Libia” del Consiglio nazionale di transizione. La realtà dei fatti – come dimostrano fonti indipendenti come Human Rights Investigation o la giornalista Lizzie Phelan o accreditate in Occidente come Amnesty – è però che tra torture, linciaggi e genocidi xenofobi, la “nuova Libia” assomiglia tanto a quella vecchia.


L'Aja - «Il mio nome è Mu'ammar al-Gaddafi. Considero questo tribunale falso, in quanto chiamato a produrre false giustificazioni per i crimini di guerra commessi dall'Occidente in Libia. I media internazionali hanno iniziato una caccia alle streghe ed io non ero nelle condizioni di rispondere in modo adeguato cosicché è ora inimmaginabile che questa Corte possa giudicarmi».
Ha voluto disconoscere la Corte che lo giudicava – quella internazionale de L'Aja – accusata di essere «un fantoccio nelle mani della Nato». Si è presentato così, in quello che è apparso come un vero e proprio “contro-processo” all'Occidente l'ex leader libico Mu'ammar al-Gaddafi, accusato di genocidio e crimini contro l'umanità, arrestato nei giorni scorsi a Sirte, la sua roccaforte, dopo un rocambolesco scontro a fuoco.

Un arresto che, naturalmente, non è mai avvenuto (le parole della dichiarazione, infatti, sono quelle – reali – usate davanti a quella stessa corte dall'ex presidente serbo Radovan Karadžić). Perché l'uomo che ha guidato la Libia per oltre quarant'anni non subirà alcun processo, né dalla giustizia internazionale né da quella dei cosiddetti “ribelli” libici, che lo scorso 20 ottobre hanno deciso di passare direttamente all'esecuzione della sentenza. Eliminando così, oltre al corpo, anche la possibilità di trovare risposta ai tanti quesiti sorti in questi anni sulla reale figura del leader libico.
È per questo, dicono molti commentatori, che al-Gaddafi è stato ucciso, indipendentemente dalla rappresentazione mediatica che se n'è voluta dare, dove la mancanza di una statua da abbattere – come successo con Saddam o con Stalin – ha fatto spuntare una pistola dorata, divenuta il simbolo della nuova Libia. È stato ucciso per evitare che il processo de L'Aja potesse trasformarsi in un vero e proprio processo all'Occidente, i cui scheletri nell'armadio dei rapporti con la Libia sono innumerevoli.
Ma procediamo per gradi

La vecchia politica degli “aiuti umanitari”. «Roma avrebbe inviato in Cirenaica un carico di pistole, mitra e munizioni, spacciando il tutto per “aiuti umanitari”». Così titolava, in un articolo del 4 luglio scorso, il sito PeaceReporter, riprendendo la notizia dall'agenzia di stampa Nena News, secondo la quale nella prima settimana di marzo il nostro paese avrebbe rifornito di armi leggere i ribelli libici. Quelle armi, continua l'articolo, sono state prelevate dai depositi de La Maddalena e Tavolara – in Sardegna – e trasportate, su navi della Marina Militare (come il pattugliatore ITS Libra, arrivata a Benghasi a marzo), in Cirenaica. La formula, naturalmente, è quella ormai consolidata dell'invio di aiuti umanitari, una pratica che i nostri governi usavano già ai tempi dell'”affaire-Somalia” (e della Shifco, Ilaria Alpi e Siad Barre).

Boicottare la guerra è reato. Il caso Inge Viett



Berlino – La Germania processa l'anti-bellicismo. Inge Viett, Thies Gleiss, portavoce del partito di sinistra “Die Linke” ed il direttore del quotidiano tedesco “Junge Welt” sono chiamati alla sbarra per aver esercitato il proprio diritto di dichiararsi contrari alla guerra.

«Se la Germania è in guerra allora è legittimo, quale azione dimostrativa contro la guerra, incendiare gli equipaggiamenti militari. I mezzi militari dati alle fiamme in Germania avrebbero potuto portare morte e oppressione nel mondo». Sono state queste parole – pronunciate durante la conferenza pubblica che il giornale “Junge Welt” organizzò nel gennaio scorso – a portare davanti alla corte Inge Viett, ex membro della Rote Armee Fraktion, il movimento più noto dell'epoca della lotta armata nella Germania degli anni Settanta (per un approfondimento basti guardare “La Banda Baader Meinhof”, l'altro nome con cui la Raf era conosciuta, uscito nel 2008 per la regia di Uli Edel).
Con un passato del genere, dunque, il procuratore Matthias Weidling non poteva aspettarsi certo esternazioni “pacifiste” dalla Viett, che ha definito “politica” la sentenza che la condanna ad ottanta giorni di carcere o, in alternativa, al pagamento di 1.200 euro. E “politica” è stata anche la risposta dell'ex esponente Raf, che si è presentata al banco degli imputati tenendo ben aperto il quotidiano “Junge Welt” alla pagina tre, dove campeggiava l'articolo “Der Krieg ist das Verbrechen” (“La guerra è (il vero) crimine”[1]).

Sempre per le frasi “infuocate” pronunciate durante la conferenza da Inge Velt è stato processato – con assoluzione – il direttore del quotidiano di ispirazione marxista, reo di averne riportata la trascrizione integrale ma assolto perché, secondo il giudice, quella sentenza minava la libertà di stampa.

Per quello che potremmo definire “reato d'opinione” è invece chiamato alla sbarra Thies Gleiss, la cui colpa è quella di aver definito “assassini” i soldati tedeschi che autori della strage di civili (91 secondo l'Isaf, 142 secondo fonti afghane) a Kunduz avvenuta il 4 settembre 2009 – come riporta il sito PeaceReporter[2] – allorquando due F-15 americani sganciarono due bombe da 500 libbre su due autocisterne cariche di carburante, provocando la strage. A discolpa della catena di comando – secondo i membri della maggioranza di governo – ci sarebbe la scarsità di informazioni di cui il colonnello Georg Klein – colui che ordinò il bombardamento – poteva disporre secondo le quali quelle autocisterne sarebbero state usate per attaccare il contingente tedesco.

Note
[1] Der Krieg ist das Verbrechen, Junge Welt, 23 novembre 2011;
[2] Germania, le verità non dette sulla strage di Kunduz, di Nicola Sessa, PeaceReporter, 28 ottobre 2011

"L'Ue poteva fare di più". Delegazione Ue shockata dal Cara di Trapani



Trapani – L'Europa torna ad ammonire l'Italia. Al centro delle polemiche, per l'ennesima volta, la politica tenuta dal nostro paese nei confronti dei migranti. Nei giorni scorsi, infatti, una delegazione europea – capeggiata dall'europarlamentare svedese Cecilia Wikstrom – ha visitato alcuni centri di accoglienza, tra cui il Cara trapanese. Uscendone schockata.

«Manca l'acqua nei bagni, l'acqua nelle docce è fredda, non ci sono le porte nei bagni, i dormitori sono affollatissimi. In queste condizioni è davvero difficile tutelare la dignità umana», sostiene l'eurodeputata Cecilia Wikstrom, a capo della delegazione. «Al Cara di Salinagrande ci sono persone senza speranze, famiglie intere con bambini piccolissimi. È importante prendere sul serio le loro esigenze. Insieme dobbiamo creare un regime comune per l'immigrazione che sia decoroso» ha infine concluso.

Il Cara (acronimo che sta per Centri di accoglienza richiedenti asilo) di Salinagrande è stato aperto nel 2005, ed è uno dei più grandi centri d'accoglienza del Sud Italia, con 260 posti “ufficiali” - 233 i richiedenti asilo attualmente presenti nella struttura – gestito dalla cooperativa trapanese Badia Grande, considerata vicino alla Caritas, è stato più volte descritto come elemento di eccellenza nella politica di accoglimento dei migranti, ai quali, si diceva, era persino insegnato l'italiano.

La realtà che si è trovata davanti la delegazione, però, parla di una realtà completamente diversa. «Appena siamo entrati nei dormitori abbiamo visto l'inferno» - ha ribadito Rosario Crocetta, europarlamentare del Partito Democratico ed ex sindaco “antimafia” di Gela - «In una stanza c'erano alcuni ospiti sofferenti. Al centro una specie di grande secchio per raccogliere le infiltrazioni d'acqua. Un ragazzo pachistano aveva una mano fratturata: ha detto di essersela rotta ad ottobre. Non gli avevano ancora messo il gesso perché avrebbe potuto fare la radiografia solo il 29 novemre. Nel frattempo la frattura si è calcificata per sempre. Un trattamento che credo gli addetti del centro non riservino neanche ai loro animali domestici. Qui stiamo parlando di persone umane».

«Bisogna affrontare il nodo burocratico», dice Rita Borsellino, «uomini, donne e tanti bambini , interi nuclei familiari rimangono per mesi in attesa di conoscere il loro destino, con le vite appese».

A questo punto la domanda è lecita: dopo lo shock – l'ennesimo – l'Europa passerà dalle “raccomandazioni” a fatti più concreti?

25 Novembre, Giornata contro la violenza sulle donne. La storia di Lilian


Nera – Welcome to my world di Andrea Deaglio - Associazione Antiloco. Premio "L'anello debole" 2007 - Opera vincitrice della sezione "Cortometraggi della realtà"


Teramo - Venerdì 25 novembre, sarà – come ricorda Marika Di Cristina su InfoOggi.it[1] - la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
«La prima causa di morte e invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in occidente e nel mondo è la violenza subita da familiari o conoscenti. Violenze psicologiche, minacce, schiaffi, calci, pugni, strangolamenti e soffocamenti, stupri, ustioni chimiche, molestie, rapporti sessuali non desiderati o umilianti» recita il pay-off di “Dannato Silenzio”[2], il video realizzato da Genova Palazzo Ducale Fondazione Cultura in collaborazione con Genova Città Digitale.

C'è, però, un'altra forma di violenza sulle donne. Una forma che, riprendendo gli studi sulla violenza di Johan Galtung[3], sociologo e matematico norvegese padre dei “peace studies”, potremmo definire “strutturale”. Ma voglio raccontarvela attraverso una storia.

«Sono venuta in Italia a causa della mia situazione familiare». A parlare è Lilian, 23 anni, nigeriana. «Prima di partire per l'Italia ho fatto un giuramento di fronte ad uno stregone. Il giuramento consisteva nel fatto che non avrei dovuto mandare soldi a casa a loro insaputa e non avrei dovuto denunciarli alla polizia, altrimenti il giuramento si sarebbe rivoltato contro di me. Mi hanno chiesto di pagare 62.000 euro».

Quei “loro” che la portano in Italia sono gli sfruttatori, perché Lilian – come le altre 140.000 vittime del traffico di esseri umani destinati alla prostituzione – viene portata in Italia con la promessa di un lavoro che le avrebbe fatto guadagnare tanti soldi in poco tempo. Ma si sa, c'è sempre un lato nascosto nei soldi facili, e per Lilian questo è la strada. È proprio lei, attraverso “Schiavi”, di Giuseppe Laganà (andato in onda sulla terza rete Rai il 27 luglio 2011[4]) a raccontare la sua storia.

Il giuramento, una pratica a metà tra il contratto legale e la pratica magico-religiosa chiamata “juju” - raccontata, il 7 aprile scorso, dalla giornalista Jenny Kleeman sulle pagine del quotidiano britannico The Independent[5], prevede che il corpo delle ragazze venga segnato con le lamette vede molta della sua forza nella credenza che qualcosa di male possa capitare, alle ragazze o ai loro familiari, qualora il giuramento venga spezzato.

Zimbabwe, finisce l'era Mugabe, tornano i diamanti di sangue?


Harare (Repubblica dello Zimbabwe)– Solo diciotto mesi, poi Robert Mugabe, il padre-padrone dell'ex Rhodesia Meridionale, dovrà cedere il posto. Si aprono così i giochi per la successione, anche se per la popolazione potrebbe cambiare davvero poco.

Più che una successione, una puntata di “Beautiful”. L'incertezza sul nuovo corso del paese – accentuata dalla serie di tradimenti che si stanno verificando in questi mesi – vede per ora due potenti fazioni in lotta sia per la “successione al trono” sia tra di loro, per la ridefinizione degli equilibri di potere che normalmente avvengono in questi casi.

Da una parte c'è il clan guidato da Joyce Mujuru, attuale vice-presidente e moglie del generale Solomon Mujuru, morto – in circostanze ben lontane dall'essere chiarite – in un incendio nella sua abitazione lo scorso 15 agosto, dall'altra Emmerson Mnangagwa, attuale ministro della Difesa.
Ambedue – come ricorda il sito PeaceReporter – possono contare su un sistema di potere molto simile, essendo appoggiati da settori importanti delle forze armate e potendo disporre di quote in società statali e parastatali, imprese, proprietà immobiliari e terriere accumulate attraverso gli espropri. E si sa come, nell'Africa delle dittature, siano più le fortune personali – e le amicizie con i salotti buoni dell'Occidente – a fare la differenza politica.

Tra i due litiganti il terzo gode? Mentre le due fazioni giocano a scacchi con l'equilibrio dei poteri, proprio dalle forze armate potrebbe arrivare, per entrambi, la minaccia più consistente. All'interno dei militari, infatti, si starebbe creando un terzo gruppo, «contro il Global Political Aggrement del 2008 e contro il governo di unità nazionale, così come anche contro la road map elettorale», come riporta un editoriale dello Zimbabwe Independent. Questo gruppo, che «sembra pensare che le due principali fazioni dello Zanu (il partito di Mugabe) abbiano fallito nel gestire la successione a Mugabe» potrebbe ritrovarsi alleato proprio il futuro ex-presidente, alla luce anche del patto che sarebbe stato stipulato tra Joyce Mujuru e Mnangagwa.
È stato sventato anche il possibile attacco che i due avrebbero portato al presidente nel congresso di partito che si terrà a Bulawayo tra il 6 ed il 10 dicembre prossimi, tramutato invece in conferenza (e dunque depauperato di qualsiasi potere decisionale).

Il mio regno per un carico di diamanti (insanguinati). Una decina di giorni fa – come ricorda Alberto Tundo sul già citato Peacereporter – in Zimbabwe sarebbe arrivato un carico di armi “made in China”, attraverso un non meglio identificato mediatore africano. È bene ricordare che da ormai un decennio lo Zimbabwe si fa ufficialmente rifornire nel settore da società come il ramo internazionale della Norinco (China North Industries Corporation), con la quale dal 2006 ha creato una joint-venture – 60 per cento all'industria cinese, 40 per cento alla Zimbabwe Defense Industries – che prevede la fornitura di armi in cambio dello sfruttamento delle risorse minerarie, in primis di diamanti.
In tal senso un segnale importante sembra essere arrivato lo scorso 31 ottobre, quando il Kimberley Process – l'accordo tra industria diamantifera, i governi dei paesi coinvolti in tale industria (tra cui l'Italia) ed alcune organizzazioni non governative per fermare la commercializzazione dei “blood diamond” - ha dato il via libera alla vendita dei diamanti raccolti in tre siti del complesso di Marange. Victoria Nuland, rappresentante americana alla riunione, ha definito “compromesso necessario” il voto favorevole (gli Stati Uniti si sono astenuti) per evitare che il Kp si sfasciasse. Con questo voto, comunque, il potere di persuasione sullo Zimbabwe è fortemente diminuita. E quei 340 milioni di dollari su cui si attesta – dati 2010 – la produzione dei diamanti fa gola a più d'uno.

Tra diciotto mesi, dunque, lo Zimbabwe potrebbe trovarsi ad un bivio: da una parte l'ennesima guerra civile, dall'altra un presidente che, come seconda lingua, potrebbe parlare cinese.

Messico, Alejandro Poiré è il nuovo ministro dell'Interno

Città del Messico, 21 novembre 2011 - Alla fine dello scorso mese parlavamo di come, in Messico, ogni tanto il giornalismo dia qualche bella notizia (nella fattispecie, la vittoria del premio “Courage in Journalism” alla direttrice del settimanale Zeta, Adela Navarro Bello[1]). Questa settimana invece dobbiamo tornare a parlarne per l'attentato – fortunatamente senza vittime – che lunedì scorso è stato portato al giornale “El Siglo de Torreón”, nello stato di Coahuila, nel nord-est del paese.

Alle 2.40 del mattino di lunedì scorso, infatti, due veicoli non identificati con a bordo tre uomini hanno esploso alcuni colpi di AK-47 sulla facciata della sede del giornale, concludendo il raid con una granata a frammentazione detonata nell'impatto con l'ingresso del giornale (come è visibile dalla foto).
Intervistato telefonicamente, Javier Garza Ramos, vicedirettore del giornale, ha evidenziato come né il giornale né i suoi collaboratori abbiano ricevuto alcuna minaccia che potesse far prevedere l'attacco, motivo per il quale non è chiaro quale sia stata la motivazione che ha spinto gli attentatori. È bene ricordare, però, che già nell'agosto del 2009 il giornale aveva subito un attacco simile.

Come ricorda il quotidiano Milenio[2], l'attacco al cuore dell'informazione messicana, nell'ultimo decennio ha comportato l'omicidio di 70 giornalisti, di cui 13 nel 2011.

La conta. Sempre Milenio, in un articolo pubblicato lo scorso venerdì[3], definisce il “conto dei morti” al di là ed al di qua della frontiera con gli Stati Uniti, dove nel 2011 sono stati uccisi circa 54 esponenti delle forze dell'ordine (includendo anche forze speciali ed FBI), cioè poco più del doppio degli omicidi che, in Messico, sono stati registrati nella sola Torreón.
Come sottolinea Eduardo Olmos Castro, sindaco della cittadina messicana, «è necessario dare incentivi a chi decide di esercitare questa professione, attraverso stimoli economici, equipaggiamenti migliori così come è necessario dar loro condizioni di vita ed educazione migliori per loro e le loro famiglie», data anche la sempre più alta percentuale di poliziotti che sempre più spesso, tenendo conto in primis proprio del fattore economico, decidono di passare dall'altra parte.

Quel “Terzo Occhio” della BBC un po' strabico



In questi ultimi giorni, con gli sconvolgimenti dello scenario politico nazionale (nel quale, al momento, è stata abolita – de facto – anche l'opposizione parlamentare) e nei mesi scorsi con le rivolte registrate sull'altra sponda del Mar Mediterraneo, l'opinione pubblica è stata spesso chiamata a schierarsi, dalla parte del governo non-democraticamente-eletto o per la democrazia, che si parlasse dell'avvento del governo tecnico in Italia o della caduta dei regimi in Nord Africa. Ma come si crea l'opinione dell'opinione pubblica? O meglio: come si orienta? Nelle guerre, lo sappiamo, basta definire i ruoli del “buono” e del “cattivo”; nel commercio – ovviamente – esistono gli spot di 30 secondi. Ma cosa avviene quando non si riesce a definire nitidamente dove finisce l'informazione e dove inizia la pubblicità, quando magari queste si fondono in uno di quei programmi d'approfondimento che spesso ci vengono proposti dalle nostre televisioni? Quando questo avviene, si ha quel “piccolo-grande scandalo” che ha investito, pochi mesi fa, la British Broadcasting Comunication.

Nell'edizione di mercoledì 16 novembre, il quotidiano britannico The Independent è uscito con un articolo – evidenziato anche dallo sfondo giallo su cui è stato presentato – dal titolo “Come la Bbc è diventata uno strumento di propaganda per il regime di Mubarak”, riprendendo un discorso iniziato nell'agosto di quest'anno.

Tutto ruota, spiegano dal quotidiano, intorno all'acquisizione da parte della British Broadcasting Corporation di documentari a costi bassissimi, realizzati da un'azienda – la londinese FactBased Communications Media (Fbc Media) – che ha lavorato, nel tempo, anche per la promozione dei governi di Egitto e Malesia. In totale questi video hanno violato ben 15 delle linee-guida editoriali su cui si basa il lavoro di informazione della BBC «colpita al cuore della sua reputazione internazionale», come hanno detto dall'organo di governo del network, compromettendone così «l'integrità editoriale».

Uno degli elementi su cui sta indagando l'Ofcom – l'autorità regolatrice per le società di comunicazione britanniche – riguarda la realizzazione, per il programma “Third Eye” (“Terzo occhio”) di un'approfondimento sul futuro dell'Egitto una volta terminata l'euforia di Piazza Tahrir e della “Primavera Araba” (trasmissione, andata in onda a marzo, e che Señor Babylon vi ripropone in apertura) nel quale si lanciava l'allarme sulla possibile presa di potere da parte dei musulmani integralisti attraverso la Fratellanza Musulmana. Peccato che la stessa Fbc Media avesse il compito di promuovere all'estero l'immagine di un Egitto “liberale, aperto e business friendly”, per diretta richiesta del ministero per gli investimenti (detto Gafi) egiziano.

Edilizia e agricoltura, il boom dei caporali


Roma, 17 novembre 2011 – 550mila è il numero dei lavoratori che – in particolare nel settore agricolo e dell'edilizia – vivono situazioni di caporalato.
Nel settore agricolo, che “occupa” circa 400mila lavoratori, la pratica del lavoro nero incide per il 90 per cento al Sud Italia, per il 50 per cento al Centro e per il 30 per cento al Nord.

Nel settore agricolo “pulito”, secondo i dati Inps i lavoratori occupati sono circa un milione, di cui il 40 per cento è composto da donne ed il 10 per cento da lavoratori non comunitari. A livello contrattuale però, sono proprio questi ultimi a subire i maggiori danni, dato che oltre il 70 per cento di loro non raggiunge le cinquantuno giornate lavorative necessarie ai fini previdenziali.

Quasi due milioni invece sono gli occupati del settore agricolo, di cui poco più della metà – 1,2 milioni – soggetti a lavoro dipendente. È però questo il settore in cui maggiori sono i metodi di ricatti, che vanno da contratti part-time solo sulla carta, al sottoinquadramento al “caporalato a squillo”[1] fino al classico pagamento fuoribusta ed agli infortuni passati – nei casi meno gravi – come permessi.

«A causa della crisi dell'assistenza di investimenti, della frammentazione e del sistema di gare al massimo ribasso» - dicono dai sindacati - «le organizzazioni criminali hanno potuto investire indisturbate denaro da ripulire e proprie imprese. L'ultimo grande business è quello della gestione della manodopera».

Sanzioni per i datori di lavoro che utilizzano il caporalato, in primis l'esclusione dagli appalti pubblici per quanto riguarda il settore edile e tutele per i lavoratori che denunciano tali situazioni sono le due richieste presentate dalla Cgil al nuovo governo Monti, richieste che fanno seguito all'introduzione, lo scorso agosto, del reato di caporalato.

All'incontro organizzato dalla Cgil era presente anche Ivan Saignet, lo studente di Ingegneria a Torino che la scorsa estate ha guidato la rivolta dei braccianti stagionali nel salento. «Siamo arrivati alla legge contro il caporalato perché abbiamo scioperato, noi bloccheremo le loro distribuzioni, la battaglia si vincerà sul campo. Non solo l'opinione pubblica deve essere sensibilizzata, anche i lavoratori non sanno quali sono i loro diritti». «Sono andato la prima volta a Nardò a raccogliere angurie e pomodori per pagare le tasse universitarie» - continua - «Il primo giorno ho dovuto dormire per terra perché le tende erano già occupate dai miei compagni. C'erano ghanesi, tunisini, marocchini, burkinabè, maliani. Mi hanno spiegato come funziona l'ingaggio per lavorare e ho incontrato il caporale dopo due giorni, mi ha chiesto i documenti originali per andare a fare il contratto, l'ho trovato strano, perché a Torino quando lavoro bastano le fotocopie. Lo ha chiesto ad altre settanta persone e dopo dieci giorni è ritornato». Tempo necessario – come riporta l'agenzia Redattore Sociale[2] – per dare i documenti sequestrati agli irregolari che già lavorano nei campi, permettendogli così di passare indenni gli eventuali controlli.

«Se vogliamo tirarci fuori dal baratro non possiamo riproporre le ricette fallimentari degli ultimi tre anni» - dice Walter Schiavella, segretario generale Fillea Cgil - «Per l'edilizia questo ha voluto dire: zero investimenti e deregolazione selvaggia, riduzione del volume degli investimenti del 36 per cento e con l'accentuazione della frammentazione produttiva».

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/10/mafie-del-nord-in-arrivo-il-caporal-sms.html;
[2] "I caporali sanno che il permesso di soggiorno è l’arma di ricatto”: la testimonianza, Redattore Sociale, 16/11/2011

Palermo, tornano le talpe all'antimafia?


Palermo, 17 novembre 2011 – Brutto risveglio, ieri mattina, per Lia Sava (nella foto), pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia palermitana, che ha trovato fili tagliati ed una centralina smontata nel suo ufficio. Stando agli investigatori del Raggruppamento operativo speciale (Ros) l'episodio può essere interpretato secondo due chiavi di lettura: come tentativo – non riuscito - di piazzare una microspia nella stanza del magistrato, o come tentativo – riuscito, questa volta – di eliminare una cimice precedentemente installata. Terza ipotesi al vaglio, quella del messaggio intimidatorio.

La stessa Sava, una decina di giorni fa, al suo arrivo in ufficio, aveva trovato la porta aperta. Ieri mattina a dare l'allarme è stata invece una dipendente dell'impresa di pulizie che lavora al palazzo di Giustizia, accortasi dei fili tagliati, della centralina aperta e dei collegamenti avvolti dal nastro adesivo. Stando ai controlli effettuati, dalla stanza non sarebbero stati sottratti né i computer né gli incartamenti su cui stava lavorando il pubblico ministero, motivo per cui sembra avvalorarsi la tesi delle minacce.
Il pm è infatti titolare di numerose inchieste importanti in ambito mafioso, tra cui spicca quella sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra.

«È sicuramente una circostanza inquietante, che richiama alla mente episodi lontani» - ha commentato Antonio Ingroia, fino a qualche tempo fa “titolare” proprio dell'ufficio in cui oggi lavora la dottoressa Sava - «non sappiamo ancora chi sia tra me e la collega Sava l'obbiettivo delle microspie illegali. Potrei dire che nonostante le possibili intercettazioni noi non abbiamo niente da nascondere, ma in realtà non è proprio così, dato che utilizziamo i telefoni degli uffici nelle attività d'indagine che ovviamente sono segretissime. In ogni caso quando ci occupiamo di inchieste delicate mettiamo in conto tutto, anche che si arrivi a spiare illegalmente un procuratore della Dda».
«Un avvenimento» - ha poi aggiunto il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo - «che sottolinea una volta di più quanto il palazzo di giustizia sia carente in fatto di sicurezza. Si tratta di uno stabile costruito con criteri diversi da quelli odierni, dove purtroppo non c'è una sorveglianza video interna. Abbiamo più volte richiesto misure adeguate che però per motivi finanziari non sono state ancora concesse».

Alla luce di quanto è avvenuto nei giorni scorsi, viene da chiedersi quanto sia stato fatto negli ultimi mesi se già il “processo-Cuffaro” prevedeva, tra le varie voci di indagine, proprio quella delle “talpe alla Dda”.

Rifiuti tossici, l'Albania sarà la nuova Somalia?



Tirana, 16 novembre 2011 – L'Albania scende in piazza contro il governo di Sali Berisha, che lo scorso gennaio – con una risicata maggioranza parlamentare – ha approvato una norma che permette di importare rifiuti tossici di provenienza straniera. O, quanto meno, la dura opposizione è quello che chiede l'opposizione, in particolare quella degli ambientalisti, insorti contro l'intenzione di trasformare l'Albania nella nuova pattumiera per i rifiuti tossici.

Le motivazioni di fondo di questa norma, stando al premier Berisha, sono da rintracciare nel fatto che Tirana «non riesce a fornire materia prima per l'industria del riciclo» e, dunque, l'importazione si rende necessaria per arrivare ai livelli minimi necessari. Nonostante le parole del ministro dell'ambiente – che aveva assicurato che non sarebbero state importate materie prime «nocive, radioattive o non riciclabili» - il dubbio, comunque, rimane, in particolare da quando la giornalista Marjola Rukaj – come scrive oggi Narcomafie sul proprio sito – ha documentato il sequestro di circa centocinquanta elettrodomestici usati che dal porto di Bari sarebbero a breve partiti per il paese delle Aquile.

Rifiuti sì, rifiuti no. È interessante, comunque, notare come nel dibattito – ed eventuale referendum – sui rifiuti, l'Albania veda oggi una situazione diametralmente opposta rispetto al 2004, quando erano stati proprio i socialisti al governo a firmare un accorto per il trasferimento dei rifiuti dall'Italia. Accordo poi annullato per l'intervento della destra di Berisha.

Una nuova Somalia. Il traffico di rifiuti, in Albania, non è più una novità ormai da anni. I primi casi si registrarono già ai tempi del regime comunista di Enver Halil Hoxha, dove i rifiuti arrivavano in mezzo ad aiuti “umanitari”, alimenti scaduti e tabacco. Molte delle spedizioni che in quegli anni venivano fatte per il settore agricolo si rivelavano poi essere carichi esclusivamente di rifiuti tossici, come le 480 tonnellate di sostanze chimiche che tra il 1991 ed il 1992 arrivarono dalla tedesca Schnidt nonostante il fermo divieto della Comunità Europea e che provocarono, nel 1993, l'intervento di Greenpeace. Nessuno però, pagò il conto dei bacini idrici avvelenati con il toxafene, perché le normative europee in merito furono rispettate in pieno.

«In Albania» - sostiene Bardhyl Balteza, presidente dell'associazione delle fabbriche di riciclaggio - «non esistono né le strutture necessarie né le infrastrutture per classificare i rifiuti da riciclare». Per Lavdosh Feruni, leader della rete ambientalista albanese, questa è solo «una mossa politica che porterà vantaggi economici solo ad un ristretto gruppo di persone». E, naturalmente, alla criminalità organizzata che da anni è diventata una importantissima voce nel settore dei rifiuti, non solo quelli illegali.

Se il traffico dovesse consolidarsi, dunque, non è difficile prevedere per l'Albania un futuro da “nuova Somalia”, dove con i rifiuti tossici si costruì addirittura una strada. Quella Garowe-Bosaso su cui stava indagando anche Ilaria Alpi.

Aborti selettivi in Toscana?


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/aborti-selettivi-in-toscana/20491/

Firenze, 15 novembre 2011 – Cento a centocinque. No, non è il risultato di una partita di pallacanestro o di rugby. È il rapporto tra i sessi alla nascita, il cosiddetto “sex ratio”, secondo il quale ogni cento femmine nascono centocinque maschi.
In Toscana, però, i conti non tornano. Secondo l'Agenzia regionale di sanità (Ars), infatti, nelle comunità straniere tra il 2008 ed il 2010 il rapporto non sarebbe stato rispettato. La paura, a questo punto, è che si sia iniziato a praticare il fenomeno degli “aborti selettivi”. [MORE]

All'appello mancherebbero ben cinquecento bambine, così che nella nelle tre comunità straniere più grandi della regione, cioè quella cinese, quella rumena e quella albanese, il rapporto sia – rispettivamente - di centoundici, centotredici e centoquindici maschi nati ogni cento femmine. Il boom, però, lo si registra – come fa notare Anna Meldolesi, biologa e giornalista scientifica autrice di “Mai nate” - nella comunità indiana presente nel nostro paese, laddove sono addirittura 141 i maschi nati ogni cento femmine.

Cina, Albania, Romania e India sono tra i paesi in cui la pratica dell'aborto selettivo è ancora in vigore – o, come nel caso cinese, è stata da poco dichiarata illegale – in quanto in queste nazioni si continuano a preferire i figli maschi per meri motivi economici. Bisogna però capire se tali fenomeni iniziano ad essere replicati, così come molte altre pratiche “importate”, anche in Italia.

«Per quanto riguarda le donne cinesi» - evidenzia Valeria Dubini, responsabile della ginecologia di Torregalli, vicepresidente della società italiana dei ginecologi ospedalieri e da sempre impegnata anche nell'assistenza agli immigrati - «nel loro paese c'è una politica demografica che favorisce obbiettivamente l'erede maschio. Così non si può escludere che anche nel nostro paese seguano dei percorsi simili, magari cercando anche una diagnosi precoce del sesso».

«Le famiglie albanesi» - scriveva già nel 2005 un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) - «tradizionalmente preferiscono gli uomini alle donne per due motivi principali: la perpetuazione del nome di famiglia e l'idea che gli uomini, da adulti, saranno i capofamiglia». Le autorità albanesi, però, sostengono che in realtà il problema non esiste - e dunque non trova fondamento alcuno la denuncia dello scorso ottobre di Doris Stump, parlamentare europea – perché in Albania il rapporto sarebbe addirittura al di sotto del “sex ratio”, con centouno bambini nati ogni cento bambine. La legge albanese ha vietato l'aborto selettivo nel 2002, pur non prevedendo alcuna sanzione per chi invece lo pratica, e non è difficile intuire come ospedali ed abitazioni private vedano tale operazione lungi dall'essere bandita.

In India, invece, questa pratica ha portato – negli ultimi trenta anni – alla scomparsa (o sarebbe meglio dire alla non-nascita) qualcosa come 12 milioni di bambine. Ed il fatto che proprio questo sia il paese dove si importano più apparecchiature per ecografie non indica certo una diminuzione del fenomeno.

Tale fenomeno rischia però di modificare, nel medio-lungo periodo, la stessa architettura sociale dei paesi in cui viene praticato. L'eccessiva competizione maschile, ad esempio, potrebbe portare a comportamenti antisociali o a vere e proprie forme di emigrazione verso l'estero o all'aumento di atteggiamenti criminali come la violenza sessuale o la pedofilia.

«Tra le immigrate» - sostiene Anna Meldolesi - «c'è un ricorso diffuso al Cycotec, una pillola antiulcera usata a scopo abortivo non senza rischi per la salute delle donne. Se per stabilire il sesso del nascituro ci saranno metodi più affidabili, come il semplice prelievo del sangue che si effettua alla settima settimana di gravidanza, gli aborti selettivi ai danni delle bambine diventeranno ancora più facili».

Processo Rostagno, il mistero di "Avana"



Trapani, 15 novembre 2011 – Nei tanti misteri dell'omicidio di Mauro Rostagno – misteri che, piano piano, vorrebbero tornare a galla attraverso l'udienza numero diciannove – ce n'è uno talmente misterioso che nemmeno i collaboratori di Radio Tele Cine (Rtc), la televisione dove il giornalista lavorava, riescono a spiegare. L'unica cosa che sanno, come tutti, è il nome: “Avana”.

Sarebbe stato questo – come è facilmente intuibile dal promo – il nome della nuova trasmissione che Rostagno si accingeva ad iniziare su Rtc. Una trasmissione che però non trovò mai la luce perché, a pochi giorni da quel girato, Mauro Rostagno venne ucciso dalla mafia. Era tutto pronto, persino i brogliacci – che ora vanno a comporre due grossi faldoni del processo, fatti di articoli sottolineati e commentati e appunti manoscritti – finiti dopo l'omicidio nelle mani dell'avvocato Nino Marino, ex dirigente del Partito Comunista, che ha nelle scorse udienze riconsegnato quel materiale a Chicca Roveri, compagna del giornalista.

Avana, provincia di Trapani? Il perché di quel nome – così come i contenuti della trasmissione – rimarranno per sempre un mistero, ma i ragionamenti che ne fa Rino Giacalone su LiberaInformazione.org[1], per chi conosce l'operato di Rostagno, sembrano avvicinarsi molto a quel che sarebbe stato.
«Forse nelle sue intenzioni» - scrive Giacalone - «la trasmissione doveva evocare l'isola cubana – che a ridosso del mondo occidentale aveva mantenuto, e mantiene, una sorta di indipendenza dall'Occidente – l'isola dove si sono mischiati e soprattutto in quegli anni, politica internazionale con affari poco chiari, intrighi internazionali, traffici di droga e di armi, dove si sono stipulati patti irrivelabili, per tentare di fermare i quali nel 1962 si rischiò il terzo conflitto mondiale, con lo scontro tra le superpotenze Usa e Urss».

Traffici di droga, di armi, di rifiuti tossici come quelli su cui Rostagno stava indagano a Trapani, e dove convergevano gli interessi della mafia trapanese, servizi segreti più o meno deviati, pezzi delle istituzioni. «E poi la storia dell'indipendenza» - continua Giacalone - «Non è una fandonia quella che Matteo Messina Denaro in persona, l'attuale super latitante, l'unico sfuggito alla cattura dei mafiosi della disciolta cupola, aveva dato incarico ad un potente narcotrafficante, Saro Naimo, ora arrestato e “pentito”, di contattare le famiglie mafiose americane per vedere se c'era ancora la possibilità di un colpo di stato che portasse sotto il Governo Usa la Sicilia».

L'imprenditore Paolo Lombardino, l'ambasciatore dei narcos in Namibia Vito Bigione e poi gli Agate di Mazara e i Minore di Trapani e ancora i Rimi di Alcamo. Così come i riferimenti alla mafia catanese sono solo alcuni dei riferimenti su cui Rostagno stava lavorando. Poi appunti sui traffici di droga, sul nucleare e la monnezza di Napoli che già allora allettava la camorra, gli sprechi del Belice e Iside 2, la loggia massonica che in qualche modo, a Trapani, sembrava legare tutti i poteri forti, cittadini e non.

Nomi e fatti ben precisi che però, ancora oggi, fanno dire che Mauro Rostagno no, non è stato ucciso dalla mafia.


Note
[1] Gli appunti di Mauro Rostagno su mafia e massoneria, di Rino Giacalone, LiberaInformazione.org 9/11/2011

Messico, il paese dove muoiono i ministri dell'Interno



Cuernavaca (Messico), 12 novembre 2011 – Francisco Blake Mora, ministro dell'Interno, è deceduto insieme ad altre sette persone in un incidente aereo. Alejandra Sota, portavoce del governo federale, ha spiegato che il velivolo viaggiava su una rotta diversa da quella prevista e che nella zona c'era una fitta nebbia. 45 anni, insieme al ministro della Difesa Blake era uno degli uomini chiave della lotta del governo Calderón al narcotraffico (dei cui risultati abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane). La mente dei messicani, e dello stesso Blake, che nelle ore precedenti ne aveva parlato sul suo account twitter[1], è subito andata al novembre di tre anni fa, quando il Gulfstream di Juan Camilo Mourino – anch'egli ministro dell'Interno – precipitò su un'affollata strada della capitale. Insieme a lui nell'incidente morì anche uno dei più importanti investigatori anti-narcos messicani, José Luis Vasconcelos. Si parlò, anche in quel caso, di una turbolenza improvvisa, ma la versione non ha mai convinto del tutto. Sempre un incidente aereo causò la morte – nel settembre 2005 – di Ramón Martín Huerta, segretario di Pubblica Sicurezza del governo Fox.

Difendere la libertà di informazione. Nei giorni scorsi – come scrive Carina García sul quotidiano El Universal[2] – la Camera dei Deputati messicana ha approvato la riforma dell'articolo 73 della Costituzione con la quale si permette al governo federale di «essere informati anche sui delitti commessi in altri stati della federazione se questi avranno connessioni con reati verso giornalisti, persone o strutture che fanno informazione quando questi limitino il diritto alla informazione o alla libertà di espressione e stampa», come recita il testo riformato che – dopo i 362 voti ottenuti alla Camera – dovrà ora passare al Senato della Repubblica per diventare legge. Dopo questo passaggio – per il quale sarà necessario che la proposta di legge ottenga voto favorevole nella maggioranza dei congressi federali – questi ultimi avranno sei mesi per ratificare e trasformare in legge la tutela dei giornalisti.

Inizialmente la proposta prevedeva la tutela dei soli giornalisti, ma gli esponenti del Partido Acción Nacional (centro-destra, è il partito del presidente Calderón), del Partido Revolucionario Institucional (centro), del Partido de la Revolución Democrática (centro-sinistra) e del Partido del Trabajo (estrema sinistra) hanno proposto invece che la legge fosse estesa anche a chi giornalista “di professione” non è.

Comiso, morire di tagli alla sanità



Comiso (Ragusa), 8 Novembre 2011 - Biagio Savarese, 71 anni, muore dopo essere finito con il motorino addosso ad una Mercedes ed aver atteso – a pochi metri dall'ospedale Regina Margherita – l'arrivo dell'ambulanza. Quella stessa ambulanza che invece di fare quei pochi metri arriva da Acate e lo trasporta invece a Vittoria, poco meno di venti chilometri in tutto.

Perché un tragitto simile? Perché la centrale di Catania ha da qualche giorno tagliato il servizio 118 a Comiso e a Scicli, e quindi Savarese ha dovuto attendere mezz'ora un ambulanza che poteva percorrere invece pochi metri, se solo quel servizio fosse stato ancora attivo. «Le prime cure sono arrivate dopo quasi un'ora» dice il sindaco Giuseppe Alfano.
Del caso, naturalmente, si sta occupando anche la Commissione parlamentare sugli errori sanitari (ne avevamo parlato appena tre giorni fa su InfoOggi.it[1]).

«Non ci sono stati né ritardi né inadempienze del 118 nei due casi di presunta malasanità segnalati in questi giorni da alcuni organi di informazione» – afferma l'assessore regionale per la Salute, Massimo Russo. «Tuttavia ho già disposto l'acquisizione di tutta la documentazione relativa ai due casi per verificare l'esistenza di eventuali altre responsabilità cliniche». L'altro caso a cui fa riferimento l'assessore è quello del bambino morto nel reparto di terapia intensiva neonatale del policlinico di Messina, per cui sono attualmente iscritti nel registro degli indagati cinque medici del reparto di Ostetricia dell'ospedale Papardo.
Per l'assessore e per Dino Alagna, responsabile del servizio programmazione dell'emergenza dell'assessorato, però, sia le linee guida regionali che i protocolli operativi delle centrali sono stati rispettati. «Nel caso del bambino messinese il trasporto, peraltro effettuato non dal servizio del 118 ma dalle ambulanze dell'azienda ospedaliera “Papardo-Piemonte”, è stato effettuato senza alcun tempo di attesa dal momento che l'ambulanza – dotata delle necessarie attrezzature – si trovava già sul posto. Nel caso del paziente di Comiso l'ambulanza del 118, proveniente da Acate poiché quella di stanza a Comiso era impegnata in un contemporaneo servizio, è giunta sul posto a distanza di soli 17 minuti dalla chiamata e non dopo mezz'ora come denunciato». L'assessore ha peraltro smentito che a Comiso sia stato soppresso il servizio di emergenza del 118, annunciando al contrario azioni di potenziamento già programmate.

Comiso chiama, Palermo risponde? «Il direttore generale dell'Azienda sanitaria provinciale 7 Ettore Gilotta mi ha annunciato la chiusura del pronto soccorso di Comiso nel corso di un incontro che ho avuto ha Ragusa», ha però annunciato nei giorni scorsi il sindaco Alfano. Il motivo della chiusura sarebbe l'adempimento al piano regionale di riorganizzazione della Sanità imposto proprio dall'assessore Russo. Insomma: mancano i soldi per tenere aperto il 118. Secondo lo stesso direttore generale dell'Asp, dunque, se a Comiso mancano le ambulanze i conti vanno fatti a Palermo, Palazzo d'Orleans per la precisione, dove la giunta Lombardo ha deciso di economizzare e migliorare il servizio attraverso i tagli.
Una politica, questa, che però incontra sostenitori in tutta Italia, dalla Sicilia alla Lombardia passando per il Lazio - come dimostrò la trasmissione Presa Diretta già lo scorso febbraio[2] - e che sta portando in questi anni a «12 miliardi in meno per la sanità dal 2010 al 2014, 1 miliardo in meno per l'edilizia sanitaria, 10 euro di superticket, 17mila medici in meno entro il 2015, risorse per la formazione al 50% e dimezzamento degli 8mila medici precari, 20mila euro in meno per il blocco del contratto e della retribuzione, contributo di solidarietà forzoso oltre i 90mila euro solo per i medici pubblici, TFR dopo due anni e poi diluito in tre, rottamazione per chi ha 40 anni di contributi, trasferimenti obblicatori, possibilità di perdita dell'incarico e del livello stipendiale anche se con valutazione positiva, stipendi più bassi rispetto ai colleghi francesi, tedeschi e inglesi», come dicono alla Fp-Cgil Medici e Dirigenti, che in questi giorni sta lanciando una campagna-web[3] «a difesa del servizio pubblico e della professionalità di medici e dirigenti» nonché dell'articolo 32 della carta costituzionale.


Note
[1] Errori sanitari, la Commissione d'inchiesta chiede relazione su tre casi in Sicilia, InfoOggi.it, 5 novembre 2011
[2] "Profondo Rosso"-Presa Diretta, RaiTre, 27 febbraio 2011
[3] Tre spot contro i tagli nella sanità a difesa del servizio pubblico e della professionalità di medici e dirigenti, Fp-Cgil

Muore in caserma per un attacco d'asma. Il pm archivia.



Brescia, 8 novembre 2011 – Saidou come Stefano, come Giuseppe, come Federico. Entrato in una caserma da vivo ed uscito “con i piedi davanti”, come si dice. Al contrario di Cucchi, Uva e Aldrovandi, però, sul corpo di Saidou non ci sono lividi e segni di percosse. Perché non è stato ucciso ma lasciato morire. Di asma. E forse è anche peggio.

Stamattina il sito de La Repubblica ha messo on-line una parte del video[1] ripreso dalle telecamere interne della caserma dei carabinieri di Brescia dove Saidou era stato portato.

Partiamo da qui. Partiamo dal capire perché Saidou era stato portato in caserma.
È l'11 dicembre dello scorso anno. Saidou Gadiaga, cittadino senegalese di 37 anni, viene arrestato dai carabinieri perché sprovvisto del permesso di soggiorno e precedentemente raggiunto da provvedimento di espulsione. Il pubblico Ministero Franceso Piantoni decide di non mandarlo in carcere ma di trasferirlo alla caserma Masotti, piazza Tebaldo Brusato, Brescia.
Tredici giorni dopo il fatto, peraltro, l'Italia recepirà la normativa europea che annulla il reato di inottemperanza al procedimento di espulsione, cosa che avrebbe evitato l'arresto.

Appena arrivato Saidou mostra un certificato medico nel quale si attesta che soffre d'asma, crisi che – come racconta un altro detenuto, Andrei Stabinger, bielorusso – lo raggiunge nelle prime ore del mattino successivo. «Sono stato svegliato dal detenuto che picchiava contro la porta e chiedeva aiuto gridando. Aveva una voce come se gli mancasse il respiro» – ha riferito Andrei, la cui cella era accanto a quella di Saidou - «dopo un po' di tempo ho sentito che qualcuno apriva la porta della cella e lo straniero, uscito fuori, credo sia caduto a terra».

Tra la richiesta di aiuto e l'intervento, però, stando alla ricostruzione di Andrei, è passata un'infinità di tempo. 15-20 minuti che si sono rivelati fatali. Nel video integrale – come riporta l'Altracittà, giornale della comunità di base de Le Piagge di Firenze[2] – da quando ci si rende conto che Saidou chiede aiuto all'arrivo del carabiniere passano due minuti e 35 secondi, anche se Saidou si lamenta già da parecchi minuti. Dalla richiesta al momento in cui viene fatto uscire dalla camera di minuti ne passano otto, ai quali ne vanno aggiunti altri due per l'arrivo del 118. Ma Gadiaga è già morto.
L'autopsia conferma quello che è evidente, cioè che la morte è sopraggiunta a causa di «un gravissimo episodio di insufficienza respiratoria comparso in soggetto asmatico». «L'uomo» - conclude l'autopsia - «era già deceduto all'arrivo dell'ambulanza».

Nella relazione di servizio che i carabinieri inviano alla Procura, nonché in comunicazioni al consolato senegalese però, la ricostruzione dei fatti è un po' diversa. Saidou sarebbe morto in ospedale e non in caserma e per colpa di un aneurisma, non per un attacco d'asma. Nelle relazioni vengono poi esclusi possibili ritardi o carenze nei soccorsi. Anzi, il maresciallo che apre la porta della cella viene addirittura premiato per l'atto di umanità.

Il video però, e basta anche la versione parziale proposta da La Repubblica, dice qualcosa di diverso.

«Perché i carabinieri hanno detto che Gadiaga è morto in ospedale e non in cella?» - chiede Manlio Gobbi, l'avvocato che si sta occupando del caso - «E perché – di fronte a tanti punti oscuri – il pm ha chiesto l'archiviazione del caso?».
L'avvocato Gobbi ha chiesto la riapertura del caso, il consolato ha promesso di andare fino in fondo alla vicenda.

Note
[1] http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/11/08/video/ecco_come_hanno_lasciato_morire_saidou-24625619/1/
[2] Agonia e morte in caserma: i Carabinieri lasciano morire Saidou. Ecco il video

Messico, arrivano i pañuelos blancos contro il narcotraffico


Washington, 6 novembre 2011 - Se ne era parlato già in aprile, quando alcuni media iniziarono a raccontare i dettagli dell'operazione “Fast and furious”, con la quale gli Stati Uniti hanno introdotto nel territorio messicano alcune migliaia di armi – anche ventimila a carico – per i militari che sorvegliano il confine tra i due paesi ma che sono state poi ritrovate nelle mani dei cartelli. Proprio da uno di quei carichi arriva l'arma che uccise, nel dicembre 2010, l'agente della polizia di frontiera Brian Terry[1]. Da un articolo pubblicato l'1 novembre dal quotidiano Milenio[2] si scopre che una cosa simile, seppur con quantitativi ben diversi – il Los Angeles Times che per primo ha dato la notizia parla di 500 armi di grosso calibro – sia avvenuta anche durante l'operazione “Receptor Abierto”, tra il 2006 ed il 2007.

Da Anonymous ai Los Zetas. La questione dei cartelli, dunque, sta assumendo sempre più carattere internazionale, e non solo per gli accordi bilaterali con la 'ndrangheta sul traffico della droga. In questi giorni, infatti, sono scesi in campo anche quelli che qualcuno definisce i “nuovi paladini del mondo libero”, cioè il gruppo di hacker degli Anonymous che, con l'operazione denominata “#OpCartel” avevano minacciato di pubblicare entro il 5 novembre i nomi di politici, poliziotti e giornalisti appartenenti o collusi con i narcos. Il motivo di questa minaccia, però, non sono i tanti giornalisti che in Messico lavorano quotidianamente rischiando la vita, ma il fatto che nelle scorse settimane uno degli appartenenti al gruppo messicano degli Anonymous sarebbe stato sequestrato proprio dal cartello dei Los Zetas. La minaccia è poi rientrata sia perché il sequestrato è stato liberato, sia perché i narcos avevano a loro volta minacciato di uccidere degli innocenti.
Per quanto ufficialmente chiusa, la questione “Anonymous vs Zetas” lascia però aperte almeno tre domande. La prima, ovviamente, è capire se dietro al video di minaccia verso il cartello[3] ci sia effettivamente il gruppo di hacker o se questa non sia da iscriversi nella lotta interna tra i cartelli. Legata a questa c'è poi la seconda domanda, e cioè capire se gli Anonymous, qualora non fossero stati attaccati direttamente con il sequestro, sarebbero intervenuti.
Last but not least, poi, c'è da chiedersi se in un paese come il Messico – o l'Italia – ci sia davvero bisogno di personaggi senza nome e senza volto per sapere chi sono i collusi con la criminalità.

Mariano Rajoy e quella foto inopportuna


Adeje (Santa Cruz de Tenerife), 5 novembre 2011 - «Non possiamo controllare la fedina penale di tutti quelli che vogliono dare una mano», è stata la difesa del Partido Popular, che stando a quanto si dice in Spagna, con ogni probabilità prenderà il potere alle prossime elezioni previste per il 20 novembre.
La dichiarazione è arrivata dopo che alcuni giornali spagnoli – e il Mattino nell'edizione di giovedì – hanno pubblicato una foto che ritrae il leader del Partido Popular Mariano Rajoy insieme a Domenico Di Giorgio, giovane avvocato campano attivo nella sezione di Adeje (Tenerife) del partito, arrestato lo scorso 18 ottobre nell'operazione “Pozzaro” contro il clan Nuvoletta-Polverino.

Prima dell'arresto, Di Giorgio era legale e consigliere di Giuseppe Felaco, capoclan che nelle Canarie aveva situato la sua base per ripulire il denaro proveniente dal narcotraffico in Italia.
Dal partito si difendono – come abbiamo visto – sostenendo, a ragione, che non si possono conoscere le fedine penali di tutti coloro che al partito si avvicinano. Ma Di Giorgio non era un semplice “sostenitore”. Alle elezioni municipali tenutesi ad Adeje lo scorso 22 maggio, infatti, il suo nome compare al quarto posto nella lista dei candidati per il Pp. Non è stato eletto solo perché ritiratosi per motivi personali.
Non si può conoscere la fedina penale di tutti i sostenitori, questo è vero, ma – in Spagna come in Italia – bisognerebbe conoscere quanto meno quella dei propri candidati, in particolare se il loro nome compare in posizioni di lista (chi ha dimestichezza con queste cose lo sa bene) in cui si è spesso eletti.

Mariano Rajoy peraltro, come scrive il quotidiano progressista Publico che per primo ha dato la notizia nei giorni scorsi, non è nuovo a fotografie “scomode”. Il 19 maggio 2009, due giorni prima delle elezioni europee infatti, fu fotografato durante un momento elettorale sulla tonnara Moropa, di proprietà di Daniel Baúlo Carballo, leader del clan Os Caneos considerato il più importante narcotrafficante spagnolo.

Spagna e Italia un'unica, grande, famiglia? Il clan Nuvoletta-Polverino è radicato a Tenerife fin dagli anni Novanta proprio grazie all'operato di Felaco, e che però vede la prima operazione anti-camorra su territorio spagnolo – nome in codice “Pozzaro” - realizzata solo lo scorso 18 ottobre e che ha portato a 14 arresti, 60 perquisizioni ed il sequestro di vari immobili, conti bancari, 7 yacht, auto di grossa cilindrata e del complesso turistico Marina Palace, il quartier generale della camorra sul territorio. Il ruolo di Di Giorgio, stando a quanto definito dall'inchiesta, sarebbe stato quello di creare le aziende per il lavaggio dei proventi del traffico di droga e quello, da legale, di risolvere i problemi con la giustizia. Non certo un ruolo di secondo piano, dunque.

L'allarme è lanciato già da qualche anno: in Spagna la “gamurra” non è più solo il nome della giacca corta indossata dai banditi spagnoli che invasero il Regno di Napoli e da cui, si dice, provenga il termine “camorra”. Dal traffico di droga che proprio in Spagna trova il primo punto di ingresso in Europa fino alla “Costa Nostra” - la Costa del Sol – ed i molti latitanti che vi trovano rifugio, la criminalità si sta infiltrando – con le stesse modalità utilizzate in Italia – anche nel tessuto socio-economico spagnolo. E da oggi anche in quello politico.

Procura di Catania, eletto lo "straniero" Salvi



Catania, 3 novembre 2011 – L'ufficialità è arrivata quando erano da poco passate le 21 di ieri sera. Catania ha, finalmente, il suo nuovo procuratore. Nessuna sorpresa, comunque. A sedersi sulla non tanto comoda poltrona è – come ampiamente previsto – Giovanni Salvi, il candidato “esterno” invocato da più parti.

Curriculum di tutto rispetto – Ustica, omicidi Pecorelli e Calvi, Nuclei Armati Rivoluzionari e Brigate Rosse, – Salvi (nella foto) è stato eletto con 13 voti arrivati da Magistratura Democratica, Movimento per la Giustizia, dai due consiglieri laici di area Pd, da Ernesto Lupo, presidente della Cassazione e dal procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, che hanno votato Salvi anche durante la prima elezione, ai quali si sono poi aggiunti, nel secondo turno, anche i voti di Michele Vietti, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e dei consiglieri di Magistratura Indipendente Alessandro Pepe e Antonello Racanelli, che al primo turno avevano invece votato per Tinebra, fermatosi al secondo turno a soli due voti. Undici voti, infine, sono andati al terzo candidato, Giuseppe Gennaro.

Dei due candidati sconfitti – uno, Tinebra, conosciuto per la storia del falso certificato e per aver avvisato Silvio Berlusconi delle indagini del periodo delle stragi a suo carico, l'altro, Gennaro, che come ricostruiva il Fatto Quotidiano avrebbe acquistato un immobile da un imprenditore colluso – ne abbiamo parlato un paio di settimane fa[1], all'epoca in cui era stata fissata la prima convocazione per l'elezione. La vittoria di Giovanni Salvi, dunque, era scontata fin dalle candidature (un curriculum dettagliato era allegato all'ordine del giorno presentato al Csm prima della votazione[2]).

Era il Csm, sembrava il Parlamento. Le votazioni – come riporta il quotidiano Sud Press che ne ha fatto la “webcronaca”[3] - si sono protratte per poco meno di tre ore, tempo utilizzato oltre che per le votazioni vere e proprie, anche per la campagna elettorale interna necessaria a “presentare” i candidati. Ad aprire i giochi è stata Pina Casella – Magistratura democratica, corrente “di sinistra” del Csm – che ha perorato la causa di Giuseppe Gennaro, il cui punto di forza è la grande conoscenza del territorio e delle sue dinamiche.
A seguire l'intervento, pro-Salvi, di Francesco Cassano – sempre di Magistratura Democratica – e quello, per Tinebra, di Tommaso Virga di Magistratura Indipendente, la corrente dei moderati.

Come ogni elezione che si rispetti non sono mancate nemmeno le polemiche, prettamente politiche, su cavilli di elegibilità e compatibilità e sull'Associazione nazionale magistrati.
Polemiche che, però, non sono servite a spostare di un millimetro il verdetto scritto già da settimane. A Catania è arrivato lo “straniero”. Se sia stata la miglior scelta possibile è ancora presto per dirlo.

Note
[1] http://senorbabylon.blogspot.com/2011/10/procura-di-catania-una-poltrona-che.html
[2] http://www.sudpress.it/wp-content/uploads/2011/11/02/oggi-pomeriggio-la-nomina-del-nuovo-procuratore-della-repubblica-di-catania/schede-allegate-allodg-del-CSM-Plenum-del-2-novembre-2011.pdf
[3] http://www.sudpress.it/cronaca/oggi-pomeriggio-la-nomina-del-nuovo-procuratore-della-repubblica-di-catania/

Dalla Cina con l'aeroporto


Questo articolo lo trovate anche su InfoOggi.it http://www.infooggi.it/articolo/dalla-cina-con-laeroporto/19819/


Centuripe (Enna), 2 novembre 2011 – La Cina è vicina, dice il vecchio adagio. E non lo è mai stata così tanto, verrebbe da dire guardando all'inchiesta di RaiNews che andrà in onda questa sera alle 22 e in replica domenica 6 novembre alle 18,30. Al centro la realizzazione di un aeroporto che permetterebbe ai voli intercontinentali commerciali dalla Cina di atterrare nel cuore del Mar Mediterraneo, a pochi chilometri – si sottolinea dall'altra parte dell'oceano (atlantico) – dalla base di Sigonella, uno degli argomenti al centro del recente viaggio del segretario di stato Clinton a Pechino. E se la Clinton non ride, c'è qualcuno che, potenzialmente, si sta già fregando le mani: Cosa Nostra.

Soldi cinesi, idea italiana. La società interessata è la Hainan Airlines Company Limited (Hna) – 28 per cento delle azioni detenute dal magnate americano George Soros – attraverso la compagnia aerea del gruppo, la Grand China Air (proprietaria del restante 72 per cento della compagnia), che già nel 2009 si era interessata al progetto, parlando esplicitamente del potenziamento di cinque tratte verso l'Italia. Oltre alla tratta siciliana, infatti, sono previsti anche i potenziamenti di quelle con Milano, Venezia, Firenze e Roma, potenziamento dovuto anche al fatto che il nostro paese è diventata da tempo la prima meta turistica per i cittadini cinesi in Europa, superando anche i cugini francesi.

Il progetto è, però, idea dell'Università Kore di Enna, e prevede l'interesse – oltre che della facoltà – anche della Provincia di Catania, del Comune di Centuripe, della Provincia di Siracusa, dell'Autorità portuale di Augusta e dell'Interporto di Catania – i due principali collegamenti che l'aeroporto dovrebbe avere sul piano commerciale – nonché di Sviluppo Italia Sicilia.

L'aeroporto, che nei progetti dovrebbe essere fornito di una pista di 5 chilometri (lunga quanto quella di Malpensa) e costare sui 300 milioni, verrà costruito attraverso la partnership tra la società cinese e le autorità locali, necessaria a sbrigare in breve tempo questioni burocratiche altrimenti complicate come gli espropri necessari.

L'Unione Europea, nei giorni scorsi, ha praticamente negato l'utilità del Ponte sullo Stretto di Messina (ed il governo, su questa decisione, è ancora allo sbando); che la Sicilia debba “accontentarsi” dell'aeroporto?

Per Cosa Nostra, comunque, cambierebbe davvero poco.