Dall'omicidio di Mu'ammar al-Gaddafi in Libia non succede più niente. Stando quantomeno ai media mainstream, che hanno quasi completamente oscurato la “nuova Libia” del Consiglio nazionale di transizione. La realtà dei fatti – come dimostrano fonti indipendenti come Human Rights Investigation o la giornalista Lizzie Phelan o accreditate in Occidente come Amnesty – è però che tra torture, linciaggi e genocidi xenofobi, la “nuova Libia” assomiglia tanto a quella vecchia. |
L'Aja - «Il mio nome è Mu'ammar al-Gaddafi. Considero questo tribunale falso, in quanto chiamato a produrre false giustificazioni per i crimini di guerra commessi dall'Occidente in Libia. I media internazionali hanno iniziato una caccia alle streghe ed io non ero nelle condizioni di rispondere in modo adeguato cosicché è ora inimmaginabile che questa Corte possa giudicarmi».
Ha voluto disconoscere la Corte che lo giudicava – quella internazionale de L'Aja – accusata di essere «un fantoccio nelle mani della Nato». Si è presentato così, in quello che è apparso come un vero e proprio “contro-processo” all'Occidente l'ex leader libico Mu'ammar al-Gaddafi, accusato di genocidio e crimini contro l'umanità, arrestato nei giorni scorsi a Sirte, la sua roccaforte, dopo un rocambolesco scontro a fuoco.
Un arresto che, naturalmente, non è mai avvenuto (le parole della dichiarazione, infatti, sono quelle – reali – usate davanti a quella stessa corte dall'ex presidente serbo Radovan Karadžić). Perché l'uomo che ha guidato la Libia per oltre quarant'anni non subirà alcun processo, né dalla giustizia internazionale né da quella dei cosiddetti “ribelli” libici, che lo scorso 20 ottobre hanno deciso di passare direttamente all'esecuzione della sentenza. Eliminando così, oltre al corpo, anche la possibilità di trovare risposta ai tanti quesiti sorti in questi anni sulla reale figura del leader libico.
È per questo, dicono molti commentatori, che al-Gaddafi è stato ucciso, indipendentemente dalla rappresentazione mediatica che se n'è voluta dare, dove la mancanza di una statua da abbattere – come successo con Saddam o con Stalin – ha fatto spuntare una pistola dorata, divenuta il simbolo della nuova Libia. È stato ucciso per evitare che il processo de L'Aja potesse trasformarsi in un vero e proprio processo all'Occidente, i cui scheletri nell'armadio dei rapporti con la Libia sono innumerevoli.
Ma procediamo per gradi
La vecchia politica degli “aiuti umanitari”. «Roma avrebbe inviato in Cirenaica un carico di pistole, mitra e munizioni, spacciando il tutto per “aiuti umanitari”». Così titolava, in un articolo del 4 luglio scorso, il sito PeaceReporter, riprendendo la notizia dall'agenzia di stampa Nena News, secondo la quale nella prima settimana di marzo il nostro paese avrebbe rifornito di armi leggere i ribelli libici. Quelle armi, continua l'articolo, sono state prelevate dai depositi de La Maddalena e Tavolara – in Sardegna – e trasportate, su navi della Marina Militare (come il pattugliatore ITS Libra, arrivata a Benghasi a marzo), in Cirenaica. La formula, naturalmente, è quella ormai consolidata dell'invio di aiuti umanitari, una pratica che i nostri governi usavano già ai tempi dell'”affaire-Somalia” (e della Shifco, Ilaria Alpi e Siad Barre).
Qualche giorno prima – il 29 giugno – lo stesso sito riportava, riprendendola questa volta dal quotidiano francese Le Figaro, una identica notizia per la quale era stata la Francia – attraverso lanci con il paracadute – a rifornire i ribelli di armi come lanciarazzi, fucili d'assalto, mitragliatrici e missili anticarro.
Non potendo usare truppe di terra, quindi, i due paesi hanno ben pensato di adeguarsi ai tempi della guerra moderna e “delocalizzare”, usando un esercito – come ci è stato presentato dai telegiornali – creato direttamente in loco.
Per quanto riguarda le armi inviate dall'Italia – come dimostrato dal sito Globalist.it[1][2], al quale vi rimando per un maggiore approfondimento della vicenda – c'è però un piccolo problema tecnico, perché quelle armi non sarebbero dovute esistere. Data la partenza, infatti, quelle armi farebbero parte (il condizionale è d'obbligo in quanto sulla vicenda vige il segreto di Stato) di un carico sequestrato nel 1994 sulla Jadran Express, di proprietà della Croatia Line e battente bandiera maltese, che costituiva l'ultima delle dodici spedizioni di armi che – ai tempi della guerra nell'ex-Jugoslavia – partivano dal porto di Rijeka, in Croazia, per arrivare in Bosnia, in barba all'embargo per un totale di 15.000 tonnellate di armi e 200 milioni di dollari di valore, così come accertato dalla Procura di Torino e dagli uomini della Direzione Investigativa Antimafia dopo il sequestro nelle acque del canale di Otranto. Da qui le armi erano state inviate in Sardegna e stivate a Caverna di Guardia del Moro, località utilizzata come deposito di armi e munizioni dalla nostra Marina e – dal 1972 al 2008 – dagli americani.
Questa, continua il sito in un articolo di Ennio Remondino[3] – sarebbe la seconda spedizione illegale di armamenti che dal Belpaese vanno a rifornire la Libia, dopo un primo carico di armi proveniente dal vecchio arsenale in dotazione a Gladio stoccati a Capo Marrargiu, un tempo sede di addestramento dell'organizzazione.
La domanda, a questo punto, credo sia lecita: quanti altri “aiuti umanitari” di questo tipo sono stati inviati?
Trafficanti d'armi. Proprio quello delle armi è, peraltro, uno degli mercati che più stuzzica gli appetiti occidentali, che dopo i settori del petrolio, del gas e delle infrastrutture vedono in questo uno dei tanti modi per ammortizzare la crisi economica che sta investendo la cara vecchia Europa ed i conseguenti tagli alle spese militari. Come scrive Gianandrea Gaiani sul “Sole 24Ore”[4], infatti, il mercato potenziale è di 200 miliardi di dollari in dieci anni, e se verranno mantenute le promesse del presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) Mustafa Abdel Jalil, saranno «alleati e amici» - cioè più o meno gli stessi che fino a quale mese fa sedevano al tavolo di al-Gaddafi – a spartirsi la torta. «In pole position i francesi con Eads, Dassault, DCN, Thales ed i britannici di Bae System». Ci sarebbe anche l'italiana Finmeccanica, ma bisognerà capire cosa ne sarà dell'azienda una volta passato lo “scandalo”.
L'apartheid libico. Un'altra domanda che sarebbe bene porsi, anche alla luce del modus operandi occidentale, che un giorno crea un “amico” e il giorno dopo lo proclama “terrorista” (bastino in tal senso i nomi di Manuel Antonio Noriega e Saddam Hussein), è cercare di capire a chi stiamo regalando – ed in futuro venderemo – le armi. Perché quello che ci viene raccontato dai media mainstream, per cui ci sarebbero i cattivi (cioè i “lealisti” fedeli ad al-Gaddafi) contrapposti ai “buoni” (i “ribelli” del Cnt) è una semplificazione per la quale, probabilmente, storcerebbero il naso anche gli ideatori di favole per bambini. Comitati e personalità indipendenti – come la giornalista Lizzi Phelan – così come fonti considerate autorevoli dall'Occidente come Amnesty International parlano infatti di una storia diversa. Anche troppo.
Se è vero – come dicevamo all'inizio – che uno dei simboli con cui la caduta del regime libico sarà ricordata è la pistola d'oro con cui, stando alla ricostruzione ufficiale, è stato ucciso al-Gaddafi, un'altra delle immagini che caratterizzeranno questo conflitto ci porta dritti a Tawergha, una cittadina di circa 30.000 anime a qualche decina di chilometri da Misurata, conosciuta per essere diventata una vera e propria città fantasma dopo quello che qualcuno chiama “il genocidio dei neri”.
Come riporta il Wall Street Journal[5], non certo un giornale facilmente accusabile di “complottismo”, capi ribelli come Ibrahim al-Halbous parlarono fin da subito del “repulisti etnico” che ci sarebbe stato a Tawergha, dove le scritte pro-Gheddafi sui muri sono state presto sostituite da frasi come «siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri». La colpa dei tawerghiani è stata quella di rimanere fedeli ad al-Gaddafi, per il quale erano andati ad arruolarsi.
È del 30 settembre l'inchiesta sugli accadimenti di Tawergha che fa l'organizzazione indipendente Human Rights Investigation[6]. «I tawerghiani sono stati demonizzati e disumanizzati, descritti tutti come “lealisti”, anche quando si trattava di semplici lavoratori», dice il report. Conferme arrivano anche da Amnesty International, le cui denunce – a fine agosto – parlano di persone che non possono tornare nelle proprie case per paura di essere arrestati o di subire stupri ed esecuzioni da parte dei “ribelli”.
«Prima che la rivolta iniziasse» - scrive l'ong nel suo rapporto “The battle for Libya. Killings, disappearances and torture”[7] - «in Libia si trovavano tra 1,5 e 2,5 milioni di cittadini stranieri, molti originari di paesi dell'Africa sub-sahariana, inclusi Burkina Faso, Etiopia, Eritrea, Ghana, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan. Molti provenivano dai paesi vicini della fascia nord-africana, altri dal sud est asiatico. Alcuni erano arrivati alla ricerca di migliori condizioni di vita in Libia o in Europa, altri scappavano da conflitti o persecuzioni».
«I combattenti ribelli ed i loro supporters hanno rapito, detenuto arbitrariamente, torturato ed ucciso membri delle forze di sicurezza accusati di essere fedeli ad al-Gaddafi, catturato soldati e cittadini stranieri erroneamente sospettati di essere combattenti mercenari pro-Gheddafi», è l'inizio del capitolo nel quale Amnesty analizza nel dettaglio gli abusi delle forze di opposizione.
Linciaggi. «Nei primi giorni della rivolta, gruppi di contestatori hanno ucciso molti soldati e sospettati mercenari ad al-Bayda, Derna e Bengasi. Alcuni sono stati picchiati fino alla morte, almeno tre sono stati impiccati, ed altri sono stati uccisi dopo che erano stati catturati o si erano arresi. Alcuni sono stati presentati come “mercenari africani”, ma la loro identità non è stata accertata».
Il report si concentra sul caso – venuto fuori dalle interviste ai residenti fatte dagli inviati dell'ong – avvenuto a Derna il 22 febbraio, quando un militare è stato impiccato ad un ponte pedonale, seguito da altri 15 omicidi perpetrati durante la notte e la mattina successiva nel villaggio di Martubah, a sud-est di Derna. Ad al-Bayda, un uomo di carnagione nera che indossava l'uniforme della polizia degli insorti ma presentato come “mercenario africano” è stato prima linciato dai ribelli e poi preso dall'ospedale (dove evidentemente era stato ricoverato) ed impiccato. Non è chiaro, sostiene Amnesty, se sia stato ucciso dall'impiccagione o fosse già morto.
Vendette. Khalifa al-Surmani, ex membro dell'International Security Agency (un'agenzia d'intelligence accusata di aver commesso alcune tra le peggiori violazioni dei diritti umani sotto al-Gaddafi) e padre di sei figli, è stato trovato morto il 10 maggio nella periferia a sud-ovest di Bengasi. Lo hanno ucciso sparandogli un colpo in testa. Aveva mani e piedi legati ed una sciarpa molto stretta intorno al collo. Il polpaccio destro presentava una evidente asportazione di carne, ed i segni sulle ginocchia indicavano che era stato in ginocchio. Tranne che per il polpaccio – forse un tentativo di tortura – la dinamica indica chiaramente un'esecuzione. «Un cane tra i cani di al-Gaddafi è stato eliminato» è stato scritto con il suo sangue. In questo modo, continua Amnesty, sono stati uccisi almeno altri otto membri dell'agenzia, anche se molte famiglie vittime di queste vendette non hanno voluto denunciare, per paura di rappresaglie e di essere stigmatizzati come “anti-rivoluzionari”.
Detenzioni. La Sa'adoun Secondary School e lo Zarouq Cultural Center sono stati utilizzati dai ribelli per tenere in arresto centinaia di individui, compresi civili, accusati di “sovvertire la rivoluzione”. Tutti i detenuti ed ex detenuti intervistati a Bengasi e Misurata - continua il report di Amnesty - non hanno mai visto mandati di arresto o altri documenti che rendessero legali le detenzioni. In molti casi, anzi, gli arresti sono sembrati molto più simili a dei rapimenti, compresa la difficoltà di identificare i gruppi che eseguivano l'arresto, spesso formati da uomini mascherati e con veicoli non identificabili.
Torture ed altri maltrattamenti. Lo Zarouq Cultural Center in particolare, è ancora il report ad evidenziarlo, sarebbe stato trasformato in una sorta di “Esma” (la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina utilizzata durante la dittatura degli anni Settanta come centro di detenzione illegale e tortura), con torture (tra le quali percosse sul corpo, anche nudo, con cinture, calci di fucili e tubi di gomma) e stupri utilizzati come strumenti per estorcere confessioni, “legalmente” accettate attraverso firme apposte sotto minaccia. Un soldato delle forze di al-Gaddafi sarebbe stato attaccato nel cuore della notte mentre era in cura, sotto detenzione, all'Hikma Hospital di Misurata. Ci sono state denunce dell'uso del Taser, dispositivi considerati armi da difesa che fanno uso di elettricità e che, pur essendo considerati “meno che letali” - è la stessa Amnesty International a denunciarlo – negli Stati Uniti ha fatto 334 vittime tra il 2001 ed il 2008.
Certo, non era – e non è – credibile che il Cnt combattesse la propria guerra con mazzi di rose rosse invece che con gli Ak-47 o i lanciarazzi, ma dando per vere le varie ricostruzioni sui crimini del regime gheddafiano capire quale sia la differenza con il nuovo regime diventa molto difficile. Così come non è credibile – ma non lo era fin dall'inizio – che il motivo per cui si è deciso di “uccidere il re” fosse solo la voglia di instaurare la democrazia. La Libia non è l'Egitto, insomma. A questo punto, però, rimane un'ultima domanda a cui cercare risposta. Perché?
L'Africa agli...occidentali. Il sito PeaceLink riporta[8] un'intervista del sito “Asteclist.com” a Jean Paul Pougala, direttore dell'Istituto di Studi Geostrategici e professore di sociologia all'Università della Diplomazia di Ginevra, dalla quale – ancora una volta – viene fuori una Libia (ed un al-Gaddafi) un po' diversi da quelli descritti nei media mainstream.
Rascom I. «È la Libia di Gheddafi che offre a tutta l'Africa la sua prima vera rivoluzione dei tempi moderni: assicurare la copertura universale del continente per la telefonia, la televisione, la radiodiffusione e per molteplici altre applicazioni, come la telemedicina e l'insegnamento a distanza; per la prima volta, diviene disponibile una connessione a basso costo su tutto il continente, fino alle più sperdute zone rurali, grazie al sistema di ponti radio WMAX». Nata nel 1992 dall'accordo di 45 paesi del continente africano, l'idea di fondo di Rascom è quella di disporre di un satellite grazie al quale abbassare i costi delle comunicazioni, fino al 2007 appannaggio dell', che incassava – ogni anno – qualcosa come 500 milioni di dollari in quanto tutte le comunicazioni, anche quelle interne ad uno stesso paese, dovevano passare attraverso i satelliti di Intelsat, l'organizzazione europea creata nel 1964 per la gestione commerciale delle telecomunicazioni via satellite.
Il satellite africano veniva a costare “solo” 400 milioni di dollari. Cioè 100 milioni in meno di quanto l'Africa pagava una sola rata all'Europa. Più del 75% del progetto – 300 milioni – finanziati dalla Libia. Questo ha permesso, nel dicembre 2007, di lanciare il primo satellite africano della storia (un secondo, costruito integralmente in Algeria, è previsto per il 2020). «La Libia di Gheddafi ha fatto perdere all'Occidente non solamente 500 milioni di dollari all'anno, ma i miliardi di dollari di debiti e di interessi che questo stesso debito permetteva di generare all'infinito e in modo esponenziale, contribuendo quindi a mantenere il sistema occulto che sta spogliando l'Africa», continua Pougala.
Oltre a Rascom I, il continente – troppe volte dimenticato in Occidente e raccontato da noi solo attraverso le sue guerre – si sta dotando di una serie di istituzioni sovranazionali che potrebbero dare ai paesi africani l'opportunità di emanciparsi dal Vecchio Continente, dipendendo ancor meno dalle istituzioni sovranazionali occidentali. Per una di queste – il Fondo monetario africano, la versione africana dell'FMI – ci sarebbe stata addirittura la richiesta dei paesi occidentali di potervi far parte. Richiesta prontamente, e naturalmente, rigettata.
Insieme all'FMA – che dovrebbe essere finanziato con 42 miliardi di dollari ed avere sede a Yaoundé, capitale del Camerun – sono state progettate anche la Banca centrale africana (con sede ad Abuja, in Nigeria) e la Banca africana di investimenti, con sede a Sirte, città natale di al-Gaddafi.
La quarta “istituzione” di cui gli africani volevano dotarsi era il dinaro d'oro, che avrebbe costituito quel che l'euro rappresenta per l'Europa, divenendo l'unica moneta a corso legale nell'intero continente. L'introduzione di questa vera e propria mutazione nei rapporti di forza interni ed esterni al continente porterebbe non solo un'altra moneta a rivaleggiare con dollaro ed euro, ma anche – e soprattutto – alla fine del colonialismo che la Francia attua ancora su 14 paesi africani attraverso il Franco CFA. Il fatto che proprio la Francia sia stata tra le voci più importanti per l'abbattimento del regime è solo una pura casualità, naturalmente...
Nella ricostruzione che fa Pugala, è interessante notare anche un'altra cosa: «Per destabilizzare e distruggere l'unità africana, orientata pericolosamente (per l'Occidente) verso la costruzione degli Stati Uniti d'Africa con al-Gaddafi a giocare un ruolo importantissimo, l'Unione Europea ha tentato fin dall'inizio, senza riuscirci, di giocare la carta della creazione dell'Unione per il Mediterraneo(...)fallita perché al-Gaddafi ha rifiutato di entrarvi». «Era assolutamente necessario» - continua Pougala - «separare nettamente il Nord Africa dal resto dell'Africa, evidenziando le medesime tesi razziste del diciottesimo e diciannovesimo secolo, secondo le quali le popolazioni africane di origine araba sarebbero più evolute, più civilizzate di quelle del resto del continente». Dando per vera questa affermazione, i dubbi sul razzismo dei “ribelli libici” e sulla cosiddetta “primavera araba” - ad eccezione forse dell'Egitto, che sembra diventare un caso a sé stante – diventano ancor più leciti.
Ha voluto disconoscere la Corte che lo giudicava – quella internazionale de L'Aja – accusata di essere «un fantoccio nelle mani della Nato». Si è presentato così, in quello che è apparso come un vero e proprio “contro-processo” all'Occidente l'ex leader libico Mu'ammar al-Gaddafi, accusato di genocidio e crimini contro l'umanità, arrestato nei giorni scorsi a Sirte, la sua roccaforte, dopo un rocambolesco scontro a fuoco.
Un arresto che, naturalmente, non è mai avvenuto (le parole della dichiarazione, infatti, sono quelle – reali – usate davanti a quella stessa corte dall'ex presidente serbo Radovan Karadžić). Perché l'uomo che ha guidato la Libia per oltre quarant'anni non subirà alcun processo, né dalla giustizia internazionale né da quella dei cosiddetti “ribelli” libici, che lo scorso 20 ottobre hanno deciso di passare direttamente all'esecuzione della sentenza. Eliminando così, oltre al corpo, anche la possibilità di trovare risposta ai tanti quesiti sorti in questi anni sulla reale figura del leader libico.
È per questo, dicono molti commentatori, che al-Gaddafi è stato ucciso, indipendentemente dalla rappresentazione mediatica che se n'è voluta dare, dove la mancanza di una statua da abbattere – come successo con Saddam o con Stalin – ha fatto spuntare una pistola dorata, divenuta il simbolo della nuova Libia. È stato ucciso per evitare che il processo de L'Aja potesse trasformarsi in un vero e proprio processo all'Occidente, i cui scheletri nell'armadio dei rapporti con la Libia sono innumerevoli.
Ma procediamo per gradi
La vecchia politica degli “aiuti umanitari”. «Roma avrebbe inviato in Cirenaica un carico di pistole, mitra e munizioni, spacciando il tutto per “aiuti umanitari”». Così titolava, in un articolo del 4 luglio scorso, il sito PeaceReporter, riprendendo la notizia dall'agenzia di stampa Nena News, secondo la quale nella prima settimana di marzo il nostro paese avrebbe rifornito di armi leggere i ribelli libici. Quelle armi, continua l'articolo, sono state prelevate dai depositi de La Maddalena e Tavolara – in Sardegna – e trasportate, su navi della Marina Militare (come il pattugliatore ITS Libra, arrivata a Benghasi a marzo), in Cirenaica. La formula, naturalmente, è quella ormai consolidata dell'invio di aiuti umanitari, una pratica che i nostri governi usavano già ai tempi dell'”affaire-Somalia” (e della Shifco, Ilaria Alpi e Siad Barre).
Qualche giorno prima – il 29 giugno – lo stesso sito riportava, riprendendola questa volta dal quotidiano francese Le Figaro, una identica notizia per la quale era stata la Francia – attraverso lanci con il paracadute – a rifornire i ribelli di armi come lanciarazzi, fucili d'assalto, mitragliatrici e missili anticarro.
Non potendo usare truppe di terra, quindi, i due paesi hanno ben pensato di adeguarsi ai tempi della guerra moderna e “delocalizzare”, usando un esercito – come ci è stato presentato dai telegiornali – creato direttamente in loco.
Per quanto riguarda le armi inviate dall'Italia – come dimostrato dal sito Globalist.it[1][2], al quale vi rimando per un maggiore approfondimento della vicenda – c'è però un piccolo problema tecnico, perché quelle armi non sarebbero dovute esistere. Data la partenza, infatti, quelle armi farebbero parte (il condizionale è d'obbligo in quanto sulla vicenda vige il segreto di Stato) di un carico sequestrato nel 1994 sulla Jadran Express, di proprietà della Croatia Line e battente bandiera maltese, che costituiva l'ultima delle dodici spedizioni di armi che – ai tempi della guerra nell'ex-Jugoslavia – partivano dal porto di Rijeka, in Croazia, per arrivare in Bosnia, in barba all'embargo per un totale di 15.000 tonnellate di armi e 200 milioni di dollari di valore, così come accertato dalla Procura di Torino e dagli uomini della Direzione Investigativa Antimafia dopo il sequestro nelle acque del canale di Otranto. Da qui le armi erano state inviate in Sardegna e stivate a Caverna di Guardia del Moro, località utilizzata come deposito di armi e munizioni dalla nostra Marina e – dal 1972 al 2008 – dagli americani.
Questa, continua il sito in un articolo di Ennio Remondino[3] – sarebbe la seconda spedizione illegale di armamenti che dal Belpaese vanno a rifornire la Libia, dopo un primo carico di armi proveniente dal vecchio arsenale in dotazione a Gladio stoccati a Capo Marrargiu, un tempo sede di addestramento dell'organizzazione.
La domanda, a questo punto, credo sia lecita: quanti altri “aiuti umanitari” di questo tipo sono stati inviati?
Trafficanti d'armi. Proprio quello delle armi è, peraltro, uno degli mercati che più stuzzica gli appetiti occidentali, che dopo i settori del petrolio, del gas e delle infrastrutture vedono in questo uno dei tanti modi per ammortizzare la crisi economica che sta investendo la cara vecchia Europa ed i conseguenti tagli alle spese militari. Come scrive Gianandrea Gaiani sul “Sole 24Ore”[4], infatti, il mercato potenziale è di 200 miliardi di dollari in dieci anni, e se verranno mantenute le promesse del presidente del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) Mustafa Abdel Jalil, saranno «alleati e amici» - cioè più o meno gli stessi che fino a quale mese fa sedevano al tavolo di al-Gaddafi – a spartirsi la torta. «In pole position i francesi con Eads, Dassault, DCN, Thales ed i britannici di Bae System». Ci sarebbe anche l'italiana Finmeccanica, ma bisognerà capire cosa ne sarà dell'azienda una volta passato lo “scandalo”.
L'apartheid libico. Un'altra domanda che sarebbe bene porsi, anche alla luce del modus operandi occidentale, che un giorno crea un “amico” e il giorno dopo lo proclama “terrorista” (bastino in tal senso i nomi di Manuel Antonio Noriega e Saddam Hussein), è cercare di capire a chi stiamo regalando – ed in futuro venderemo – le armi. Perché quello che ci viene raccontato dai media mainstream, per cui ci sarebbero i cattivi (cioè i “lealisti” fedeli ad al-Gaddafi) contrapposti ai “buoni” (i “ribelli” del Cnt) è una semplificazione per la quale, probabilmente, storcerebbero il naso anche gli ideatori di favole per bambini. Comitati e personalità indipendenti – come la giornalista Lizzi Phelan – così come fonti considerate autorevoli dall'Occidente come Amnesty International parlano infatti di una storia diversa. Anche troppo.
Se è vero – come dicevamo all'inizio – che uno dei simboli con cui la caduta del regime libico sarà ricordata è la pistola d'oro con cui, stando alla ricostruzione ufficiale, è stato ucciso al-Gaddafi, un'altra delle immagini che caratterizzeranno questo conflitto ci porta dritti a Tawergha, una cittadina di circa 30.000 anime a qualche decina di chilometri da Misurata, conosciuta per essere diventata una vera e propria città fantasma dopo quello che qualcuno chiama “il genocidio dei neri”.
Come riporta il Wall Street Journal[5], non certo un giornale facilmente accusabile di “complottismo”, capi ribelli come Ibrahim al-Halbous parlarono fin da subito del “repulisti etnico” che ci sarebbe stato a Tawergha, dove le scritte pro-Gheddafi sui muri sono state presto sostituite da frasi come «siamo la brigata che ripulirà la Libia dagli schiavi neri». La colpa dei tawerghiani è stata quella di rimanere fedeli ad al-Gaddafi, per il quale erano andati ad arruolarsi.
È del 30 settembre l'inchiesta sugli accadimenti di Tawergha che fa l'organizzazione indipendente Human Rights Investigation[6]. «I tawerghiani sono stati demonizzati e disumanizzati, descritti tutti come “lealisti”, anche quando si trattava di semplici lavoratori», dice il report. Conferme arrivano anche da Amnesty International, le cui denunce – a fine agosto – parlano di persone che non possono tornare nelle proprie case per paura di essere arrestati o di subire stupri ed esecuzioni da parte dei “ribelli”.
«Prima che la rivolta iniziasse» - scrive l'ong nel suo rapporto “The battle for Libya. Killings, disappearances and torture”[7] - «in Libia si trovavano tra 1,5 e 2,5 milioni di cittadini stranieri, molti originari di paesi dell'Africa sub-sahariana, inclusi Burkina Faso, Etiopia, Eritrea, Ghana, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan. Molti provenivano dai paesi vicini della fascia nord-africana, altri dal sud est asiatico. Alcuni erano arrivati alla ricerca di migliori condizioni di vita in Libia o in Europa, altri scappavano da conflitti o persecuzioni».
«I combattenti ribelli ed i loro supporters hanno rapito, detenuto arbitrariamente, torturato ed ucciso membri delle forze di sicurezza accusati di essere fedeli ad al-Gaddafi, catturato soldati e cittadini stranieri erroneamente sospettati di essere combattenti mercenari pro-Gheddafi», è l'inizio del capitolo nel quale Amnesty analizza nel dettaglio gli abusi delle forze di opposizione.
Linciaggi. «Nei primi giorni della rivolta, gruppi di contestatori hanno ucciso molti soldati e sospettati mercenari ad al-Bayda, Derna e Bengasi. Alcuni sono stati picchiati fino alla morte, almeno tre sono stati impiccati, ed altri sono stati uccisi dopo che erano stati catturati o si erano arresi. Alcuni sono stati presentati come “mercenari africani”, ma la loro identità non è stata accertata».
Il report si concentra sul caso – venuto fuori dalle interviste ai residenti fatte dagli inviati dell'ong – avvenuto a Derna il 22 febbraio, quando un militare è stato impiccato ad un ponte pedonale, seguito da altri 15 omicidi perpetrati durante la notte e la mattina successiva nel villaggio di Martubah, a sud-est di Derna. Ad al-Bayda, un uomo di carnagione nera che indossava l'uniforme della polizia degli insorti ma presentato come “mercenario africano” è stato prima linciato dai ribelli e poi preso dall'ospedale (dove evidentemente era stato ricoverato) ed impiccato. Non è chiaro, sostiene Amnesty, se sia stato ucciso dall'impiccagione o fosse già morto.
Vendette. Khalifa al-Surmani, ex membro dell'International Security Agency (un'agenzia d'intelligence accusata di aver commesso alcune tra le peggiori violazioni dei diritti umani sotto al-Gaddafi) e padre di sei figli, è stato trovato morto il 10 maggio nella periferia a sud-ovest di Bengasi. Lo hanno ucciso sparandogli un colpo in testa. Aveva mani e piedi legati ed una sciarpa molto stretta intorno al collo. Il polpaccio destro presentava una evidente asportazione di carne, ed i segni sulle ginocchia indicavano che era stato in ginocchio. Tranne che per il polpaccio – forse un tentativo di tortura – la dinamica indica chiaramente un'esecuzione. «Un cane tra i cani di al-Gaddafi è stato eliminato» è stato scritto con il suo sangue. In questo modo, continua Amnesty, sono stati uccisi almeno altri otto membri dell'agenzia, anche se molte famiglie vittime di queste vendette non hanno voluto denunciare, per paura di rappresaglie e di essere stigmatizzati come “anti-rivoluzionari”.
Detenzioni. La Sa'adoun Secondary School e lo Zarouq Cultural Center sono stati utilizzati dai ribelli per tenere in arresto centinaia di individui, compresi civili, accusati di “sovvertire la rivoluzione”. Tutti i detenuti ed ex detenuti intervistati a Bengasi e Misurata - continua il report di Amnesty - non hanno mai visto mandati di arresto o altri documenti che rendessero legali le detenzioni. In molti casi, anzi, gli arresti sono sembrati molto più simili a dei rapimenti, compresa la difficoltà di identificare i gruppi che eseguivano l'arresto, spesso formati da uomini mascherati e con veicoli non identificabili.
Torture ed altri maltrattamenti. Lo Zarouq Cultural Center in particolare, è ancora il report ad evidenziarlo, sarebbe stato trasformato in una sorta di “Esma” (la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina utilizzata durante la dittatura degli anni Settanta come centro di detenzione illegale e tortura), con torture (tra le quali percosse sul corpo, anche nudo, con cinture, calci di fucili e tubi di gomma) e stupri utilizzati come strumenti per estorcere confessioni, “legalmente” accettate attraverso firme apposte sotto minaccia. Un soldato delle forze di al-Gaddafi sarebbe stato attaccato nel cuore della notte mentre era in cura, sotto detenzione, all'Hikma Hospital di Misurata. Ci sono state denunce dell'uso del Taser, dispositivi considerati armi da difesa che fanno uso di elettricità e che, pur essendo considerati “meno che letali” - è la stessa Amnesty International a denunciarlo – negli Stati Uniti ha fatto 334 vittime tra il 2001 ed il 2008.
Certo, non era – e non è – credibile che il Cnt combattesse la propria guerra con mazzi di rose rosse invece che con gli Ak-47 o i lanciarazzi, ma dando per vere le varie ricostruzioni sui crimini del regime gheddafiano capire quale sia la differenza con il nuovo regime diventa molto difficile. Così come non è credibile – ma non lo era fin dall'inizio – che il motivo per cui si è deciso di “uccidere il re” fosse solo la voglia di instaurare la democrazia. La Libia non è l'Egitto, insomma. A questo punto, però, rimane un'ultima domanda a cui cercare risposta. Perché?
L'Africa agli...occidentali. Il sito PeaceLink riporta[8] un'intervista del sito “Asteclist.com” a Jean Paul Pougala, direttore dell'Istituto di Studi Geostrategici e professore di sociologia all'Università della Diplomazia di Ginevra, dalla quale – ancora una volta – viene fuori una Libia (ed un al-Gaddafi) un po' diversi da quelli descritti nei media mainstream.
Rascom I. «È la Libia di Gheddafi che offre a tutta l'Africa la sua prima vera rivoluzione dei tempi moderni: assicurare la copertura universale del continente per la telefonia, la televisione, la radiodiffusione e per molteplici altre applicazioni, come la telemedicina e l'insegnamento a distanza; per la prima volta, diviene disponibile una connessione a basso costo su tutto il continente, fino alle più sperdute zone rurali, grazie al sistema di ponti radio WMAX». Nata nel 1992 dall'accordo di 45 paesi del continente africano, l'idea di fondo di Rascom è quella di disporre di un satellite grazie al quale abbassare i costi delle comunicazioni, fino al 2007 appannaggio dell', che incassava – ogni anno – qualcosa come 500 milioni di dollari in quanto tutte le comunicazioni, anche quelle interne ad uno stesso paese, dovevano passare attraverso i satelliti di Intelsat, l'organizzazione europea creata nel 1964 per la gestione commerciale delle telecomunicazioni via satellite.
Il satellite africano veniva a costare “solo” 400 milioni di dollari. Cioè 100 milioni in meno di quanto l'Africa pagava una sola rata all'Europa. Più del 75% del progetto – 300 milioni – finanziati dalla Libia. Questo ha permesso, nel dicembre 2007, di lanciare il primo satellite africano della storia (un secondo, costruito integralmente in Algeria, è previsto per il 2020). «La Libia di Gheddafi ha fatto perdere all'Occidente non solamente 500 milioni di dollari all'anno, ma i miliardi di dollari di debiti e di interessi che questo stesso debito permetteva di generare all'infinito e in modo esponenziale, contribuendo quindi a mantenere il sistema occulto che sta spogliando l'Africa», continua Pougala.
Oltre a Rascom I, il continente – troppe volte dimenticato in Occidente e raccontato da noi solo attraverso le sue guerre – si sta dotando di una serie di istituzioni sovranazionali che potrebbero dare ai paesi africani l'opportunità di emanciparsi dal Vecchio Continente, dipendendo ancor meno dalle istituzioni sovranazionali occidentali. Per una di queste – il Fondo monetario africano, la versione africana dell'FMI – ci sarebbe stata addirittura la richiesta dei paesi occidentali di potervi far parte. Richiesta prontamente, e naturalmente, rigettata.
Insieme all'FMA – che dovrebbe essere finanziato con 42 miliardi di dollari ed avere sede a Yaoundé, capitale del Camerun – sono state progettate anche la Banca centrale africana (con sede ad Abuja, in Nigeria) e la Banca africana di investimenti, con sede a Sirte, città natale di al-Gaddafi.
La quarta “istituzione” di cui gli africani volevano dotarsi era il dinaro d'oro, che avrebbe costituito quel che l'euro rappresenta per l'Europa, divenendo l'unica moneta a corso legale nell'intero continente. L'introduzione di questa vera e propria mutazione nei rapporti di forza interni ed esterni al continente porterebbe non solo un'altra moneta a rivaleggiare con dollaro ed euro, ma anche – e soprattutto – alla fine del colonialismo che la Francia attua ancora su 14 paesi africani attraverso il Franco CFA. Il fatto che proprio la Francia sia stata tra le voci più importanti per l'abbattimento del regime è solo una pura casualità, naturalmente...
Nella ricostruzione che fa Pugala, è interessante notare anche un'altra cosa: «Per destabilizzare e distruggere l'unità africana, orientata pericolosamente (per l'Occidente) verso la costruzione degli Stati Uniti d'Africa con al-Gaddafi a giocare un ruolo importantissimo, l'Unione Europea ha tentato fin dall'inizio, senza riuscirci, di giocare la carta della creazione dell'Unione per il Mediterraneo(...)fallita perché al-Gaddafi ha rifiutato di entrarvi». «Era assolutamente necessario» - continua Pougala - «separare nettamente il Nord Africa dal resto dell'Africa, evidenziando le medesime tesi razziste del diciottesimo e diciannovesimo secolo, secondo le quali le popolazioni africane di origine araba sarebbero più evolute, più civilizzate di quelle del resto del continente». Dando per vera questa affermazione, i dubbi sul razzismo dei “ribelli libici” e sulla cosiddetta “primavera araba” - ad eccezione forse dell'Egitto, che sembra diventare un caso a sé stante – diventano ancor più leciti.
Note |
[2] Armi italiane alla Libia, storia segreta/2 di Sergio Finardi, Globalist.it 30 ottobre 2011;
[3] Armi alla Libia, confermato lo scoop di Globalist di Ennio Remondino, Globalist.it 19 luglio 2011;
[4] Armi alla Libia, la corsa è a tre di Gianandrea Gaiani, Il Sole 24Ore 20 settembre 2011;
[5] Libya City Torn by Tribal Feud di Sam Dagher, Wall Street Journal 21 giugno 2011;
[6] Ethnic cleansing, genocide and the Tawergha, Human Rights Investigation 26 settembre 2011;
[7] http://www.amnesty.org/fr/library/info/MDE19/025/2011/en;
[8] Le vere ragioni della guerra in Libia, intervista a Jean Paul Pougala, PeaceLink.it 6 maggio 2011