Guatemala, Ríos Montt condannato ad 80 anni per il genocidio degli indigeni Maya Ixiles

foto: abc.es

Città del Guatemala (Guatemala) – Cinquanta anni per genocidio e trenta per crimini contro l'umanità. È questa la decisione – storica – presa due giorni fa dalla corte guatemalteca contro l'ex dittatore Efraín Ríos Montt (nella foto), 86 anni, che ha già reso nota la volontà di ricorrere in appello. Assolto, invece, l'ex capo dei servizi segreti, José Mauricio Rodríguez Sánchez. Presente al processo anche Rigoberta Menchú, che proprio per aver portato all'attenzione internazionale il genocidio fu insignita del Nobel per la pace nel 1992.

Avvenimento altrettanto storico è che a giudicare Montt sia stato un tribunale nazionale e non, come spesso avvenuto anche nella storia recente, un tribunale internazionale, così come l'aver dato - attraverso questa senteza - conferma a quanto denunciato dall'Onu e dalla Chiesa Cattolica: quanto avvenuto in Guatemala non fu solo una guerra civile durata più tre decenni (dal 1960 al 1996) ma un vero e proprio genocidio.

Iniziato a gennaio 2012, il processo verteva su 15 massacri – dei 266 iniziali - avvenuti durante i sedici mesi del regime nel dipartimento del Quiché, nordest del paese, dove furono massacrati dalla dittatura 1.771 indigeni Maya-Ixiles - di cui quasi la metà bambini tra zero e dodici anni - accusati dal regime di supportare la guerriglia di sinistra dell'Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca (URNG).
Fondamentali, per la condanna definitiva, sono state le molte donne che hanno testimoniato sulle torture e soprattutto sugli stupri sistematici – 1.400 quelli oggetto del processo - che subivano, «prima dai soldati sani e solo alla fine da quelli ammalati di sifilide e gonorrea», come ha raccontato una donna all'epoca adolescente.

Montt, salito al potere con un colpo di stato militare il 23 marzo 1982 e sostituito, sedici mesi dopo, tramite un altro colpo di stato dei militari guidato dal generale ed ex ministro della Difesa Oscar Humberto Mejía Victores, pur continuando ad avere un ruolo di primo piano fino al suo ritiro a vita privata nel gennaio 2012, ha sempre negato ogni addebito sulle stragi, incolpando l'esercito, delle cui azioni non era sempre messo al corrente. Tesi che non può comunque essere completamente smentita alla luce della distruzione, avvenuta nel 1985, di tutti i documenti “compromettenti”, episodio che rende impossibile definire la reale catena di comando dei massacri, nella quale però forte fu la pressione esercitata su Montt da Ronald Reagan, allora Presidente degli Stati Uniti, volta ad evitare che il Centroamerica diventasse una delle basi del comunismo internazionale, che poteva contare già sul Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale del Nicaragua e su Fidel Castro a Cuba. 

Secondo le organizzazioni umanitarie, scriveva a marzo il quotidiano spagnolo El Paìs, almeno diecimila persone – nella maggior parte indigene – sarebbero state vittima di omicidi extragiudiziali, con i corpi gettati in fosse comuni o dati in pasto agli avvoltoi. Duecentomila, secondo l'Onu, furono le vittime totali della trentennale (1960-1996) guerra civile guatemalteca.

«Per la prima volta gli indigeni hanno potuto far sentire la propria voce. Per la prima volta hanno potuto pesare che il parlare avesse un senso. Per la prima volta hanno sentito che è possibile arrivare alla verità e alla giustizia», ha evidenziato Hellen Mack, sorella di Myrna Mack, l'antropologa uccisa nel 1990 proprio per le sue indagini sul genocidio. Verità ancora parzialmente negata da Otto Pérez Molina, attuale Presidente guatemalteco, che ha comunque evidenziato come «20 anni fa questo processo non sarebbe neanche stato pensabile».

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