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Napoli (Italia) - Sabato a Napoli pioveva. E c’era il sole. Dunque su Napoli campeggiava un bell'arcobaleno. Io me lo sono visto passare davanti, nei volti sorridenti, nelle bandiere e nei mille colori di un gruppetto di ragazzi appena maggiorenni alla stazione centrale, tappa di un personale giro d’Italia di meno di 24 ore. Per vedere l’arcobaleno sabato a Napoli non c’era bisogno di puntare il naso al cielo, bastava transitare per piazza Garibaldi, Porta Capuana o via Carbonara. Perché sabato a Napoli, dopo 16 anni, è tornato il pride, quella manifestazione d’orgoglio del popolo lgbtqi che per la mentalità vetero-democristiana è solo una manifestazione che andrebbe resa illegale per “oltraggio al pubblico pudore”. Io non ci sono mai stato (e qui ci sarebbe da sottolineare il “purtroppo” non so quante volte…) ma quello che è successo sabato nel capoluogo partenopeo è qualcosa di portentoso, qualcosa che potrebbe – o forse sarebbe meglio scrivere dovrebbe – essere il punto di svolta per una situazione (quella dei diritti delle e degli lgbtqi) preda dell’immobilismo che pervade questo geriatrico paese fin nelle più recondite viscere. Io non ci sono mai stato, come dicevo, quindi non posso che basarmi su informazioni “di seconda mano” in attesa di averne da chi ha attraversato le strade napoletano su uno dei 15 carri di cui si componeva la manifestazione. Quel che sembra aver colpito maggiormente l’immaginario collettivo è stata la partecipazione dei napoletani, come se il pride fosse stato una manifestazione in qualche modo “di nicchia”, di quelle che interessano solo “gli addetti ai lavori” di questo o quel campo. Pur non essendo – ovviamente – la festa di tutti, sicuramente è una festa aperta a tutti, perché i diritti – quelli lgbtqi come tutti gli altri – non sono ad uso e consumo solo di chi ne subisce in prima persona gli effetti. Perché se si scendesse in piazza solo durante i gay pride si potrebbe anche dire che il nostro è un paese civile e normale. Invece non solo tocca fare il gay pride per tentare di porre l’accento su questi diritti, ma quotidianamente (non) leggiamo dei diritti negati a chi entra nel nostro paese in cerca di un futuro migliore, non leggiamo dei diritti negati a chi ha sbagliato e che non viene aiutato, nonostante una carta costituzionale che – per chi ancora ci crede – chieda l’esatto opposto; (non) leggiamo dei diritti dei lavoratori, immolati sull’altare del capitalismo più sfrenato e della dottrina dello shock in scala ridotta che oggi si è fatta Verbo padronale. Non ne leggiamo perché – semplicemente – tali diritti ancora non esistono.
Non lo leggiamo, e probabilmente non lo leggeremo, perché in questo paese non c’è libertà di stampa. No, non mi riferisco a quella che riguarda la possibilità di pubblicare le intercettazioni, tantomeno a quella – in voga in una certa parte della classe giornalistica – che vorrebbe riempire i giornali con le sentenze dei tribunali. Mi riferisco a quella libertà negata quando un giornalista deve scrivere uno scoop contro un’azienda che è anche nel consiglio di amministrazione del giornale per il quale lavora; mi riferisco al fatto che le pagine dei nostri quotidiani sono invase da un sacco di notizie inutili perché le storie interessanti sono materia per giornalisti veri, cioè quei giornalisti che non trovano spazio in Italia e sono costretti a ricorrere a vie alternative o ad emigrare. Ma d’altronde cosa pretendere da un paese agonizzante, da un paese il cui tramonto è ormai giunto? Riflesso di una classe politico-intellettuale geriatrica è che il nostro paese vede sempre più avvicinarsi la data di scadenza, ed è per questo – per evitare una sorta di genocidio autoprodotto – che bisogna iniziare a fare qualcosa di concreto, e Napoli può essere solo il punto di partenza (ma su questo ci tornerò in futuro, visto che non è l’oggetto principale del post…).
“E qual è ‘o probblema? Simme tutt’ quant’ ugual’“. È questo quello che ti rispondevano le signore sui balconi, o quelle che erano scese in strada insieme ai bambini perché “ci si devono abituare” in un napoletano che già nella grammatica è “a-sessuale”. Non è solo camorra Napoli, lo sappiamo benissimo. È anche la città che forse prima di tutte avverte il cambiamento della società: se memoria non mi inganna è stata anche la prima città italiana ad ospitare un Social Forum, uno di quei contro-forum che di solito i no-global fanno in occasione di qualche riunione dei criminali internazionali (G8, G20 et similia), ed è – anche – la città italiana “gay friendly” per antonomasia, visto che già ai tempi del saccheggio del Meridione noto come “Unità d’Italia” esisteva la figura del femminiello (termine oggi usato in tono dispregiativo), travestito o trans, fortemente inserito nei tessuti sociali dei quartieri popolari, spazzati via dal terremoto del 1980 in Irpinia che ha, oltre ad aver distrutto qualche casa risalente ai tempi dell’Homo Sapiens, anche distrutto una struttura sociale ben definita che – se vogliamo metterla in termini “federalisti” – si differenziava da quella del Nord per essere aperta alle più disparate (e disperate) sensibilità non solo a parole, tanto da impedire al Regno Sabaudo di introdurre le leggi omofobiche nel proprio ordinamento. Ma d’altronde non c’è da stupirsi: Napoli è l’anomalia d’Italia, una città che non si può ignorare. Una città che ami o odi, non puoi rimanerne indifferente. «Quando lei dorme dolce creatura appare ed io rimango lì ad ammirare sapendo che al sorgere del sole il mostro si sveglierà per la fame» canta Meg nella bellissima “Napoli città aperta”.
Era anche prevedibile una simile risposta, probabilmente. Napoli è sempre stata una città con un forte senso di resistenza: alla camorra, con la quale vive e convive ormai da secoli grazie ad uno stato centrale che ha fatto della lotta all’anti-camorra (o all’anti-mafia) perno di qualunque governo, destrorso o sinistro che sia (basti guardare al fatto che nessun governo si è mai azzardato a fare leggi repressive contro i padroni che per un maggior profitto personale abbassano, quando non gli eliminano proprio, gli standard di sicurezza sui cantieri o nelle fabbriche, tanto per limitarci ad un solo esempio); Napoli è una città che quotidianamente resiste allo stereotipo del “meridionale scansafatiche e profittatore” delineato da quel ricco Nord che se non fosse stato per l’annessione della terza potenza mondiale a livello industriale dell’epoca e le tantissime braccia meridionali che da decenni vanno a formare la manovalanza nordista sarebbe tutt’altro che la locomotiva di questo paese.
Sembra poi aver colpito (favorevolmente) l’immaginario collettivo l’immagine di una Rosa Russo Jervolino in testa al corteo, «come nelle grandi città europee» commentano i più. Perché, cosa avrebbe dovuto fare quella che, per definizione, è l’espressione della volontà dei cittadini se non quella di mettersi alla testa – ma non al comando – di quella stessa volontà cittadina che aveva fortemente voluto il pride?
Naturalmente non sono state tutte rose e fiori. Ci sono state anche le contestazioni: da parte di tutt* quell* che erano scesi in strada verso Anna Paola Concia – parlamentare PD con un passato comunista – alla quale mai verrà perdonato di aver difeso il diritto di CasaPound (estrema destra) di fare una propria manifestazione adducendo quella barzelletta che in una democrazia tutti hanno diritto alla manifestazione di pensiero (la barzelletta non è che in democrazia tutti abbiano diritto alla manifestazione del pensiero, ma piuttosto quella che l’Italia sia una democrazia). Mi verrebbe quasi da chiederle – a lei ed agli altri esponenti di una sinistra che sempre più si sposta a destra – perché si straccino le vesti per difendere CasaPound e mai spendano parole per i carcerati, per tutt* i/le privat* della libertà rinchius* nei Centri di Identificazione ed Espulsione, che un Presidente di Regione che si dichiara di sinistra vorrebbe mettere anche nella mia regione (Enrico Rossi in Toscana). Eppure credo siano questi i temi ai quali la gggente e la classe politica di sinistra dovrebbe interessarsi, no? Ma – come dice Carlo Lucarelli – questa è un’altra storia…
Ci sono state contestazioni dal pride ed al pride: come quella, non certo originale, di Pietro Diodato (PdL) che si è prodigato nel sottolineare come il pride «mette in cattiva luce la città partenopea e rende colpevoli gli amministratori consenzienti». Di quale reato, francamente, non ci è dato sapere. Non contento di questa “gasparrata” per interposta persona (per citare una cara amica che potete ascoltare tutti i giovedì dalle 18 alle 19.30 in streaming su RadioGas) il nostro ha rincarato la dose citando “addirittura” Joseph Ratzinger, uomo notoriamente di vedute aperte, per il quale il pride «rappresenta un’altra tappa verso l’accreditamento di una condizione, quale quella omosessuale che appartiene ad individui che in quanto persone umane hanno gli stessi diritti di tutte le altre. Nondimeno questi diritti non sono assoluti. Essi possono venire legittimamente limitati a motivo di un comportamento interiore oggettivamente disordinato», comportamento sicuramente meno disordinato di quello dei preti che toccano i bambini, aggiungo io. Ma non è certo una novità questa, considerando che la maggior parte degli ecclesiastici non sono veri cristiani ma semplici appartenenti ad un centro di potere chiamato Vaticano. C’erano invece i cristiani veri, come sicuramente lo sono alcuni dei Cristiani Omosessuali Italiani, o di Arcigay ed Arcilesbica di Napoli o come le Famiglie Arcobaleno (o famiglie omogenitoriali, come potete leggere qui:http://senorbabylon.blogspot.com/2010/02/ma-tu-quante-mamme-hai.html) perché – checché ne dica e ne pensi quel perbenismo “made in tv” – non c’è alcuna correlazione tra l’orientamento sessuale e la religiosità. C’erano anche il carro di Amnesty International e quello dei Giovani Democratici (in uno slancio di enfasi mi verrebbe anche da scrivere che dunque per il futuro non tutto è perduto, ma non vorrei dovermene rimangiare i caratteri tra breve…), e c’erano anche gli studenti dell’associazione “i Ken” di Napoli che distribuivano saponette ai passanti per lavare via il pregiudizio per soffermarsi sul vero senso della sfilata.
Proprio per tutto questo Napoli era dunque l’unico contesto in cui una manifestazione del genere dovesse svolgersi. Perché per portare alla luce del sole (per citare lo slogan del Napolipride) quella che per molti non è una cosa normale c’era bisogno di una città anch’essa anomala.
p.s...si ringrazia Assunta Reina per aver suggerito il titolo