E già, non dev’essere stato certo un bel risveglio per Marchionne la colazione servita dalla Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, che si è messa di traverso al tentativo, ormai reiterato, di trasformare gli operai italiani in operai polacchi o cinesi o vietnamiti. Insomma: dei robot. E già, questa non è l’America. Non è l’America dei grandi Padroni aiutati dal potere politico (non quello partitico, che è tutta un’altra cosa…); non è l’America del “lavora, produci, crepa”. Questa è l’Italia, baby! Questo è il paese dei Di Vittorio, dei Trentin e dei tanti sindacalisti che hanno speso una vita per arrivare a far considerare i lavoratori degli esseri umani, e non sarà certo il primo “americanista” d’accatto a distruggere questo sistema.
- Straordinario obbligatorio da 40 a 120 ore annue con possibilità per l’azienda di comandarlo come 18° turno, nella mezz’ora di pausa mensa, nei giorni di riposo, per recuperi produttivi anche dovuti a non consegna delle forniture;
- Pause sui montaggi ridotte da 40 a 30 minuti giornalieri;
- Possibilità di derogare al riposo di almeno 11 ore previste dalla legge da un turno all’altro per il singolo lavoratore;
- Pagamento del trattamento di malattia contrattualmente previsto a discrezione dell’azienda (per la parte a suo carico);
- Possibilità di modificare le mansioni del lavoratore senza rispettare il principio dell’equipollenza delle mansioni;
- Ricorso per due anni alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per ristrutturazione senza rotazione, con obbligo per il lavoratore alla formazione senza integrazione al reddito;
- Possibilità di licenziamento degli operai che faranno sciopero se il “tasso di assenteismo” dovesse superare la media.
– ed io mi chiedo come ci si possa iscrivere a sindacati simili (vabbé, ce ne sarebbe anche per la CGIL, ma non è questa la sede opportuna per disquisirne) – c’è ancora una dura sacca di resistenza, checché ne dicano i tg filo-governativi, che vuole lavorare in condizioni umane. Sappiamo già come andrà a finire: si darà la colpa alla FIOM se l’esito delle trattative – e del referendum interno che sembra sempre più prendere forma – non sarà quello sperato (dai padroni), il cui unico interesse è quello di raggiungere gli obiettivi di stabilimento: 1.050 vetture giornaliere e 280.00 annue. Se questo, poi, vuol dire che l’operaio deve diventare solo uno dei tanti ingranaggi che compongono la macchina operativa beh…ai Padroni cosa interessa?
La battaglia che si sta giocando a Pomigliano è destinata ad entrare nella storia, perché dall’esito dello scontro capiremo quale Paese ci toccherà di abitare nei prossimi anni: se un paese in cui l’articolo 1 della Costituzione (utilizzata come bandiera di libertà quando si tratta di difendersi dalla legge-bavaglio e puntualmente messa in un angolo da concittadini “civili e democratici” ad intermittenza quando si tratta di tutelare il sacrosanto diritto allo sciopero…) non dirà più che il nostro è un paese fondato sul lavoro ma una Repubblica in cui l’unica legge sarà la legge del Padrone, ritornando così nel pieno dell’era taylorista, con un diritto allo sciopero considerato “attività terroristica”, oppure un paese in cui il lavoro tornerà a tener conto che c’è una netta differenza tra l’essere umano e la macchina.
Il tentativo di distruzione dei contratti collettivi che fino ad ora hanno sancito e tutelato la base dei diritti indisponibili del lavoratore, già iniziato da qualche tempo, è dunque ad un punto critico: se infatti – come stanno rappresentando i media del circuito mainstream – nel referendum prevarrà il sì, cioè si accetteranno le condizioni dettate dalla Fiat, allora potremo dire addio a qualunque tipo di diritto inalienabile per le masse non borghesi, visto che da quel momento qualunque decisione padronale diverrà subito operativa (leggasi alla voce: modifica dell’art.41 della Costituzione), in quanto la prevalenza del “Sì” equivarrebbe ad un abbandono degli operai di quell’unico sindacato che sembra essere rimasto dalla loro parte. E questo significherebbe una cosa soltanto: che ogni lavoratore, di qualunque categoria, sarà solo di fronte al Padrone, non avrà più nessuno che possa tutelarne i diritti. Ed i contratti a progetto, i lavori interinali, i lavori a chiamata saranno solo un felice ricordo.
Qualcuno – giustamente – obietterà che gli operai devono accettare le condizioni proposte dalla Fiat perché altrimenti si ritrovano senza lavoro e non avranno più modo di sfamare la propria famiglia. Ma siamo veramente sicuri che sia così? Come ha detto il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti con la globalizzazione è finito il conflitto tra capitale e lavoro. Non so se sia vero o se tale affermazione derivi dalla sua scarsa conoscenza della materia (viste le previsioni sballate in cui ogni tanto si prodiga). Però se ciò fosse vero la domanda da porre, secondo me, sarebbe la seguente: se è finito il conflitto capitale (cioè Padrone)- lavoro (cioè lavoratore), siamo proprio sicuri che il Padrone serva ancora? O meglio: siamo sicuri che il tipo di Padrone che abbiamo sin qui conosciuto, cioè quello che – appunto – ci mette solo il capitale, sia ancora necessario all’attività degli operai?
Quando mi pongo queste domande la prima risposta che mi viene in mente è che no, in un sistema in cui quella che il sociologo e politologo norvegese Stein Rokkan pone come quarta frattura sociale (che egli definisce “frattura di classe”) tra borghesia e classe operaia, con il venir meno del rapporto conflittuale, il Padrone come lo abbiamo inteso dall’Ottocento fino alla metà del secolo scorso, non serve più; questo per un semplice motivo: l’operaio senza padrone è utile, il padrone senza operaio no. Basta guardare a quello che successe nel 2001, in piena crisi argentina, quando le fabbriche chiudevano ed i lavoratori, invece che accettare disumane condizioni di lavoro per un non meglio precisato “interesse collettivo” decisero di occupare le fabbriche, prendendole in gestione (ne ho parlato ampiamente qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2009/12/fabbriche-gestione-anarchica.html).
Dittatura del proletariato? Forse, ma una cosa è certa: se prendiamo per buono il Tremonti che parla di fine del conflitto capitale-lavoro, riallacciandomi nuovamente a Stein Rokkan, viene meno l’utilità dei partiti che di quel conflitto sono espressione.
E se guardiamo all’Italia, i partiti (almeno quelli che hanno qualche potere in merito) a favore degli operai vivono ormai come i panda: esseri in via di estinzione. Non è di certo a favore dei lavoratori il Partito Democratico dove, tra un Fassino che ci fa sapere che il germe leghista ogni tanto lo infetta ed un D’Alema che continua a fare il D’Alema, si chiede un “maggior senso di responsabilità da parte di tutti” (Stefano Fassina, responsabile Lavoro), perché l’economia e gli investimenti prima di tutto. Anche della vita – e della dignità – degli operai. Non è da meno il leader del partito Bersani che, in pieno raptus “maanchista” sostiene che deve essere fatta la volontà della Fiat, ma anche tenere conto della volontà degli operai.
«Una vita invisibile Mio padre, Antonio D’Amico ha lavorato per 32 anni in Fiat. Entrò come operaio di II livello fino ad arrivare a quadro di VII livello era Capo Ute, gestiva settanta persone. A settembre del 2002 dopo una vita di sacrifici, sarebbe andato in pensione. Spesso andava a Torino per i collaudi, avviamenti di linea, per proporre nuovi progetti. È stato lui ad insegnarmi l’importanza del lavoro. Anch’io lavoro in Fiat. Non ebbi bisogno di raccomandazioni, ma essere il figlio di Antonio era una garanzia, era stimato da tutti. L’azienda per lui era tutto. Lui entrò nel 1972 con la prova d’arte, era un carrozzerie e poi fu assunto a tempo indeterminato. Lavoravamo nello stesso reparto: la lastratura , dove si assemblano le lamiere. Però mio padre non era il mio capo, lì siamo circa 300 operai. In tutto il capannone fino ad oggi ci sono cinque mila persone. A fine di febbraio del 2002, mentre lavoravo, uno dei ragazzi con contratto a termine, guidava un carrello non mi sembrava che avesse padronanza, mancò poco che mi venne addosso. Alle 6.35 del 6 marzo del 2002, lo stesso ragazzo guidava un carrello elevatore, nell’area Ute, con una velocità superiore a 6 km orari, investì mio padre. Portava due contenitori con lamiere, probabilmente superavano l’altezza consentita del metro e sessanta, dunque la visibilità era limitata. Il tutto avveniva sotto i miei occhi, e sotto quelli di almeno altri trenta operai. Quel carrello aveva il marchio Cee, c’erano tre pedali, con un doppio sistema di frenata che garantivano un sistema abs, un pulsante sullo sterzo per la retromarcia. Ma il collega non ha visto mio padre e non ha fatto nulla per impedire l’impatto. Finì a terra sbattendo la testa. Abbiamo un’ambulanza in azienda, ma non era attrezzata dotata di ossigeno. Mio padre non ce la faceva a respirare, era fra le mie braccia e mi sentivo impotente. Sono trascorsi venti minuti prima che ne arrivasse un’altra. Intanto venne chiamata l’impresa di pulizia e veniva ripulita tutta l’area dov’era avvenuto il fatto. E’ morto dopo 40 minuti di agonia, giunse all’ospedale già senza vita. Quando arrivò la magistratura non c’erano più prove, furono sequestrati settanta carrelli e questo mi consolava perché significa che qualcosa non andava. Nel mio reparto allora, il 75% degli operai erano precari, il sistema lavoro richiederebbe una formazione e un patentino per poter guidare i carrelli, ma di fatto non era così. In quel periodo avevamo in produzione la nuova punto, l’azienda contava molto sulle vendite perciò c’era bisogno di produrre a ritmi elevati. Ci sono registrazioni nelle quali si vede benissimo che i carrelli viaggiano ad una velocità almeno doppia rispetto a quella prevista per norma. Ciò significa che un operaio produceva per due. Il ragazzo precario venne licenziato, ma fu assunto da una ditta esterna, all’interno della Fiat alcune lavorazioni vengono esternalizzate. Mentre per me cominciò un periodo di mortificazione e umiliazione, dove senza il mio avvocato non ne sarei uscito. Tutti i sacrifici, tutte le rinunce della mia famiglia per il bene dell’azienda, in un attimo erano scomparsi. I colleghi di lavoro non avevano visto, parliamo di circa trenta persone. Solo io avevo visto. Capii la mia solitudine, perciò giravo nell’azienda con un registratore, non feci mistero di questa cosa ed alcuni colleghi andarono a modificare le dichiarazioni fatte precedentemente. Io tornai a lavoro dopo dieci giorni di malattia. Nel frattempo nessuno dell’azienda telefonò a mia madre, per scrupolo morale, per un po’ di solidarietà, aveva perso il suo compagno di vita per ventotto anni. Quando rientrai, chiesi di essere spostato di reparto, non ce la facevo a stare dove avevo visto mio padre morire. Ma non c’era posto per me in nessuna lavorazione. Mi mandavano dieci minuti da una parte, dieci da un’altra e mi veniva detto ogni volta che non sapevano come impiegarmi. Mi mandarono a visita medica, perché secondo loro non ero più idoneo a svolgere le mie mansioni a causa del trauma subito, che di conseguenza influenzava anche la mia testimonianza. Dopo due mesi mi sospesero, in attesa del responso del collegio dei medici. Per altri sei mesi rimasi a casa, percepivo lo stipendio, la busta paga mi arriva a casa. Un giorno ho ricevuto un telegramma nel quale si chiedeva di presentarmi in azienda per lavorare alle 13 dello stesso giorno. Per me era impossibile. Andai il lunedì seguente e fu contestata la mia assenza, ma mi spostarono di capannone, anche lì non c’era lavoro per me, mi misero al turno centrale e non facendo più turni perdevo una parte cospicua di stipendio. Il mio legale mi consigliò di andare tutti i giorni a lavoro, con la mia divisa, anche se non venivo collocato in alcun posto.Un giorno mi chiamaraono e mi mandarono a lavorare alle porte, finalmente era uscito il
lavoro per me, però lavoravo sempre con tensione perché loro aspettano il momento giusto per punirmi. Infine fui spostato nell’interporto di Nola. Qui siamo circa duecento operai, ci occupiamo di logistica… coloro che si sono ribellati al sistema, siamo tutti coloro che chiediamo i nostri diritti, non potendo essere licenziati per via del contratto a tempo indetermianto… siamo in un’area dove tutto è a norma, dove tutti i sistemi di sicurezza funzionano».Questa la testimonianza di Rosario, un operaio Fiat che non ha abbassato la testa e che, per questo, ne ha pagato le conseguenze (e che ho ritrovato, postandolo così com’era formattato, qui: http://sdp80.wordpress.com/2010/06/16/morte-confinio-mobbing-alla-fiat-di-pomigliano/).
Ecco: se oggi mi trovassi di fronte un esponente di spicco di quello che si auto-definisce “partito di opposizione” – da Bersani ad Enrico Letta o chi vi pare a voi – gli chiederei perché continuano a difendere questo sistema. Perché ieri andavano a fare i picchetti davanti alle fabbriche intonando l’”Internazionale” e oggi sono diventati servi di quello stesso padrone. Ma i politici, a certi livelli, sono un po’ come Arlecchino: servitor di due (o più, dipende dai casi) padroni.
Questo capitalismo io non lo chiamo "selvaggio" per rispetto ai selvaggi. [Alfonso Pérez Esquivel]