«Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano». Scriveva nel giugno 1968 Pier Paolo Pasolini, in quella che è considerata la più controversa tra le sue poesie (e, probabilmente, una tra le più controverse opere nella sua vastissima produzione letteraria e cinematografica). Quelle parole, come è evidente, fanno riferimento a quell’episodio passato alla storia come “la battaglia” di Valle Giulia. Il 1° marzo 1968, venne organizzato a Roma un corteo, che vide la presenza di circa 4.000 persone. Arrivati in Piazza di Spagna i manifestanti si divisero: una minoranza andò verso la città universitaria, la maggioranza invece si diresse verso Valle Giulia (tra i quartieri Parioli e Flaminio), con l’intento di liberare la Facoltà di Architettura, sgombrata poco prima dalle forze dell’ordine che si erano poste a difesa dell’istituto. Quel giorno, in piazza, c’erano molti di quelli che diventeranno poi i leader dei movimenti – di sinistra e di destra – che hanno scritto le pagine di storia di quell’epoca, come Oreste Scalzone (leader di Potere Operaio ed Autonomia Operaia) e Stefano Delle Chiaie (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale). Quest’ultimo, insieme a tutta la compagine di destra, verrà espulso di lì a poco – 16 marzo, giorno dell’assalto alla Facoltà di Lettere della Sapienza – dal movimento studentesco. Il casus belli che fa scoppiare gli scontri è il pestaggio, da parte di un gruppo di poliziotti, di un ragazzo che si trovava lì a manifestare: la reazione degli studenti – che, a differenza di manifestazioni precedenti, riuscirono a tener testa alle ben più attrezzate ed addestrate forze dell’ordine – fu immediata. Alla fine si registrarono 148 feriti tra le forze dell’ordine e 478 tra gli studenti, con 4 arresti, 228 fermati, otto automezzi della polizia incendiati e cinque pistole sottratte agli agenti.
Guardando le immagini del pestaggio di un’intera comunità – quella aquilana - che (non) arrivavano su quegli organi di informazione che oggi vanno in giro imbavagliati (solo per rendere palese un modo di fare ormai entrato nel “Decalogo del perfetto giornalista italiano”) mi sono venute in mente quelle parole con cui Pasolini si schiera al fianco dei poliziotti.
Mi sono venute in mente, in particolare, quando – stando alle parole di Di Pietro riportate da Il Manifesto – ho scoperto che il governo aveva riempito il servizio d’ordine della manifestazione di poliziotti abruzzesi. Lì mi sono chiesto – memore della canzone di Simone Cristicchi che dà il titolo a questo post – come si possa continuare ad eseguire gli ordini anche in una situazione come questa, una situazione dove è evidente non solo che quegli ordini sono delle idiozie volute da personaggi dalla dubbia fama, ma anche e soprattutto che quell* da difendere non erano di certo quell* nei palazzoni più o meno istituzionali. Quelli – e quelle – da difendere stavano in strada, a protestare ed a prendersi le manganellate da chi non può disobbedire, vuoi per necessità – come i poliziotti pasoliniani – vuoi per convinzione oserei dire ideologica, come quelli della Diaz e di Bolzaneto qualche anno fa.«Se la legge è di tal natura da richiederti di essere un agente dell’ingiustizia verso gli altri, allora, dico, infrangila. Che la tua vita faccia frizione e arresti la macchina»
[Henry David Thoreau]
I poliziotti abruzzesi, intervistati, dicevano di essere solidali con gli aquilani e – presumo anche per altri motivi – si dicevano più incazzati dei manifestanti contro il governo, però…
Però quello che si è visto è stata una netta divisione tra chi la divisa ce l’aveva e chi non l’aveva. Perché, se davvero solidali, le forze dell’ordine non hanno abbandonato la loro divisa (qualcuno si è limitato a togliersi il distintivo…)? Perché nessuno ha gettato a terra i distintivi? Non proseguo chiedendomi perché nessuno abbia gettato le pistole, per motivi che mi sembrano lapalissianamente ovvi. Perché continuate a servire questo stato? D’accordo: lo stipendio, il pane da assicurare ai figli. Ma eravate davvero contenti, ieri, di manganellare persone con le quali magari siete andati a scuola insieme, o con le quali magari avete giocato da piccoli? O magari i vostri stessi parenti?
Io credo che a questo paese, per passare alla fase “2.0”, serva un episodio di quelli che vanno nei libri di storia. Perché non una rivolta – pacifica – proprio di quella forza di repressione che sempre più diventa braccio armato di una forza politica che definisce democrazia tutto ciò che è abuso di potere, atto di forza o imposizione gerarchica?
Io rimango sempre dell’idea che il miglior militare sia quello che diserta, comunque.
Tra l’altro, in questo afoso luglio che tanto assomiglia a quello di mezzo secolo fa, dove l’altro ieri i manganelli volavano tra i “facinorosi” aquilani e ieri tra gli operai della Mangiarotti a Milano, è successo un qualcosa che, per quanto ovviamente passato sotto traccia, dovrebbe far pensare sulla regressione (in)civile che da qualche anno pervade il tessuto sociale: mentre per le strade romani gli aquilani se la prendevano con il governo e le sue poco gradite barzellette, in Parlamento il deputato Franco Barbato dell’IdV veniva preso a cazzotti (con dinamica che, ad essere sinceri, mutava in alcune parti col passare delle ore…) da alcuni esponenti del c.d. Popolo delle Libertà.
Mi chiedo Giacomo Matteotti (rapito ed ucciso dalla polizia politica fascista ma mai fisicamente aggredito nelle aule parlamentari) cosa avrebbe rischiato in questo Parlamento…