In realtà non è un gran filmone. Non è uno di quei film indimenticabili per cui varrebbe la pena spendere un sacco di soldi o buttare una serata in compagnia andandoselo a guardare al cinema, ma quando arrivano i titoli di coda di Banlieue 13 qualcosa rimane. Di certo non è un film per cui ci si possa annoiare, nonostante la scarna e probabilmente poco originale trama, ma il fatto che David Belle ne sia il protagonista dovrebbe far pensare. Perché? Beh, no: Belle non è il nuovo belloccio hollywoodiano né una di queste starlette che fanno i film d’azione con controfigura per le scene pericolose al guinzaglio. No: David Belle è semplicemente l’inventore del parkour, quella disciplina – per me da pazzi, ma è un parere personale – che ti insegna a saltare di qua e di là sopra i tetti, le recinzioni e qualunque altra cosa possa essere oltrepassata con un salto. Viene creata negli anni ‘80 in Francia da David Belle – appunto – riprendendo l’idea dai percorsi di guerra (il nome completo è infatti parcours du combattant, percorso del combattente) proposti da George Hérbert, insegnante di educazione fisica ed ufficiale della Marina francese durante la Prima Guerra mondiale. Già vedere gente che salta sopra i muri come fosse la cosa più normale di questo mondo, o passare da un lato all’altro di un palazzo su di una corda (le scene, peraltro, non prevedevano “aiuti” di alcun tipo), è una cosa che difficilmente crea sonnolenza. Ma veniamo ai dettagli del film:
La trama, dicevo, è abbastanza semplice: il regista Pierre Morel – coadiuvato alla sceneggiatura ed in fase di produzione da un pezzo da novanta come Luc Besson (l’anno di produzione è il 2004 con sequel lo scorso anno) – trae lo spunto da un fatto con il quale anche noi, seppur in qualche “breve” nei giornali locali, abbiamo familiarità: la recinzione di un quartiere “difficile”. Come quella robaccia fatta in via Anelli a Padova (il famoso “muro antispaccio”) o il muro preso da un altro film che non calcherà mai le scene di Cannes ma che comunque dà molti spunti sui quali riflettere come “Fame chimica” (del 2003. registi Antonio Bocola e Paolo Vari e cameo di Luca “’O Zulù” Persico, frontman ed anima della 99 Posse che ne cura anche alcune canzoni della colonna sonora). Il quartiere del film è la Banlieue 13, uno di quei tanti crocevia dove la modernità ha espulso i “non conformi”, quelli che l’attuale presidente francese ebbe a nominare – ai tempi in cui era Ministro dell’Interno – la “feccia” della società.
Esattamente quella feccia che, solitamente, ha ben altra – ed alta – dignità di questi signorotti borghesi che in giacca e cravatta vanno in giro ad elemosinare voti, droga e belle donne (il rock dicono sia morto, con qualcosa dovevano anche sostituirlo, no?).Ed è questo il primo punto su cui riflettere: le nostre belle società “democratiche”, quelle che parlano di “uguaglianza”, “libertà” e “diritti per tutti” permettono che la gente non conforme alle loro regole, quelli che non vanno in giro con il macchinone, il Rolex o l’occhiale da sole firmato vengano espulsi – reiettati direi se la parola esistesse in italiano – in questi luoghi di cui lo Stato “democratico” si dimentica sovente. Non c’è bisogno di guardare alla Francia: Le Vele di Napoli o lo Zen di Palermo, come tante altre periferie italiane sono lì a testimoniarcelo. Sì alza un muro, di cemento o solo mentale è indifferente, verso tutto quell’insieme di comunità, etnie o generi sessuali verso i quali si prova un senso di straniamento, usato poi dalle frange più estreme della destra fascista – come quella che ha portato al governo il già citato Sarkozy, tanto per non rimanere sempre nell’ambito italiano – per trasformarlo in vero e proprio odio atto ad incrementare la domanda di “ordine e repressione” che è l’unica cosa che un apparato statale è in grado di offrire.
Il secondo punto di riflessione è “addirittura” un poliziotto: Damien Tomaso (Cyrill Raffaelli è l’attore che lo interpreta). Uno di questi “super-poliziotti” sul modello del Rambo hollywoodiano (o del poliziotto al G8 di Genova…), uno di quelli abituati ad obbedire senza batter ciglio agli ordini del Signor Padrone che è forse il personaggio più interessante del film: da sbirro a difensore dei giusti il passo, almeno nel film, è breve: più o meno il tempo di attraversare un muro e capire la differenza tra la realtà e quell’immaginario collettivo filtrato dagli organi di stampa e dagli opinion leader per il quale chi non abita in una villa con piscina a malapena è degno di vivere. C’è una scena – quando i due si ritrovano nella banlieue a combattere contro quello che sembrerebbe il nemico comune – in cui riscontrando la loro “diversità” (uno viene dal ferreo addestramento fatto di libri e palestre, l’altro dal ben più formativo addestramento della sopravvivenza quotidiana e della strada) Leito – il personaggio interpretato da David Belle – chiede a Damien quale sia la sua personalissima colpa per essersi ritrovato in gabbia, recintato da un muro controllato da una parte dalle forze dell’ordine e dall’altra dalla gang di Taha Bemamud (interpretato da Larbi Naceri), se non quella di aver avuto la (s)fortuna di nascere in quel quartiere invece che in uno in cui si fa colazione a caviale e champagne.
Poi ci sarebbe anche da parlare della “soluzione finale”: di come cioè la politica ha deciso di porre fine al problema “Banlieue 13”. Ma così vi rovino il finale del film, per cui mi fermo qui con le riflessioni. Due sole avvertenze, in conclusione: a) questo film non fatelo vedere né ai leghisti né ai politici italiani, non vorrei essere l’ispiratore della “politica dei muri” e b) pensate a quante volte vi hanno presentato qualcuno come “il cattivo” mentre chi ve lo presentava era ancora lì con le mani grondanti del sangue della sua ultima vittima.
Se proprio devo trovare una cosa contro questo film io avrei fatto la colonna sonora con la discografia di Keny Arkana. Ma questa è un’altra storia…