C’è una frase che spesso mi viene in mente quando mi capita di parlare con qualcuno – solitamente ragazz* più piccol* di me – di storia, in particolare quella a me più cara, cioè quella degli anni della contestazione: «la memoria è un ingranaggio collettivo», che credo di aver letto per la prima volta su qualche articolo che parlava dei fatti avvenuti durante il G8 di Genova del 2001 ma di cui ignoro nella maniera più assoluta l’autore (o l’autrice…). Dire che sia importante conoscere la Storia non è certo un’affermazione sconvolgente, perché solo conoscendo quel che è successo ieri si può evitare il reiterarsi degli stessi errori; e solo se si conosce quel che è successo ieri si può sentire un senso di appartenenza per una causa.
Dicevamo che la memoria è un ingranaggio collettivo. Niente di più vero se si pensa alla storia dell’Argentina, in particolare a quel capitolo della storia di quel paese in cui nel giro di poco tempo una feroce dittatura fece sparire qualcosa come circa 30.000 persone, la cui unica colpa era quella di aver risposto un secco no al modello di società che Jorge Videla&soci (con il patrocinio degli stati imperialisti e – seppur in maniera leggermente più defilata – del Vaticano) avevano in mente. È la storia dei desaparecidos, una storia collettiva per due motivi: perché la storia di quei ragazzi che dalle scuole decisero di fare fin da subito la propria parte per il miglioramento della società nella quale vivevano (facendo attività politica ma anche – e soprattutto – attività sociale come il volontariato nei quartieri poveri) deve essere quotidianamente fonte di ispirazione per le generazioni future, per quelle che sembrano in preda ad una crisi d’identità, inermi di fronte al nuovo potere clerico-capitalistico-fascista dei Padroni e dei potentati vari; e perché la storia dei desaparecidos, così come la storia degli ebrei deportati durante il secondo conflitto mondiale, quella dei palestinesi e dei tanti popoli che lottano per la loro libertà, deve essere una storia che riguarda quasi tutti: almeno coloro che dinanzi al Potere non abbasseranno mai neanche lo sguardo, e quindi non chineranno mai la testa.
Ma la storia dei desaparecidos è collettiva anche per un altro motivo: perché è la storia di 30.000 persone che quell’altra Storia – quella scritta sui libri scolastici e con la maiuscola – ha voluto identificare come un’unica entità. Questo, per quanto sia difficile ottenere notizie su ognun@ di quei 30.000 ribelli, è il terzo post del “dossier desaparecidos”, cioè il mio tentativo di conoscere – e dunque far conoscere – chi era ognuna di quelle anime che, nella notte argentina, sparivano in mare. Questa è la storia di María Clara Ciocchini.
Nata nel 1958 a Bahia Blanca, studia e fa volontariato nel gruppo cristiano della Pequeña Obra (la Piccola Opera) con un gruppo di monaci terzomondisti, grazie ai quali lavora nelle baraccopoli della sua città, insegnando e prendendosi cura dei poveri.
Nel 1974 studia all'UES (l'Unión Estudiantes Secundarios, l'Unione degli Studenti Superiori) della quale un anno dopo – insieme a Maria Claudia Falcone – diventa dirigente. In quello stesso periodo forte era la repressione che lo stato argentino faceva verso i giovani, in particolare verso i montoneros, probabilmente la frangia più convintamente anti-governative tra la galassia dei movimenti giovanili argentini dell’epoca. Nel frattempo la Tripla A (l'Alianza Anticomunista Argentina fondata da José López Rega, segretario di fiducia di Juan Domingo Perón) cioè la falange armata diretta espressione della dittatura, aveva già iniziato a rapire i giovani argentini, e María Clara – che proprio per questo si era trasferita a La Plata, dove viveva in clandestinità – non riuscì a sfuggire alla cattura per molto. La notte del 16 settembre 1976, intorno alle 0:30, in quella triste notte conosciuta come la “noche de los lápices” (in italiano: “La notte delle matite spezzate”, che è poi anche il titolo di un meraviglioso film del 1986 di Héctor Olivera) viene infatti rapita insieme a Maria Claudia (le due erano infatti ospiti di una zia di quest’ultima) dal personale dell’esercito argentino. María Clara viene detenuta prima a La Araña e poi nel famigerato “Pozo” di Banfield. La particolarità della sua storia è che dalle informazioni in possesso di Pablo Alejandro Diaz – uno dei pochi superstiti sia a quelle carceri speciali come “el Pozo” o l’ESMA (la Escuela de Mecánica de la Armada, cioè la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina di Buenos Aires) – è che María Clara non sembra essere stata sottoposta ad alcuna forma di tortura, anche se nessuno sa se faccia parte dei tanti corpi lanciati durante la notte nei voli della morte, se sia stata rubata per essere “riadattata” in un’altra famiglia o cosa. Sul destino di María Clara non si hanno notizie. Naturalmente.
L’accusa con cui l’Argentina cancellò più o meno un’intera generazione di giovani fu quella di “sovversione”. Insomma: cambiano le epoche, cambiano i governi, le loro ideologie ed i loro “colori”, ma i ribelli continuano ad essere definiti “terroristi” da quello stesso Potere che si inventa guerre per la pace e stermini per la democrazia. Ma questa, come direbbe il buon Carlo Lucarelli, è un’altra storia…