1. Negli ultimi anni abbiamo assistito allo sgretolamento della democrazia rappresentativa e dello Stato di diritto, che ci eravamo abituati a considerare come uno spazio pubblico forse insufficente, ma comunque inalienabile. Tale consunzione lascia in piedi le forme sempre più vuote delle istituzioni democratiche; non le cancella d’un colpo e rapidamente come fecero i totalitarismi del 900, ma le priva -fino alla paralisi completa- di ogni potere concreto e decisionale; le riduce, per sottrazione continua, a inerti simulacri. Questo lento colpo di stato si è realizzato in Italia secondo un programma affine a quello redatto, anni fa, dalla loggia segreta P2; i cui esponenti sono oggi assurti alle più alte cariche dello Stato e a posizioni direttive nei giornali e nelle televisioni. Controllo completo dell’informazione; presidenzialismo sempre più accentuato; derisione delle leggi penali e intimidazione della magistratura; eliminazione delle lotte sindacali e dello spazio pubblico; a questi punti del vecchio programma autoritario si è aggiunto il razzismo e il letterale neofascismo della Lega.
2. Parlamento, istituzioni tradizionali della rappresentanza, partiti, sopravvivono come forme di puro spettacolo, tanto più ossessivamente presenti nei talk shaw e nei cerimoniali, quanto più sono sostanzialmente privi del potere più elementare di decisione. Il regime democratico viene integrato da centri decisionali ufficiosi, servizi e associazioni parallele, che si diffondono in una molteplicità frammentata. Questa attività in ombra affianca la celebrazione pubblica dello spettacolo. Essa si dispone accanto alle istituzioni, alle leggi e agli ordini professionali visibili. L’apparato giuridico e istituzionale resta apparentemente intatto: ma le decisioni spettano effettivamente ai poteri paralleli.
Non si tratta solo di interventi clamorosi e violenti, ma anche di misure che riguardano l’ordinaria quotidianità. I concorsi pubblici sono sostituiti da riunioni preliminari ufficiose; le decisioni amministrative sono prese entro consorterie private, sottratte a qualsiasi controllo delle amministrazioni elette; la libertà di stampa viene controllata prima di ogni censura da comitati editoriali che scelgono i giornalisti affidabili; molti reati finanziari sono di fatto depenalizzati, anche se le leggi che dovrebbero punirli restano ufficialmente in vigore. Questo processo determina la divergenza sistematica tra la regola pubblicamente ammessa e il centro decisionale occulto: cinismo, ipocrisia oggettiva, menzogna, divengono comportamenti sociali indispensabili per orientarsi in questa sorta di doppio comando sociale permanente. Chi resta legato ingenuamente all’apparenza pubblica dello spettacolo (e per es. si oppone a una decisione di fatto in nome di una norma del diritto) viene minacciato o emarginato.
3. Mafia e camorra divengono un modello attuale di funzionamento associativo segreto: non dunque una sopravvivenza arcaica, ma un organismo a pieno titolo esistente entro la società dello spettacolo. Mafia e camorra scorrono –per così dire- accanto al simulacro del potere pubblico, lasciandolo il più possibile intatto, colpendo le persone che volessero farlo funzionare oltre un livello semplicemente formale. Il loro modello è seguito dagli organismi decisionali paralleli, che ormai sostituiscono i poteri formali dello Stato. Tutto deve sembrare immutato, mentre in realtà ogni cosa sta cambiando; così la messa in scena della democrazia inverte e sostituisce la sua pratica reale. Per l’occhio di uno spettatore distratto, le sue apparenze appaiono più che mai funzionanti. La nuova Società Autoritaria si espande lentamente, come un vapore e un miasma, in un’atmosfera che non oppone più resistenza. E’ un contagio sottile e penetrante, che attacca la sostanza stessa della democrazia: finchè basta il colpo di un dito per farne cadere l’involucro.
4. Comunque si voglia chiamare la nuova Società Autoritaria (“spettacolare integrato”, come voleva Debord; “democrazia dispotica”, come ha proposto Marco Revelli), certo è che essa coniuga alla diffusione delle merci e dei mercati alcuni elementi caratteristici dei regimi totalitari del 900, creando un sistema di potere inedito, non interamente assimilabile né alla democrazia né al fascismo storico. Al potere spettacolare diffuso si affiancano ormai organi di decisione concentrata, capaci di gestire procedure di emergenza o l’uso aperto della violenza, come è avvenuto in modo clamoroso al G8 di Genova.
Nel sistema giuridico classico lo stato d’emergenza permetteva il ricorso alla dittatura e la sospensione del diritto abituale; nella Società Autoritaria procedure d’emergenza simulate e ingigantite con tutti i mezzi mediatici divengono una pratica alternativa e ricorrente della democrazia. Il fascismo storico fu caratterizzato dall’intromissione dello Stato nell’economia. La Società Autoritaria è una risposta alla liberazione possibile dal lavoro e all'uso comunitario delle tecniche e delle risorse. Il suo ambito proprio non è lo Stato, né la fabbrica, ma il controllo della vita che fuoriesce ed esorbita dalle vecchie strutture di dominio. In tal senso, come si è visto nella recente crisi economica, lo Stato non funziona come gestore pubblico dell’economia, tanto meno si pone come totalità organica; esso è ormai ridotto a pura funzione di sostegno del mercato (di ciò è un piccolo ma interessante segno il fatto che le tangentopoli attuali siano dirette da imprenditori e non da politici).
5. La democrazia ha oggi due nemici, apparentemente opposti e in realtà complementari: da un lato lo Stato “consensuale”, ridotto a un complesso di funzioni, ordinate in funzione del mercato e ad esso del tutto subordinate. A differenza di quello classico, criticato dal marxismo per il suo carattere ideologico, qui lo Stato si pone esplicitamente al servizio del mercato e trova anzi la sua gloria e la sua residua legittimazione nello svolgere questa funzione nel modo più efficiente possibile. D’altro lato, si diffonde invece una ideologia “umanitaria”, con cui si pretende di giustificare l’intervento violento in altre aree del mondo, in nome di una presunta difesa dei diritti umani delle vittime (come si è affermato per il Kosovo, per l’Afghanistan, per l’Iraq); questo democraticismo umanitario, in compenso, non riconosce alcun conflitto reale all’interno della propria identità statuale, coesa e consensuale. Il conflitto è rigettato interamente all’esterno e sull’”altro”. Questo universalismo umanitario è astratto, mentre quello concreto dovrebbe riconoscere il legame tra la disuguaglianza nelle metropoli occidentali e quella che domina in altri luoghi del mondo. Al contrario, si accredita l’idea di un’identità occidentale tutta coesa intorno al suo roccioso nucleo identitario e alle sue funzioni di governance del mercato: mentre al di fuori si estende il mondo feroce ed estraneo, che si tratterebbe di ricondurre sotto l’ordine della nostra polizia.
6. Questo ibrido di consensualismo e di universalismo astratto culmina in una società gerarchica e razzista, entro cui riaffiorano tratti tipici dei governi totalitari del 900. Rifiutando la nozione stessa di un conflitto reale, di una parte dei senza parte entro la nostra realtà sociale, cancellando la sua visibilità, il peso del negativo (peraltro sempre più difficilmente contestabile) ricade per intero sulle spalle dell’altro e dell’estraneo; è il nemico, il criminale, che introduce un alieno disordine in ciò che di per sé funzionerebbe come il migliore dei mondi possibili. Uno stupido buonismo ottimista si salda così a misure ferocemente gerarchiche, neanche esprimibili come tali: un conflitto non più dicibile e simbolizzabile si riversa come nuda violenza tra chi ha parte e chi non ne ha, più simile a una rivolta di schiavi che a un’insurrezione di cittadini. Di volta in volta, un gruppo etnico o gli immigrati in generale, vengono esclusi di fatto dalla cittadinanza, oggettivati come capri espiatori e mostrati come i responsabili della nostra insicurezza.
7. Il dominio astratto dell’economia e del diritto subisce una correzione, con l’affermarsi della Società Autoritaria, che ripropone rapporti di potere personali, forme di dipendenza servile, figure mitiche di soggettività. In primo piano, nella scena pubblica, restano le relazioni formali del diritto e del mercato; ma, contemporaneamente, si sovrappone ad esse la personalizzazione dei rapporti di potere. Una “decisione politica” viene a sovrapporsi al funzionamento “puro” del diritto e del mercato, per gestire procedure di emergenza continuamente riprodotte o inventate; esse esigono l’intervento di un potere diretto e personale (il carismatico Premier non si è forse precipitato a Napoli per vuotarla della monnezza? L’assai meno carismatico leader del PD non ha imposto forse un decreto d’urgenza per la questione sicurezza, che conteneva una riedizione in sordina delle leggi razziali?). Una mistura di astrazione giuridico-economica e personalità autoritaria caratterizza il regime spettacolare attuale: destinato al governo di una normalità che ormai non è più tale, ma un succedersi di mediocri eccezioni.
Il controllo sempre più soffocante sulla vita, si associa però a una festa spettacolare in cui non ne rimane traccia: il mondo rappresentato nei media è più che mai e sempre di più quello della libertà universale e senza limiti, promessa dall’ideologia della merce. Ciò che è rappresentato è l’inversione di ciò che è reale.
8. La Società Autoritaria procede intensificando, allo stesso tempo, l’atomizzazione e la separazione degli individui e la loro riunificazione immaginaria o fittizia, nelle immagini carismatiche dei leader o in quelle mediatiche della televisione. Una tendenza all’individualismo narcisistico e illimitato si salda così a una tendenza complementare al dispotismo. Quanto più si urla in tutte le piazze “Consumate e arricchitevi”, tanto più il successo e la gestione delle ricchezze sono affidati a una elite preselezionata e precotta, indegnamente legata da fili familistici e clientelari; l’uguaglianza immaginaria di fronte al denaro e al consumo nasconde la sempre più feroce disuguglianza reale. Raramente un regime politico ha intrattenuto una così sistematica dissociazione tra la psiche e la soggettività dei suoi membri e le gerarchie reali del potere. In tale scissione permanente tra il desiderare e il potere, è del tutto ovvio che la corruzione pubblica e privata si propaghi come unica forma di mobilità sociale, che il vendere se stessi appaia come uso tollerato; che a spettacolari ascese si accompagnino terrificanti cadute, esse stesse destinate a mantenere vivo il meccanismo (e le vendite) dei media spettacolari. Atomizzazione e dispotismo sembrano messaggi contraddittori; ma congiungendoli insieme la Società Autoritaria riesce meglio a spezzare la forza di resistenza del singolo e la sua capacità di unirsi a coloro che sono offesi ed oppressi quanto lui.
9. I partiti della Sinistra non hanno compreso la natura spettacolare della Società Autoritaria; sono entrati, come i poveri cristi a un banchetto di signori, nelle giunte, nel parlamento, nel governo. Si sono cioè identificati anima e corpo con gli istituti di rappresentanza formale dello Stato, nel momento in cui in verità questi non contano e non decidono più nulla. Hanno creduto allo spettacolo della politica, come se fosse la più rocciosa e indiscutibile delle realtà: hanno accettato cariche presidenze, ministeri, assessorati, come se in tali luoghi fosse ancora possibile esercitare il potere: più che una volontà, vediamo qui una nostalgia di potenza, che la cerca dove non ne rimane un’ombra. Afflitti dalla scomparsa del passato, i gruppi dirigenti della Sinistra sono rimasti legati alla forma del Partito, riflesso e premessa delle rappresentanze statali; mentre queste svanivano di fronte ai poteri paralleli e allo “spettacolo” della Società Autoritaria. Mentre i concorrenti del Pd almeno miravano dritto all’oro di una banca, la sinistra si accontentava della carta stagnola delle cariche parlamentari: così mostrando di credere più al fantasma spettacolare dell’unità nazionale, che al conflitto di classe sempre meno rappresentato, e sempre meno visibile, in atto nella realtà.
10. Il rifiuto della violenza come strumento della lotta politica deriva dal suo elemento ripetitivo e mimetico. La risposta alla violenza tende a perpetuarla, assimilando i modi stessi dell’aggressore. La militarizzazione della lotta politica tende a sospendere quei diritti e quel rispetto della vita, che si volevano, all’inizio, salvaguardare. Essi restano –al massimo- il fine remoto dell’azione; ma nel frattempo viene usata, come mezzo, la violenza stessa dell’aggressore, si deve sospendere, per un tempo indeterminato, il rispetto dei diritti umani. In tale tempo, la risposta diviene speculare e simmetrica all’atto aggressivo. Siamo talmente assorbiti dai mezzi, da dimenticare completamente i fini.
D’altra parte, la risposta non violenta all’oppressione non ha nulla del conformismo legalista: essa comporta la sospensione continua delle leggi e degli ordini, che permettono il dispiegarsi dell’azione violenta. La disobbedienza civile, la non collaborazione, il boicottaggio, lo sciopero selvaggio, generale o generalizzato, sono i principali strumenti di lotta non violenta, proposti da Gandhi: in effetti, la non violenza va intesa come il rispetto senza riserve dell’integrità fisica e psichica di qualunque essere umano. Se tuttavia uno sciopero produce danni al denaro o alle macchine dell’oppressore, ciò è assolutamente legittimo: forse che il denaro ha carne e sangue, che soffrono? O le macchine hanno un’anima tenera, che non si può offendere? Gandhi ha così riassunto il concetto di non violenza: “Un vero seguace della resistenza civile si limita a ignorare l’autorità dello Stato. Egli si pone al di fuori della legge rifiutandosi di obbedire a tutte le leggi immorali dello Stato…Quando un insieme di uomini cessa di riconoscere lo Stato sotto il quale fino ad allora ha vissuto, ha quasi creato un suo nuovo Stato”.
A differenza da Gandhi, tuttavia, pacifisti radicali (come Simone Weil e Dietrich Bonhoffer) ritennero legittima la violenza di resistenza contro un regime di genocidio sistematico o contro la pratica generalizzata dei campi di sterminio. Si può ritenere che di fronte alla pianificazione della stessa scomparsa dell’umano, e solo in tal caso, la violenza di resistenza divenga un male inevitabile.
11. Alla Società Autoritaria si contrappone la Democrazia Insorgente. Essa porta alla luce il conflitto latente nella realtà sociale, sottratto alla visibilità da rappresentazioni smortamente conciliative e ipocritamente “buoniste”; dà voce e articolazione alla lotta dei “senza parte”, e cioè di coloro che sono di fatto esclusi dalla cittadinanza e ancor più dall’elite dominante; impedisce che il conflitto sia risolto dalla polizia di stato o rimesso al puro arbitrio dei rapporti di forza. E’ lecito immaginare istituzioni democratiche diverse da quelle dello Stato, in cui sia possibile prendere decisioni che riguardano l’essere-in-comune, rispettando la differenza dell’altro, e la specificità dell’ambiente sociale in cui deve essere assunta la decisione. Al decentramento –ovunque possibile- delle decisioni politiche, meglio corrispondono istituzioni partecipative, invece che parlamentari; esse hanno fatto la loro comparsa nelle insorgenze rivoluzionarie del 900 e affiorano in movimenti di lotta vivi oggi in diversi luoghi del mondo. E’ un’utopia? E forse lo “Stato sociale” non è la più tramontata delle utopie? E lo “Stato democratico” non sta seguendo la stessa sorte? Almeno l’istituzione partecipata mira a trasformare in modo nuovo l’esistente e il futuro, a definire una nuova condizione di cittadinanza. Il realismo politico è tale solo in apparenza e non fa che aggrapparsi a forme di fatto già liquidate dalla storia, come lo Stato Nazione, subordinato alla logica economica mondiale e globale. Non si è visto forse il ministro nazional-popolare Padoa-Schioppa eseguire come uno zelante funzionario gli ordini suicidi della Banca Centrale Europea?
12. Esiste in Italia una rete possibile di presidi, movimenti locali e di base -come in val di Susa e a Vicenza-, Centri sociali, Cantieri autonomi, che potrebbero scegliere la forma della democrazia insorgente, abbandonando rappresentanze formali vuote. L’azione politica dev’essere, ovunque possibile, radicata nel “sito”, nella specificità del luogo e dell’ambito vitale, in cui sono coinvolti i suoi attori. L’azione politica è sempre “situata” e rigorosamente tempestiva in una situazione data. Il “sito” è l’essere-in-comune dove gli umani possono convenire insieme, rovesciando i rapporti asimmetrici di potere; l’azione politica si radica indissolubilmente alla specificità del “sito” in cui interviene. In Italia questi luoghi specifici di resistenza e di azione politica sono sparsi e diffusi a livello molecolare. Come collegarli in una forma comune, senza ricadere nell’ottica ingannevole dei Partiti e delle istituzioni dello Stato? Occorre, in primo luogo, definire il principio regolatore di un’attività politica possibile: l’unità di misura di questo agire sarebbe una comunicazione orientata a persuadere l’altro, piuttosto che a determinarne la sottomissione in un rapporto di servitù; ma d’altra parte, questa persuasione per comunicazione non ha nulla di idilliaco, non è garantita da nessuna “expertise” e si scontra duramente con i poteri gerarchici effettivamente esistenti. Se il dialogo è al principio della democrazia, esso apre il suo spazio all’interno del conflitto col potere, e la democrazia è costitutivamente e inevitabilmente “insorgente”.
13. L’”insorgenza” definisce quei momenti di cesura della storia, in cui –nell’intervallo tra la crisi di un vecchio regime e il costituirsi di nuove istituzioni- si è tentata la via di una comunità politica determinata dalla persuasione comune, e non dai rapporti di dominanza. C’è sempre l’eventualità che la deliberazione comune si irrigidisca in struttura astratta, che l’altro ricada nel medesimo, che i molti vengano ricondotti all’Uno. La democrazia insorgente non è una forma data una volta per tutte, ma l’opera continua di trasformazione del potere in libertà, della disuguaglianza in eguaglianza. E’ un processo, non uno Stato, e non ha mai termine definitivo. E’ in questo eccesso e in questo scarto, che Marx vedeva il significato irripetibile della Comune di Parigi. La “Costituzione comunale” si proponeva infatti esplicitamente di sfuggire all’autonomizzazione e all’irrigidirsi delle forme politiche, rispetto ai “molti” da cui esse erano state originariamente promosse. Le democrazie insorgenti non distruggono solo un regime autoritario, ma combattono la tendenza a solidificare la rivolta in nuove forme di astrazione, di dominio dell’Uno sui molti.
14. Quando oggi la democrazia spettacolare viene presentata come uguaglianza realizzata, questa è menzogna ed illusione; perché alla sua base sussiste un torto e una disuguaglianza sostanziale. Tuttavia, l’esistenza di questo torto non rende inutile il parlare di democrazia, ma ne costituisce l’essenza politica profonda: la democrazia non è uno Stato realizzato, ma il processo rivoluzionario grazie al quale i senza parte acquistano consapevolezza di sé e pretendono di rovesciare il rapporto di disuguaglianza in cui si trovano. Se l’uguaglianza è riconosciuta come principio, ma in effetti lo Stato esclude una parte dei senza parte dalla cittadinanza, allora chiederne un’applicazione più completa ed estesa significa riattivare il conflitto tra chi è privo di diritti e chi li possiede. Come ha mostrato Jacques Rancière nel caso del proletariato e del movimento delle donne, il riconoscimento formale del principio d’eguaglianza inaugura lo spazio in cui il torto può essere riconosciuto come tale, in cui si apre il disaccordo e il conflitto perché l’eguaglianza venga effettivamente realizzata. Battendosi per la cittadinanza e l’eguaglianza i “senza parte” si riconoscono come soggetto insorgente, in una consapevole lotta di classe e pongono le condizioni comunicative e simboliche della loro liberazione.
La democrazia è per sua essenza la rivendicazione di un torto e l’attivazione di un conflitto. La democrazia iscrive nel centro stesso dell’azione politica il disaccordo, il riconoscimento e il rifiuto del torto, la negazione della disuguaglianza. Nell’insorgenza democratica –che non può essere ridotta alla sola emancipazione economica- il popolo diviene ciò che prima non era, grazie all’articolazione linguistica e politica del suo diritto all’eguaglianza: soggetto riconosciuto come tale, uscito dalla sua condizione di minorità. Iscrivendo nel diritto scritto la rivendicazione di eguaglianza, i senza-parte escono dal loro mutismo dominato, divenendo consapevoli della propria potenza costituente. Il popolo, il demos, tende a essere sempre o più di se stesso –senza parte che divengono soggetto politico-, o meno di se stesso –plebe e massa amorfa, passiva materia di dominio.
15. Nel 1832, durante un processo, il rivoluzionario Auguste Blanqui –richiesto della sua professione- rese la risposta simbolica: “proletario” e costrinse la corte a riconoscere l’esistenza di un soggetto, che –in quanto tale- non ne possedeva alcuna. Proletario significava infatti semplicemente colui che non ha nulla e non significa nulla; nella risposta di Blanqui, diventa un soggetto di diritti, che richiede il riconoscimento della propria eguaglianza. In una insorgenza rivoluzionaria, affermarsi come soggetto di diritti è altrettanto importante che impadronirsi dei mezzi di produzione. Aver trascurato questa verità, affidandosi all’automatico intensificarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, costituisce una delle debolezze maggiori del marxismo; mentre Marx stesso nei suoi scritti sulla Comune poneva la questione dei diritti politici e dell’uguaglianza al centro della sua riflessione. La fiducia cieca nel progresso tecnico, nello sviluppo ad ogni costo, nella crescita continua dei mezzi di produzione e nel suo sbocco rivoluzionario, costituisce l’utopia delusa del marxismo; mentre invece la lotta di classe conserva la sua bruciante attualità come nucleo profondo dell’azione politica. Cosa dovrebbe rispondere oggi un “senza parte” posto nelle stesse condizioni di Aguste Blanqui? Forse dovrebbe rivendicare con orgoglio simbolico di essere “Clandestino”, fuori delle leggi attuali dello Stato e disposto a lottare per un essere sociale in cui venir riconosciuto a pieno titolo “Cittadino”. Il passaggio dalla clandestinità alla cittadinanza è oggi un passaggio politico rivoluzionario, e riguarda in primo luogo i migranti e gli esclusi, ma anche tutti coloro che una condizione crescente di precarietà priva di luogo, di radice, di legame a un ambiente riconosciuto e riconoscibile di vita; vite e lavori precari, cui è impedito ogni progetto, che non sia la chiacchiera spettacolare; uomini cui è stato sottratto, in senso letterale, il tempo futuro e –con esso- il respiro della speranza.
16. Alle politiche della Società Autoritaria –realizzate da feroci politici clown- occorre rispondere con una ripresa espansiva del diritto di cittadinanza. Il lavoro politico democratico mira a costruire l’identità di una parte dei senza parte e includere in essa sia gli immigrati privi di diritti, che gli Italiani colpiti e immiseriti dalla nuova struttura gerarchica del potere. La loro divisione è mantenuta e coltivata con tutti i mezzi della società spettacolare, oltre che con l’uso sempre più frequente dello stato d’emergenza e di “insicurezza”.
Dentro o fuori le istituzioni esistenti, l’importante è che l’azione politica produca “inclusioni d’eguaglianza”. Da questo punto di vista i diritti dell’uomo e del cittadino non possono certo divenire un feticcio, buono a nascondere la disuguaglianza economica; ma possono essere uno strumento di riconoscimento identitario e di soggettivazione egualitaria dei senza parte. L’emancipazione sociale non può essere disgiunta dall’emancipazione politica, dalla lotta contro la caricatura del diritto imposto dalla Società Autoritaria.
17. In una nuova definizione del diritto di cittadinanza non si può prescindere da una “coscienza di luogo”. La parola “cittadino” allude oggi non solo al riconoscimento astratto e giuridico dell’eguaglianza e delle pari opportunità di lavoro e di vita (benché anche queste siano sempre più disattese dalla politica della Società Autoritaria), ma anche alla condizione concreta di “abitante della città”, una condizione materiale non vincolata al ciclo del capitale e alla produzione di valore. Ogni uomo ha diritto in primo luogo alla conservazione e alla salvaguardia dell’aria, della terra, dell’acqua e del fuoco (energia) del luogo in cui vive. Questo diritto elementare, base di ogni altro, gli è oggi negato da una sfruttamento illimitato delle risorse, retto dalla logica dello sviluppo e del profitto, che entra in contraddizione con la possibilità stessa della vita. La cittadinanza presuppone la salvaguardia del luogo e la cura per la sua qualità di vita. Essa non può essere limitata dall’etnia, dalla religione, dalla cultura di origine. Chi lavora e abita in un luogo ha diritto di partecipare alle assemblee, ai presidi, all’elettorato attivo e passivo, alla gestione delle vie di comunicazione, della sanità e dell’informazione del luogo di cui condivide il futuro ed ha il dovere di preservarne la qualità di vita e le risorse naturali. Egli è responsabile, in quanto cittadino, dei diritti e dei doveri che la sua appartenenza al luogo comporta. Il compito più urgente della democrazia insorgente è la richiesta della cittadinanza piena per i migranti che svolgano un lavoro lecito e utile in tutto il territorio italiano (intendendo con ciò la concessione dei diritti civili, politici e sociali). La definizione di lavoro “utile e lecito” richiede d’altra parte l’eliminazione del lavoro “nero” e clandestino e il riconoscimento della pari dignità di ogni lavoratore, del suo reddito minimo garantito: e inoltre l’abolizione di ogni forma di sfruttamento e di licenziamento sottratta al controllo delle leggi.
18. La salvezza delle risorse naturali dal modello economico che oggi le consuma richiede a un tempo, senza contraddizione, la “coscienza del luogo” in cui si vive, e il riconoscimento del diritto universale alla sopravvivenza della vita. Tutelando l’acqua e l’aria del paese o della valle in cui abito, contribuisco anche, come cittadino, alla difesa dell’acqua e dell’aria come beni universali, come risorsa comune e condivisa. Sempre più si intensificherà lo scontro tra gli Stati-funzione del capitale, che mirano all’incremento illimitato dello sfruttamento economico, e gli interessi vitali dei cittadini, che non vogliono vivere in un territorio desertificato o cementificato o ridotto a cumulo di rifiuti. Tra breve si imporrà una scelta radicale tra una tecnica guidata dalla volontà di potenza sulla natura e orientata al suo sfruttamento illimitato, e una tecnica che si ponga al servizio della qualità dei beni piuttosto che della loro quantità. Ciò non comporta affatto il rifiuto della scienza e della tecnica, ma –al contrario- un salto di paradigma nella loro struttura e nella loro finalità, una svolta copernicana già altre volte avvenuta nella storia dell’umanità. L’apparato tecnico deve essere adeguato alle attuali necessità vitali degli esseri umani e non viceversa.
19. Presidi, cantieri, consigli, municipi partecipati, si radicano nella realtà e nella coscienza del luogo, e vi difendono beni universali condivisi. La coscienza del luogo richiede perciò momenti di riconoscimento e di articolazione in cui le diverse realtà prendano contatto l’una con l’altra, e sostengano una lotta e un’iniziativa comuni. E’ possibile pensare a una Assemblea Costituente, in cui ogni presidio o comune mandi i propri delegati a rappresentarlo; ma essi sarebbero soggetti a un mandato imperativo e la loro nomina sottoposta a revoca in ogni momento, su richiesta della maggioranza dei cittadini che li hanno delegati. Un patto federativo può essere la base di una democrazia insorgente, fondata sui luoghi dove le comunità e le persone si formano, vivono, agiscono: le città e i territori.
20. In uno dei momenti più cupi della storia del 900, Walter Benjamin scriveva che la rivoluzione non era paragonabile alla locomotiva del progresso lanciata a folle velocità verso l’avvenire, ma piuttosto a un freno d’emergenza, che occorreva azionare, per impedire la catastrofe prodotta dal capitalismo; solo opponendo il principio del limite e del rispetto della vita a quello dello sviluppo e del profitto illimitato sarebbe possibile sperare ancora nella salvezza della terra. Questo compito è urgente e non rinviabile: il senso del nostro agire politico, e forse della nostra intera esistenza, dipende dalla tempestività e dall’efficacia della nostra insorgenza.
Avvertenze. Il termine “democrazia insorgente” è stato proposto da Miguel Abensour. La riflessione sulla democrazia come disaccordo, come torto e “parte dei senza parte”, è stata sviluppata da Jacques Rancière. “Coscienza di luogo” è un concetto proposto da Pierluigi Sullo. La riflessione sulla società dello spettacolo ha come principale riferimento Guy Debord. La complementarità fra atomizzazione e dispotismo risale a un testo di Tocqueville studiato da Claude Lefort. In un punto del testo viene utilizzata una frase di Hegel sul crollo dell’Ancien Régime. Si sono tenute presenti le Tesi sul nuovo fascismo, pubblicate anni fa dalla rivista “Luogo Comune”.
Carta per la Democrazia Insorgente
Scritto da
Andrea Intonti
Pubblicato
5/25/2009 09:50:00 AM
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