«Il genere umano deve ai bambini il meglio che può dare. Per guardare in alcuni aspetti del futuro non occorrono proiezioni di supercomputer. Molto del millennio che sta per iniziare può essere visto dal modo in cui ci prendiamo cura oggi dei nostri bambini. Il mondo di domani sarà influenzato dalla scienza e dalla tecnologia, ma soprattutto sta già prendendo forma nei corpi e nelle menti dei nostri figli».
Sono le parole pronunciate da Kofi Annan, l'ex Segretario generale delle Nazioni Unite, nel 1997. «Il genere umano deve ai bambini il meglio che può dare», una gran bella frase, ma solo questo. Solo una frase. Basta guardarsi un po' in giro per capire questo: bambini obesi che passano le giornate davanti alla televisione in America, bambini costretti a prostituirsi e vivere per strada in Brasile, in Africa ed in gran parte del mondo. Tutti accomunati da un unico particolare: non aver voluto la vita che stanno vivendo.
Mogbwemo (Sierra Leone) - «Maniche corte o maniche lunghe?» no, non è la richiesta di una mamma di fronte ai capricci del figlio incapace di scegliere come vestirsi. È la richiesta degli uomini del RUF, il Fronte Rivoluzionario Unito che, al grido di “Non più schiavi, non più padroni. Potere e prosperità al popolo” imperversò in Sierra Leone tra gli anni '90 e l'inizio del nuovo millennio. Ciò che succedeva dopo la domanda era sempre la stessa, identica, cosa: l'amputazione. Delle braccia nel primo caso o delle sole mani nel secondo. Quando in questa situazione si trovavano – come si trovano tutt'ora – dei bambini, l'amputazione non era solo una mera questione fisica, era anche – e soprattutto – amputazione dell'infanzia.
Il rapporto tra i bambini e la guerra nasce nella notte dei tempi: che siano esse vittime o complici dei carnefici fa poca differenza. Il trauma è lo stesso. Ai tempi delle campagne napoleoniche li chiamavano “enfants perdus”, bambini perduti. Erano tamburini che davano il ritmo ai soldati in prima linea e, come tali, i più esposti al fuoco di artiglieria. Poi la guerra si evolve, e i compiti dei bambini mutano: gli appartenenti alla Hitlerjugend, ad esempio, archetipi del moderno kamikaze, avevano il compito di saltare sui carri armati nemici cercando di infilare le bombe a mano nelle feritoie; le immagini dei bambini palestinesi che sfidano i carri israeliani armati di sole pietre sono ben presenti nella memoria di ciascuno di noi.
Secondo il Rapporto Globale sui bambini soldato del 2008 sono più di 250.000 i minori che prendono parte ai combattimenti in giro per il mondo. Che siano soldati o semplici “assistenti”, francamente, credo faccia poca differenza.
Come si evolve la “carriera” di un bambino soldato. Spesso i bambini – e le bambine, visto che la guerra non ha mai fatto problemi di genere – vengono presi durante le razzie dell'esercito o delle truppe ribelli, la cui differenza è spesso impercettibile, nei loro villaggi. I più piccoli – dai 4 ai 6 anni – svolgono tipicamente il ruolo di sentinelle: completamente nudi vengono lasciati nelle foreste o nei campi, con il compito di strillare, correre o far finta di giocare, ed avvisare l'esercito di appartenenza alle prime avvisaglie di presenza nemica nelle vicinanze. Non è difficile immaginarlo: questo stesso metodo è utilizzato anche dalla criminalità organizzata nostrana. Cambiano le latitudini, ma le abitudini in guerra rimangono sempre le stesse evidentemente.
Arrivati all'età massima per ricoprire tale ruolo, se si è ancora in vita si diventa militari a tutti gli effetti. L'iniziazione arriva, per tutti, tra i 7 e gli 11 anni.
Per le ragazze è un po' diverso, perché – salvo alcuni non proprio eccezionali casi – "le femmine non sono buone per fare la guerra" e quindi, a partire dai 10 anni, vengono sfruttate come manovalanza nelle retrovie (per cucinare, lavare le divise) e, nella quasi totalità dei casi vengono utilizzate per soddisfare i desideri sessuali delle truppe “adulte”. Indipendentemente dalla "bandiera" alla quale si appartiene.
Quando non vengono rapiti, può anche capitare che alcuni bambini decidano di arruolarsi volontariamente, anche se in una scelta del genere non c'è nulla di volontario. «Presero mio padre e lo misero in cella. Poi mi chiesero se volevo andare con loro. Ho detto di sì, perché volevo proteggere mio padre, ero sicuro che altrimenti lo avrebbero ucciso. Avevo 6 anni. Mi presero e portarono via assieme a molti altri bambini. Eravamo circa 175 e l'addestramento durò tre mesi, poi ci mandarono al fronte» dice John, uno dei ragazzi “riabilitati” dai programmi specifici dell'Unicef o delle tante Ong che si adoperano per restituire agli ex bambini soldato la vita che gli è stata portata via da una guerra in cui – vittime o carnefici – si sono ritrovati senza volerlo.
Come John ce ne sono tanti, tantissimi. Come Kalami, che dai 9 ai 15 anni ha combattuto in uno dei gruppi armati che si massacrano nella Repubblica Democratica del Congo: «Ci veniva ordinato di uccidere persone costringendole a restare all'interno delle loro case mentre noi le bruciavamo. Abbiamo persino dovuto sotterrarne alcune vive. Un giorno, io ed i miei amici siamo stati costretti dal nostro comandante ad uccidere tutti i componenti di una famiglia, tagliarne i corpi e mangiarli».
Vengono plagiati dai comandanti, i quali puntano sulla sete di vendetta dei bambini verso chi gli ha sterminato la famiglia e distrutto tutto ciò che avevano (in Africa, per esempio, l'80% dei bambini soldato ha assistito ad un'azione armata intorno alla propria casa ed il 60% ha perso la propria famiglia a causa del conflitto). Difficilmente, quando vengono rapiti, i genitori si ribellano: è scegliere tra la vita e la morte dei propri figli, e tutti i genitori, a qualunque latitudine e da qualunque classe sociale provengano, sceglieranno sempre per la vita. Un esercito di bambini, poi, è decisamente più conveniente di uno di militari esperti: non vengono pagati, sono facilmente indottrinabili (e quindi più fedeli), e quando muoiono è più facile trovarne validi ricambi. I bambini poi, è risaputo, si adattano subito alle situazioni e, non avendo alternative con le quali fare comparazioni, dopo non molto tempo inizieranno a considerare la guerra come la situazione “normale” e non è raro sentire, nelle parole dei "reduci", la soddisfazione che avevano, quando erano al fronte, per essere parte di una situazione simile.
Per questi motivi vengono utilizzati spesso in fasi pericolose delle missioni, quali l'attraversamento dei campi minati o l'intrufolarsi nei territori nemici per spiarli. La creazione delle armi automatiche (un bambino di 10 anni può tranquillamente essere equipaggiato con un AK-47), nonché il mercato occidentale del genere guerrafondaio dei film, si dimostra sempre più alleato dei signori della guerra africani: come dice Ishmael Beah - un ex bambino soldato autore di un meraviglioso, seppur difficile libro come "Memorie di un soldato bambino" - quando era ancora arruolato nell'esercito della Sierra Leone passava le serate a guardare film di Rambo o dello stesso genere, sperando di poter applicare quelle stesse tecniche il prima possibile.
La “geografia” dei bambini soldato. È sicuramente l'Africa la “patria” dei bambini soldato: escludendo il caso limite dell'LRA, l'Esercito di Resistenza del Signore di stanza tra il nord dell'Uganda e in alcune parti del Sudan, composto per intero da bambini soldato, negli altri conflitti il numero di bambini utilizzati nei vari ambiti della guerra ha percentuali sempre a due cifre. Così come ruolo fondamentale ricoprono in molte zone del Medio Oriente (con punte del 70% nell'Intifada palestinese), dell'Asia e dell'America Latina (dove per lo più vengono arruolati nelle fila dei movimenti di liberazione nazionale). È quasi una costante, nei paesi poveri in cui si creano situazioni di guerra, trovare tra le truppe anche bambini piccolissimi, bambini che nel resto del mondo la guerra la giocano, non la fanno.
Uso regolare ne veniva fatto dai Khmer rossi di Pol Pot in Cambogia o dalle Tigri Tamil cingalesi, ma non è difficile vederli immolarsi nei mercati afghani od iracheni, disposti per somme che a noi paiono irrisorie a trasportare bombe o a divenirlo essi stessi (10 dollari per posizionare un IED, un Improvised Explosive Devices, in Afghanistan sono visti come una fortuna, là dove la popolazione vive con meno di un dollaro al giorno).
Questa pratica, però, non è da legare all'arretratezza culturale con cui il circuito dei media mainstream ci presenta le popolazioni non occidentali: Canada, Stati Uniti, Australia, Olanda e Gran Bretagna vedono di buon occhio militari “under 18”. Naturalmente non si parla di reclute di 6-7 anni, ma come spiegare le 4.991 unità non maggiorenni dell'esercito di sua maestà se non con quelle stesse parole che si userebbero – e che si usano – quando queste notizie vengono dai “terroristi” afghani, arabi o di qualunque altra etnia/popolazione/religione “barbara”?
Le bambine soldato. Nascere femmina, in Africa, ha sempre significato avere davanti una vita più difficile, ma d'altronde è così in tutte le società maschiliste, in cui la donna è vista ancora come mera proprietà dell'uomo. Le bambine soldato non fanno eccezione, anzi. Non solo vengono impiegate in ruoli di retroguardia, ma spesso sono utilizzate in prima linea come spie (circa il 30% degli eserciti mondiali ha delle bambine tra i propri componenti). Si arruolano per scappare dalla vita di strada, che incontrano però sotto le armi, costrette a diventare le “mogli” dei comandanti ed a subire ripetute violenze sessuali da parte dei maschi. Ciò le espone a due rischi: contrarre l'HIV/AIDS od altre malattie a trasmissione sessuale, cosa che le fa relegare ai margini delle società cui appartengono (in particolare in quell'Africa in cui la donna è vista spesso solo nella sua funzione riproduttrice) o rimanere incinte, andando così incontro all'espulsione dalle loro comunità, perché non solo queste ragazze si uniscono ai ribelli, ma fanno anche figli con i comandanti. Anche questo, come nel caso delle sentinelle, non è un concetto tanto difficile da comprendere: ancora oggi, nelle società che si dicono evolute come la nostra, non è difficile incontrare chi sostiene la correità delle ragazze stuprate.
Jasmine, 16enne al tempo della “reintroduzione in società” (dodicenne al tempo dell'arruolamento da parte di un gruppo armato mayi-mayi del Kivu meridionale, Repubblica Democratica del Congo) e madre di un bambino di 4 mesi, ha raccontato ai ricercatori di Amnesty International: «Quando i mayi-mayi attaccarono il mio villaggio, scappammo tutti via. Durante la fuga, i soldati catturarono alcune ragazze, anche quelle molto giovani. Una volta che sei nelle loro mani, sei costretta a “sposare” uno di loro, non importa se è vecchio come tuo padre o se è giovane, se è bello o brutto...sei costretta ad accettare. Se ti rifiuti, ti uccidono. È accaduto a una delle mie amiche. Ti sgozzano come galline e neanche seppelliscono i corpi».
Questo aspetto non fa altro che aggiungersi a tutta quella violenza – fisica e psicologica – che bambini e bambine subiscono in guerra. Non solo devono accettare di vedersi mutilati, marchiati a fuoco, di aver passato un infanzia all'insegna della violenza e sotto l'effetto di droghe (come la “brown brown”, cocaina tagliata con polvere da sparo), ma devono sottostare per anni, anche una volta lontani da scenari bellici, a traumi psicologici ed incubi continui. Tutto questo si riversa poi sulla loro vita sociale: la difficoltà di risocializzazione è talmente alta che, spesso, i ragazzi non riescono a farsi quella vita "normale" che non hanno mai avuto. Per le ragazze, anche in questo caso, è peggio: non solo devono sottostare ad atrocità ben peggiori dei maschi, ma non vengono neanche adeguatamente aiutate nella difficilissima opera di ricostruzione del proprio Io, interiore e sociale, e spesso finiscono col diventare prostitute.
Anche quando il recupero sembra terminato, non è detto che questi ragazzi tornino – o in molti casi, facciano ingresso per la prima volta – in una vita che si può considerare “normale”: nei centri di recupero – nei quali spesso si fanno disegnare o rappresentare con armi giocattolo le scene di guerra a cui hanno preso parte realmente – il tempo massimo di transizione è di due mesi. Poi i ragazzi vengono inviati nuovamente alle loro comunità di origine (spesso inesistenti) che in alcuni casi equivale a rimetterli nelle mani delle milizie, oppure vengono adottati o da altri parenti, come nel caso di Ishmael, adottato da uno zio prima del trasferimento nella vita “normale” negli Stati Uniti, oppure vengono direttamente sradicati dalle loro comunità ed inviati, per adozione, a famiglie in luoghi lontani dalla guerra anche se, come abbiamo visto, i fantasmi del loro passato non hanno problemi ad attraversare oceani o a farsi trasvolate da una parte all'altra del mondo.
Il diritto internazionale. Nonostante, come abbiamo visto in precedenza, il problema dei bambini soldato sia un problema antico, la sua risoluzione normativa è una questione di cui ci si occupa da non tantissimo tempo. Il primo documento internazionale in cui si inizia a parlare di questo problema sono le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, anche se queste si limitavano a stabilire (artt. 23 e 24 della IV Convenzione) norme a tutela dei minori sotto i 15 anni, senza entrare nello specifico della questione “minori e guerra”. Per farlo ci vorranno circa 30 anni: i Protocolli Supplementari a tali convenzioni indicano chiaramente i 15 anni come l'età minima per l'arruolamento e l'uso dei bambini in situazione di conflitto armato, sia che i minori siano impiegati da eserciti regolari che da “insorti”. Siamo nel 1977, e forse molto si deve alla spinta dei movimenti pacifisti. L'art. 77 del Protocollo Supplementare I recita: «Le parti in conflitto porranno in essere tutte le misure attuabili affinché i bambini che non hanno raggiunto l'età di 15 anni non prendano direttamente parte nelle ostilità e, in particolare, si asterranno dal loro reclutamento nelle forze armate. Nel reclutamento fra quelle persone che hanno raggiunto l'etè di 15 anni, ma che non hanno raggiunto l'età di 18 anni, le parti in conflitto cercheranno di dare la priorità a coloro che sono più grandi (comma 2). Se, in casi eccezionali, malgrado le disposizioni del comma 2, i bambini che non hanno raggiunto l'età di 15 anni prendono direttamente parte nelle ostilità e vengono catturati dalla parte avversa, continueranno a trarre beneficio dalla protezione speciale prevista da questo articolo, e non sono prigionieri di guerra (comma 3)».
Per quanto riguarda i conflitti non internazionali, quindi la maggior parte delle guerre attuali (guerre inter-etniche, inter-religiose et alia) è fatto divieto alle parti in conflitto di reclutare bambini al di sotto dei 15 anni, sia che essi svolgano un ruolo attivo (come soldati) sia che il loro ruolo sia passivo (come cuochi, sentinelle e simili). Ma, come sappiamo, le convenzioni internazionali rimangono spesso solo pezzi di carta, e non solo per il volere dei “terroristi barbari” ma anche, e soprattutto, per l'ostracismo delle forze “pacifiche e democratiche” dell'Occidente che, in molti casi, hanno più di un interesse nei conflitti in corso.
Una svolta si è avuta nel 1997, quando le principali Ong impegnate nella tutela e nella protezione dei diritti dell'infanzia nei conflitti armati e l'Unicef si riunirono a Città del Capo per creare gli omonimi principi, nei quali si ridefinisce il ruolo di “bambino soldato”, che da quel momento si riferisce a tutte le bambine ed i bambini al di sotto dei 18 anni che hanno preso parte in qualsiasi modo in un conflitto armato, inserendo anche coloro che hanno subito un reclutamento forzato per motivi sessuali e/o per matrimoni forzati.
Tale cambiamento è stato fondamentale per l'accesso ai programmi di riabilitazione anche per quei bambini che sono impegnati nei conflitti con ruoli diversi da quello del “combattente”.
Dieci anni dopo, a Parigi, l'Unicef ed il Governo francese organizzano la conferenza internazionale “Free children from war – liberiamo i bambini dalla guerra”, dove i 58 Paesi presenti si sono impegnati formulando ben due documenti:
- “Gli impegni di Parigi”: un insieme di principi legali ed operativi necessari agli Stati per proteggere i bambini dal reclutamento o dall'uso nei conflitti armati e che vanno ad implementare e completare l'apparato normativo esistente;
- “I principi di Parigi”: un dettagliato documento comprendente principi in merito a: protezione dal reclutamento o dall'uso nei conflitti armati, rilascio e reintegro nella vita “civile”; in tale documento è anche evidenziata chiaramente l'esigenza di creare una politica di lungo periodo per la prevenzione del reclutamento e per la definitiva cessazione della partecipazione dei bambini ai conflitti armati.
Oggi l'opera di divulgazione affidata agli ex bambini soldato è fondamentale per far comprendere all'Occidente, quello stesso Occidente che si riempie la bocca di parole come “pace”, “libertà”, “democrazia” le sue responsabilità in quanto correo di signori della guerra e governi-fantoccio necessari per mantenere lo status di “paese ricco” di cui i paesi occidentali si fregiano. Se poi questo status è mantenuto sulla pelle dei bambini beh...forse, dopo aver integrato la definizione di “bambino soldato”, alla prossima conferenza internazionale ci sarà da aggiornare anche quella di “terrorista”, aggiungendo alla lista di gruppi quali Al Quaeda, Sendero Luminoso, Pkk anche i nomi di quei paesi che permettono – sia perché coinvolti, sia perché “distratti” - tutto questo. Ma solitamente le colpe dei paesi occidentali passano sotto il nome di “missione di pace”.