[dal retro di “Memorie di un soldato bambino” di Ishmael Beah]
Quando si parla di guerra, solitamente, si tende a considerare sotto questo termine i grandi eserciti “super-addestrati ed armati fino ai denti” che vediamo spesso nei film americani.Quegli stessi film che piacciono a tutti i bambini, perché da bambino chi non si è identificato con Rambo, o con tutti tutti questi “eroi dal grilletto facile”? La regola dei bambini piccoli è che: «i maschietti giocano con i mitra e le femminucce con le bambole». Già, giocano...
Da questo lato del mondo, dal lato economicamente ricco, i bambini giocano alla guerra. Perché per un bambino la guerra deve essere un gioco. Come è “giusto” che sia. Dall'altro lato del mondo, cioè dal lato che serve al mondo ricco per continuare a definirsi tale, la guerra, molto spesso, non è un gioco.
Congo, Algeria, Somalia, Darfur, Sierra Leone. Migliaia e migliaia di bambini africani la guerra non la giocano. Alcuni la guardano da lontano, fortunatamente. Altri, invece, la vivono in prima persona. Come Ishmael Beah, autore del libro “Memorie di un soldato bambino”. Mi fa un certo effetto dover dire che questo libro – come molti altri – è un libro bello e che mi è piaciuto.
Perché mi fa un certo effetto connotare in maniera positiva una guerra raccontata sì da un reduce, ma da un reduce che, nel momento del racconto, ha da poco passato la maggiore età. Siamo nel 1993, a Mogbwemo, piccolo villaggio della Sierra Leone, paese in cui i ribelli del Fronte Unito Rivoluzionario hanno iniziato, dal marzo del 19991, una guerra civile capeggiati da Charles Taylor, esportatore di morte e signore della guerra, ed alcuni ribelli burkinabé.
Ishamel, suo fratello Junior, gli amici Talloi e Mohamed alla guerra non ci pensano. Loro sono bambini. E poi a loro interessa la “parlata veloce degli americani”, cioè il rap e l'hip hop. Nel loro villaggio però non ci sono rapper, e per vederli, per studiarli (visto che hanno formato una band) vanno a Mobimbi, il “parco divertimenti” per bianchi.
Un giorno come un altro, però, il loro villaggio viene attaccato, ed i ragazzi non potranno più farvi ritorno.
È l'inizio della fine. I ragazzi si separeranno e tutti – in un modo o nell'altro – faranno i conti con la guerra. Ishmael diventa un soldato “regolare”, il cui scopo è quello di «vendicarsi dei ribelli che gli hanno ucciso la famiglia e distrutto il villaggio», come il comandante ripete spesso, tra un film di Rambo, qualche pasticca e un po' di cocaina “che danno più energia”.
Da quel momento la famiglia di Ishmael saranno i suoi compagni, il caporale e tutti gli altri che, come lui, hanno un fedele amico nell'AK-47, nel G3 o nel kalashnikov. Gli unici “amici” di cui ci si possa fidare in guerra.
L'infanzia di Ishamel se ne va così, insieme al primo proiettile che uccide un uomo, in quel concetto che vuole i militari “buoni” ed i ribelli “cattivi” avere differenze sempre più labili. Entrambi attaccano villaggi, uccidono, rubano. Entrambi gli eserciti usano i bambini per fare la guerra.
So che solitamente in una recensione si riassume quel che si è letto. Ma mi piacerebbe che invece che a questo mio articolo, la gente si incuriosisca e vada a leggersi il libro, perché – come dice William Boyd – questo libro è «la prima volta che un soldato bambino si mostra capace di dar voce letteraria a una delle figure più drammatiche che ci ha lasciato il XX secolo: la figura dell'adolescente guerriero ed assassino».
«E voi a divertirvi andate un po' più in là
andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà. »
[Fabrizio De André]
andate a divertirvi dove la guerra non ci sarà. »
[Fabrizio De André]