La nuova arma di distruzione si chiama ddl 1167-B, volgarmente intitolato: “deleghe al governo in materia di lavori usuranti, riorganizzazione di enti, congedi aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, servizi per l'impiego, incentivi all'occupazione, apprendistato, occupazione femminile, lavoro sommerso, lavoro pubblico, controversie di lavoro”. Sotto questo titolo – che vuol dire tutto e niente – si nasconde l'ultimo regalo della classe politica asservita ai Padroni: l'eliminazione della «giusta causa» dalle tutele per i lavoratori e quindi la cancellazione di un altro di quei «diritti indisponibili» che una volta il lavoratore si vedeva tutelati. Fino ad ora il padrone non poteva svegliarsi la mattina e licenziare, così, a caso, a simpatia. Doveva avere un motivo valido (il lavoratore non sapeva fare bene il suo lavoro, aveva fatto una cavolata sul luogo di lavoro et alia): era questa la famosa “giusta causa”. Da oggi la dicitura “licenziamento con giusta causa” diventa “licenziamento senza giusta causa”, andando così a distruggere l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori il quale prevede(va) che, in caso di licenziamento illegittimo – senza giusta causa, appunto – il lavoratore fosse reintegrato. È quello che è successo reiteratamente al macchinista Dante De Angelis reo di aver semplicemente fatto notare la carenza delle norme di sicurezza su alcuni convogli Trenitalia, la quale si è vista costretta a reintegrarlo per ben tre volte.
Qui apro una piccola parentesi che con la discussione in oggetto al Parlamento non c'entra molto: in molti lavori, oggi, tra le clausole presenti in un contratto di assunzione, viene posta l'impossibilità per il lavoratore di “parlar male” dell'azienda (non so la terminologia tecnica, ma la sostanza è quella...) e, quindi, viene tolta la possibilità al lavoratore responsabile, di tutelare sé, i colleghi e gli utenti del servizio offerto in caso di carenze – di protezione e quant'altro – da parte dell'azienda. Quel che mi chiedo io è come si possa accettare una cosa simile. Non tanto da parte dei lavoratori che, in un mondo in crisi nel quale oggi lavori e per i prossimi due mesi non si sa, si vedono in pratica mettere il cappio al collo dal padrone se vogliono lavorare; qui c'è la totale assenza di tutte quelle forze – politiche e sindacali – che si dichiarano a favore del lavoratore e che chiedono tesseramenti o voti per la sua tutela.
Con l'articolo approvato nei giorni scorsi in Senato siamo di fronte allo stesso, identico, procedimento.
Tremonti, Scajola, Brunetta, Sacconi, Calderoli, Alfano. Sono loro i colpevoli “ufficiali” della nuova legge; e come loro lo sono i 151 parlamentari che hanno votato a favore del ddl.
Per completare il quadro, poi – visto che le cose o si fanno per bene o è meglio non farle – nei mesi scorsi si è abbassata l'età minima per accedere all'apprendistato, portandola dai 16 ai 15 anni attuali. Cosa che si traduce, in gergo padronale, in una possibilità in più di sfruttare la schiavitù minorile sottoforma di “contratto di apprendistato”.
Perché oggi in Italia il lavoratore non è più un lavoratore propriamente detto: contratti a progetto; agenzie di lavoro interinale; contratti di lavoro intermittente (meglio noti come contratti a chiamata); tante sigle per ribadire che il lavoratore, così come le materie prime e le scorte di magazzino, è una merce. Non solo merce da sfruttare per il padrone, ma anche – e forse soprattutto – merce di scambio nel continuo do ut des che classe politica e classe padronale compiono quotidianamente sotto gli occhi di distratti cittadini “democratici e per la legalità”, distratti dalla vacuità della discussione finto-intellettuale italiana.
Per entrare nello specifico di quel che sarà con l'introduzione del disegno di legge, abbiamo già precedentemente detto come, in caso di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro sia tenuto al reintegro del lavoratore; oggi, invece, il reintegro si trasforma in mera indennità economica stabilita da una terza parte la cui funzione è quella di fare da “arbitro” tra le parti e che deciderà “secondo giustizia” sulla controversia in essere.
Attenzione alle parole tra virgolette: “arbitro” e “secondo giustizia”. La terza parte predisposta, a rigor di logica, dovrebbe essere il giudice che, come dice il nome stesso “giudica” chi ha ragione e chi ha torto e, applicando la legge vigente, dirime la controversia. Tutto questo, ora, ricade sotto la tipologia del “passato”, perché da oggi il compito del giudice – al quale non per niente è stato dato nome diverso – sarà la mera ratifica di una decisione presa precedentemente dal padrone e fatta forzatamente accettare al lavoratore: sì, perché potranno essere inserite nei contratti delle clausole con cui il lavoratore rinuncia preventivamente al ricorso alla magistratura in caso di controversia, affidando la decisione a questa terza parte arbitrale. Clausola che naturalmente verrà impostata nel contratto di assunzione (cioè nel momento in cui il lavoratore è più ricattabile), per cui io lavoratore sarò costretto a rinunciare alla possibilità di potermi difendere dalle magagne del padrone ancor prima di sapere se il padrone sarà un buon padrone o meno! Una vera e propria carta bianca ai padroni che potranno fare quel che vogliono con la vita dei dipendenti (vabbé che con tutta quella serie di contratti elencati prima lo fanno già...). Insomma: la nuova tratta degli schiavi è servita!
Come se non bastasse – perché le sciagure, come si sa, viaggiano sempre in coppia – questo fantomatico arbitro non sarà tenuto a decidere in base alla legge come sensatezza richiederebbe, ma secondo un non meglio precisato principio di equità (per l'abrogazione dell'art.412 del Codice di procedura civile sulla risoluzione arbitrale delle controversie). Per cui, a volerla leggere in maniera maliziosa, va a farsi benedire – per non dir peggio – il principio di obiettività ed imparzialità della terza parte alla quale, quindi, non rimane che dover ribadire una decisione già presa al momento della stipula del contratto.
C'è voluto un po' di tempo per arrivare a questo punto. Come dice il giuslavorista Piergiovanni Alleva sulle pagine di Liberazione di ieri, l'idea dell'arbitro è da ricondursi alle c.d. “certificazioni” della legge Biagi (che si chiami poi legge 30, legge Maroni o legge Sacconi poco ne cale allo scopo...), cioè la possibilità di inserire nei contratti di lavoro, di qualsiasi tipo, una clausola arbitrale (certificata da un'autorità) in deroga ai contratti collettivi.
Accordarsi “in deroga” ai contratti collettivi è peraltro totalmente incostituzionale. Riporto il passo dell'intervista in merito:
«E qual'è il nesso tra le certificazioni e l'arbitrato previsto dalla nuova legge?
La certificazione non ha avuto molta fortuna in questi sette anni perché, in realtà, non c'era nessuna sicurezza che reggesse davanti a un tribunale. L'articolo 24 della Costituzione vieta che ci siano atti negoziali privati, provvedimenti amministrativi, inoppugnabili, mentre l'articolo 111 impedisce la possibilità che vi siano contratti che sfuggano alla possibilità di un controllo giurisidizionale. Davanti al tribunale del lavoro si sarebbe potuto dimostrare, per esempio, che questi contratti “certificati” come contratti a progetto nascondevano in realtà forme di lavoro subordinate e così via. Allora ecco la grande invenzione di questa legge. Siccome queste “intimidazioni blindate” non reggono davanti al giudice, il governo ha pensato di eliminare anche il giudice mettendo al suo posto un cosiddetto arbitro. In questo modo queste simulazioni non potranno più essere smentite. Come se non bastasse la clausola arbitrale presente nel contratto certificato non riguarderà soltanto la natura dei contratti (tempo determinato, indeterminato, ecc), ma anche le modalità di licenziamento. In caso di controversia sulla fine del rapporto di lavoro ci si ritrova di nuovo davanti ad un arbitro, il quale può decidere non secondo le leggi e gli accordi stabiliti in sede di contrattazione collettiva ma secondo “equità”, cioè secondo una propria valutazione soggettiva. Oggi se il giudice constata la ragione del lavoratore deve reintegrarlo per legge sul posto di lavoro, l'arbitro invece potrà limitarsi ad una piccola somma di risarcimento».
Ho volutamente lasciato alla fine l'aspetto prettamente politico della questione: stando alle dichiarazioni del ministro Sacconi, le aule hanno discusso questo ddl per ben due anni. Non so se siano due anni, ma sicuramente c'è voluto un po' di tempo, visto che – senza emendamenti – una proposta di legge, dunque anche un ddl deve passare per ambedue le camere, da ciò la mia considerazione di natura politica: perché parlarne solo adesso, peraltro quando i giochi sono ormai chiusi? Perché non informare i lavoratori in questo arco di tempo, prima che una decisione simile fosse presa? L'unica risposta che mi viene in mente è che anche quelle forze che si spacciano per forze “di sinistra” (naturalmente circoscrivendo il tutto al complesso parlamentare, visto che la sinistra “estrema” è ancora forza extra-parlamentare) sono diventate amiche del padrone. Ma d'altronde, in un paese in cui due dei tre leader dei sindacati più importanti pranzano allo stesso tavolo del padrone c'è da stupirsi?
Certo: mi chiedo quando i lavoratori – e non solo loro – la smetteranno di delegare la evidente non-tutela dei propri diritti ad una classe politica di codesta fattezza. Ma sono fiducioso che prima o poi tutti impareremo la lezione.
Mentre aspettiamo di vedere quanto possano essere validi i referendum di Rifondazione, comunque, una cosa è chiara: almeno le clausole vessatorie sono scritte in piccolo...