«E dì alle credenti di abbassare e custodire il loro pudore; e di non mostrare i loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare».
«O Profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate. Allah è perdonatore, misericordioso»
Dovrebbero essere questi i “versetti malefici”, quelli secondo i quali l'uso del burqa deriverebbe da obbligo religioso. Se solo il burqa avesse qualcosa a che fare con la religione, naturalmente.
Non conosco molto la cultura islamica, tanto meno quella derivante dalla religione, ma informandomi in questi giorni una cosa mi è chiara: l'uso del velo non ha niente a che fare con la religione, ma è – di contro – libera scelta della donna.
L'unico limite che viene imposto è – come recitano i versetti del Corano su esposti – che la donna abbia un certo pudore di fronte a uomini sconosciuti, o comunque non appartenenti alla famiglia. Io non ci vedo niente di particolarmente folle, anzi. È come se per noi occidentali – sapete no? Quegli strani soggetti che si riempiono la bocca di parole come “libero arbitrio” e cose simili – fosse la cosa più normale del mondo andare a casa di uno sconosciuto e trovare le donne di casa che girano completamente nude anche in presenza di sconosciuti. Credo che chiunque si sentirebbe a disagio e avrebbe qualcosa da ridire. Ma su questo aspetto ci tornerò in seguito.
La materia del contendere nella laicissima Francia – evito di citare il caso italiano, perché come al solito noi ci mostriamo ancora una volta per quel che siamo: l'inutilità fatta identità nazionale – riguarda, appunto, l'aspetto religioso. Ed in Francia ha anche un certo senso un discorso simile, considerando che per essere coerenti con l'idea di eliminare tutti i simboli religiosi sono stati eliminati anche i crocifissi, nonostante il numero di donne musulmane che portano il velo “integrale”, che sia il tanto vituperato burqa o il niqab (il velo con il quale si lasciano scoperti solo gli occhi), sia veramente infimo (un paio di migliaia di persone su un totale di circa 65 milioni di abitanti della République). C'è però una domanda alla quale non riesco a trovare risposta, se accetto l'idea che l'imposizione di questi veli sia di natura religiosa: se questa è un'imposizione che, da quel che ci dicono in tv e sui giornali, per la religione islamica vale come legge inderogabile, perché molte donne credenti non lo portano? Sono tutte peccatrici oppure c'è una diversa spiegazione? Non sarà che la nostra classe dirigente – non solo quella italiota – applica questo connubio solo in funzione islamofoba? Perché se così non fosse io l'unica risposta che riesco a darmi è sempre quella: le donne scelgono sia se coprirsi – cosa che allora mi fa propendere per una certa elasticità del dettame religioso islamico, sconosciuta ad altre religioni – sia come farlo, cioè se coprirsi solo i capelli (con l'hijab) oppure se coprirsi integralmente con burqa o niqab.
Io non sono un esperto di cultura islamica, anzi, non credo di essere esperto neanche della mia, ma siccome sono uno che adora ficcanasare nelle culture altrui, la prima cosa che mi colpisce è sicuramente la possibilità di differire nella scelta del velo:
- Hijab: deriva dalla radice araba h-j-b e significa nascondere allo sguardo, celare. Il campo semantico, dunque, è più ampio rispetto alla nostra traduzione di "velo" (un hijab può essere una tenda, una cortina, comunque qualunque cosa che, appunto, nasconda allo sguardo un qualcos'altro). Non è invenzione islamica, in quanto già nel mondo greco si poteva riscontrare l'usanza delle donne di coprirsi per uscire. Situazione familiare a tutta l'area mediterranea (di cui alcune reminiscenze ancora oggi le troviamo qui in Italia, soprattutto nel Sud, altro punto su cui tornerò in seguito...)
- Chador: termine che deriva dal persiano ciâdar (velo, mantello) consiste in un velo, generalmente di colore scuro, che lascia scoperti soltanto le mani ed il viso, capelli esclusi. Fu il segno esteriore più evidente della rivoluzione khomeinista in Iran (1978-1979), nonostante non fosse indumento particolarmente in voga, soprattutto negli ambienti della borghesia occidentalizzata. In Iran la sua re-introduzione (lo Scià Reza Pahlavi lo bandì infatti nel 1936 perché considerato incompatibile con l'ammodernamento - da leggersi più come "occidentalizzazione" - del paese) ebbe anche una forte connotazione politica: indossarlo, infatti, significava protestare contro i valori occidentali che lo Scià tentava di introdurre nel paese.
- Niqab: caratteristico dei paesi musulmani sunniti (cioè la quasi totalità dei paesi, i cui credenti si considerano l'ortodossia islamica, in quanto - secondo loro - veri depositari della "tradizione" del Profeta) quello "classico", come quello egiziano, è nero e pesante, costituito da un velo che copre la parte alta della testa ed un altro velo che copre i lineamenti del volto.
- Burqa: tipico della zona afghana, è costituito da una tunica che copre integralmente il corpo, lasciando la possibilità di intravedere attraverso una retina posizionata all'altezza degli occhi. Sicuramente il velo più controverso, viene introdotto all'inizio del '900 durante il regno di Habibullah, che impose questo particolare indumento per evitare che gli uomini potessero avere tentazioni con le 200 donne del suo harem.
Dovremmo aver capito a questo punto, che il velarsi – oltre a non essere invenzione islamica – è un modo per difendere la donna da possibili “sguardi indiscreti”, e proprio evidenziando questo termine – “sguardo” - si può capire l'utilità della retina sugli occhi: a noi viene detto come si vive dentro un burqa in questi giorni, con patetici tentativi di spiegare una consuetudine di una cultura non nostra senza raccontarci anche il contesto che ha permesso a quella cultura di arrivare a quella particolare tradizione. Evitiamo ipocrisie: a quanti maschi – di quelli che ancora credono alla figura del “macho”, dell'uomo padrone sulla donna – farebbe comodo “burqare” le proprie donne, così da essere gli unici a poterle vedere? Si eviterebbe, ad esempio, di andare in giro e fare scenate di gelosia per uno sguardo scambiato tra lei ed i passanti di sesso maschile. Ed ecco spiegato il motivo della retina: evitare giochi di seduzione attraverso lo sguardo! Vi sembra ancora così “strano”, alla luce di ciò?
Riprendo i due punti lasciati in sospeso fin qui: il concetto stesso di velarsi come forma di rispetto (per le credenti islamiche il rispetto verso Allah) a noi non è così sconosciuto: quante donne, in particolare le signore anziane, hanno la consuetudine di velarsi il capo durante i funerali o le messe per portare rispetto al defunto o al dio in cui credono? Al Nord forse non è più così, ma se come me venite dal meridione ve ne potreste tranquillamente rendere conto. Credo sia qualcosa legato al pudore – verso uno sconosciuto o verso una divinità, qualunque essa sia – questa di mostrare il rispetto attraverso l'atto di coprire il proprio corpo.
Per cui se dobbiamo davvero leggere tutta la diatriba in chiave religiosa, io – non credente – non ci vedo niente di così deplorevole in un atto simile ma, di contro, ci vedo il palesarsi di una forte religiosità, se poi ci si rivolga a Dio, Allah o ad altri è solo una questione puramente geografica.
Il caso. Lei si chiama Mahinur Öezdemir, è una ragazza islamica come tante altre, una che – come tante altre – porta l' hijab. Ha una particolarità però: è membro del Parlamento Regionale di Bruxelles e si è presentata alla seduta inaugurale della sua assemblea a capo coperto, giurando di rispettare la costituzione (come da prassi) senza che ciò scatenasse interrogazioni parlamentari di alcun tipo. Lo stato belga si dichiara neutrale in ambito religioso, ma naturalmente il dibattito è apertissimo. Non so se le sarebbe stato permesso di entrare con il velo nel Parlamento francese, so per certo che in Italia se ne sarebbe dibattuto perlomeno da un mese prima dell'evento, con le solite bordate del partito dei “filo-parrocchia” - quelli cioè, come la Binetti, che si fanno comandare dal Vaticano anche con quale piede alzarsi la mattina - che non fanno altro che fare esattamente quel che denunciano sia fatto dagli “altri” (da intendersi come “quelli brutti, sporchi, cattivi e stupratori degli arabi”). Forse non ce ne accorgiamo, troppo presi dal capire se i capelli di Berlusconi sono veri o fasulli o intenti a dibattere sull'opportunità di Noemi Letizia di andare in televisione (ma non vi sentite ridicoli ad andare appresso a queste cazzate?), ma questo partito, quello stesso che tempo fa apostrofò come “assassino” Beppino Englaro che chiedeva solo il fine pena per una figlia che soffriva da 17 anni (ma nel paese dell'ergastolo – cioè del fine pena mai - è logico che si applichi il concetto anche in altri ambiti...) è un partito ben più forte di PdL, Pd, Udc messi insieme. Possibile che non ve ne rendiate conto? Non so in Francia, ma conoscendo il mio paese, potrei quasi dar per certo che la questione burqa sia stata utilizzata in chiave ideologica non solo dalla Lega (secondo la quale saremmo di fronte all'inizio di una nuova dominazione islamica...) ma anche, e soprattutto, dal Vaticano, cioè dal vero governo di questo paese.
«È vietato l'uso di qualsiasi mezzo che non renda visibile l'intero volto, in luogo pubblico o aperto al pubblico, inclusi gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa
». Questo dovrebbe essere il testo della fatwa leghista (per chi non lo sapesse: con il termine fatwa si definisce, nella cultura islamica, il decreto di carattere religioso promulgato dai dotti islamici, che regola questioni di attualità) voluta da Roberto Cota, Manuela Dal Lago e Carolina Lussana della Lega Nord – d'accordo, non proprio dei “dotti” e tantomeno islamici – a modifica dell'art.5 della legge 152 del 1975, che vieta(va?) l'uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento di una persona senza giustificato motivo.Secondo Lussana poi, oltre a garantire l'egualitarismo nel rispetto della legge nazionale, questa norma servirà per fronteggiare la minaccia terroristica della jihad islamica. Perché tutti sappiamo che il vero problema del terrorismo di alcuni movimenti arabi (che in occidente viene opportunamente identificato con un fantomatico terrorismo di matrice religiosa) non sono i kamikaze (e chi li rifornisce, solitamente industrie o multinazionali che producono armi qui in Occidente...); nossignore: il vero problema del terrorismo è il velo! Quindi rendendo illegale il velo in Italia e in Francia avremo debellato il problema terroristico! Per cui io invito gentilmente tutte le donne islamiche in questi due paesi a spogliarsi – letteralmente – di questo orpello religioso, così i grandi paesi ricchi potranno far rientrare a casa i militari inviati in Afghanistan ed in Iraq per esportare la democrazia! Quasi me ne dimenticavo: dovrebbero rientrare anche le imprese che sono in quei paesi per rubare risorse come il petrolio o l'oppio, naturalmente.
Una multa che può arrivare fino a 2 mila euro e la carcerazione fino a 2 anni: è questa la pena comminata dal trittico di verde vestito qualora si trovasse qualcuno in flagranza di reato. Come al solito in Italia si mandano in carcere i “poveracci”, i “ladri di galline” e si lasciano liberi i veri criminali (liberi ovviamente di fare i parlamentari, leggasi caso Cosentino).
Come funziona negli altri paesi europei. In Italia e Francia abbiamo già visto – più o meno – che aria tira in merito al divieto del burqa. E negli altri paesi? In Belgio, come accennato prima, non esistono leggi di carattere nazionale che regolino la questione, ma si fa spesso appello ad ordinanze locali indirizzate lungo la via repressiva. Stesso dicasi per l'Olanda e la Danimarca, improntate però più su un divieto relegato al campo del settore pubblico. Spicca invece la Gran Bretagna che ha affermato di non avere intenzione di legiferare in materia, demandando la decisione ai direttori delle scuole (che ovviamente possono “legiferare” solo per quanto riguarda la vita all'interno degli istituti scolastici che sono chiamati a guidare).
Si calca molto la mano, in Italia, sul problema “sicurezza”, adducendo la tesi che sotto il burqa o il niqab, non riuscendo a vedere, si potrebbe nascondere una bomba o qualche arma. Preoccupazione legittima, se quegli abiti fossero “pelle”, fosse cioè impossibile toglierli. Come ho avuto modo di appurare in questi giorni seguendo vari dibattiti – sia in televisione che sulla carta stampata – il precetto di velarsi impone anche, qualora richiesto da un'autorità, di svelare il proprio viso, per cui nel caso di donna “burqata”, sarebbe semplice appurare se, ad esempio, l'identità dei documenti corrisponda all'identità di chi li presenta: basterebbe chiederglielo! Ma naturalmente fa più comodo far passare l'idea che lì sotto, sotto quei tessuti, ci siano schiere e schiere di donne kamikaze. «Chi me lo dice che c'ha sotto?» si chiede l'uomo della strada dopo aver opportunamente squadrato l'”E.T.”di turno. Domanda che non sarebbe neanche immaginabile se la nostra retriva cultura non fosse fondata sul sospetto verso tutto ciò che è “diverso” (e qui si aprirebbe una questione che non è il caso di aprire in questa sede). Alla luce di quanto ci ha mostrato una giornalista di Repubblica che ha girato per Milano con il burqa io mi chiedo se passi più inosservata una donna vestita alla maniera islamica oppure una donna con minigonna e borsetta (utilizzando lo stesso metro di giudizio di chi chiede cosa c'è sotto al burqa ci si potrebbe chiedere quali armi possa contenere la borsa di una ragazza, che spesso assomiglia più alle tasche senza fondo di Eta Beta).
È tutta una questione culturale. E nell'asserire ciò trovo inaspettata sponda nel think thank di Gianfranco Fini, cioè la Fondazione FareFuturo che sul suo magazine qualche giorno fa definiva che è giusto proibire l'utilizzo del burqa – d'altronde stiamo sempre parlando di un organo di destra/centro-destra – ma non è con l'imposizione (o con la repressione) che si risolve un problema che è prima di tutto di natura culturale.
Ammettiamo per un attimo che il velo non sia legato alla sfera del libero arbitrio della donna ma ad un'imposizione puramente culturale che deve essere modernizzata. Con quale modello culturale dovremmo modernizzarlo o – meglio ancora – sostituirlo?
Scriveva bene Lidia Ravera ieri su L'Unità: «(...)se vogliono stare nei nostri civilissimi Paesi che si mettano anche loro minigonna e push-up, mostrino il culo, mostrino il seno, come facciamo noi, che abbiamo conquistato la libertà di farci valutare al primo sguardo. Noi sì che sappiamo come si trattano le donne. Diamo "Pari Opportunità" alle immigrate. Vietiamo loro di essere diverse da noi.(...)Tutte velate, vuole la Legge Coranica. Tutte svelate, vuole la Legge Italica. Le donne immigrate nel nostro Paese (...)non devono passare dalla tutela dei khomeinisti a quella dei Leghisti, dalla persecuzione dell'integralismo islamico a quella della presunta superiorità morale occidentale».
Una giustificazione – a mio parere di pura matrice razzista – in merito al divieto di burqa è che siccome noi, quando andiamo nei loro paesi, dobbiamo coprirci (o comunque sottostare alle loro leggi) quando loro vengono da noi devono sottostare alle nostre. Ma se è così fastidiosa questa imposizione nel dover cambiare abitudini andando in giro “troppo coperte” non sarà il caso di rimanere tranquillamente a casa propria, essendo evidentemente capaci di sottostare esclusivamente alla propria cultura di appartenenza e non ad altre? Se considerassimo anche solo per un istante l'idea che la nostra cultura non è né la cultura dominante nel mondo tantomeno la migliore, potremmo iniziare a considerare l'esperienza di una donna che ci ha raccontato quello stesso mondo islamico osservando con molto rispetto quella cultura senza che eventuali fastidi si evincessero dai servizi che inviava in Italia. Mi riferisco ad Ilaria Alpi, di cui ho una nitidissima immagine – vista in qualche video su internet – di uno dei suoi tanti viaggi in Somalia a parlare con le donne, quelle donne che spesso aveva raccontato al Tg3, con il velo bianco in testa, proprio a testimoniare il grande rispetto che aveva nei confronti di una cultura che magari non condivideva in pieno – penso ai suoi servizi sulle mutilazioni genitali femminili – ma che sicuramente rispettava. Perché a differenza di gran parte di noi lei non aveva quella spocchia imperialista per cui la nostra cultura doveva essere la cultura nella quale non esisteva, e non esiste, uno spazio per una visione diversa.
Ed a proposito di visioni, mi chiedo perché tutte le donne che oggi si dichiarano contrarie al burqa non proferiscano parola di fronte alla nostra, di cultura. Di fronte cioè ad una cultura machista per la quale spesso il concetto di donna è ancora quello di donna-oggetto, per cui ci scandalizziamo se una donna è troppo coperta, ma non diciamo nulla di fronte ad una sfilata di intimo, anche se vediamo sfilare ragazze la cui maggiore età è spesso lontana dal venire.
È questa la libertà che vogliamo dare a queste donne? Vogliamo dar loro la libertà di essere squadrate da testa a piedi, indipendentemente dalle loro abilità intellettive? Vogliamo davvero che l'unica identità sociale, qui nel “buono e giusto” Occidente, derivi loro solo dal mostrare, dall'ostentare ogni minimo particolare del loro corpo? È davvero “libertà” questa? Diciamo spesso che l'imposizione islamica del burqa è una cosa “da bestie” (parola che in questo periodo stiamo iniziando ad utilizzare troppo spesso, forse perché ci sentiamo tali e dobbiamo accusare gli altri per sentirci migliori) ma qual'è la differenza con una cultura – la nostra – nella quale il valore di una ragazza viene misurato solo sul piano fisico, e per questo la si addestra ad una missione che durerà tutta la vita tramite diete e consimili (per non parlare delle modifiche per via chirurgica), cioè piacere agli uomini? Non è anche questo, in qualche modo, imporre un “burqa”, una “divisa” alle donne?
Da questo lato del mondo – agli antipodi del burqa, per citare un'interessante trasmissione di Alessandro Sortino – la cittadinanza di un corpo passa sempre e solo per la sua esibizione e quindi coprirlo per scelta, forse, altro non è che il tentativo di farsi giudicare non per il proprio fisico, ma solo per la propria interiorità. Cosa che anche noi, qui nel giusto mondo occidentale dovremmo imparare a fare.