"Voglio la verità sull'omicidio di Iendi Iannelli e Stefano". Intervista a Barbara Siringo

foto: profilo personale di Barbara Siringo; fonte: facebook

Roma - Nelle scorse settimane abbiamo iniziato a parlare del ruolo italiano in Afghanistan, svelando sia un'attività militare – come risulta dai cables di Wikileaks – ben più ampia di quanto ci è sempre stato raccontato che il nostro ruolo all'interno della cooperazione internazionale.
In quest'ultimo ambito, in un tragitto che collega idealmente l'Afghanistan con la Somalia della metà degli anni Novanta, dei rifiuti tossici e degli omicidi di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Vincenzo Li Causi, la domanda da porsi è la stessa che portò la giornalista del Tg3 a Mogadiscio: che fine hanno fatto i soldi della cooperazione italiana?

A questa domanda hanno tentato di rispondere due ragazzi romani, Iendi Iannelli e Stefano Siringo, arrivati in Afghanistan nell'ambito del “Progetto Giustizia” - il piano di ricostruzione del sistema giudiziario afghano - e trovati morti nella loro camera alla Guest House di Kabul il 16 febbraio 2006.
Ne abbiamo parlato con Barbara (nella foto), sorella di Stefano che da quel giorno si batte affinché la verità sull'omicidio – di cui parleremo approfonditamente nei prossimi giorni – venga chiarita.

Partirei innanzitutto parlando di Stefano: chi era e perché era andato in Afghanistan?
Stefano era la persona più vitale che io abbia mai conosciuto! Era pieno di interessi e sempre circondato da amici, sempre allegro e pronto allo scherzo, abituato a non abbattersi mai anche di fronte alle grandi prove che nella sua pur breve vita si è trovato ad affrontare. Nel 2004 l’allora ministro degli Esteri Gianfranco Fini (si conoscevano perché abitavano nello stesso condominio), informandosi sui suoi studi (gli mancavano pochi esami alla laurea in legge) e sui suoi progetti, gli propose un colloquio al Dipartimento della Cooperazione Internazionale per un’eventuale collaborazione all’estero.
Stefano adorava viaggiare, non come semplice turista ma spinto dalla curiosità di conoscere altri popoli, le loro condizioni di vita, le loro usanze ed abitudini; accettò con entusiasmo la proposta, ne era lusingato. Fu così che – nel marzo 2005 - gli venne assegnata una prima missione a Kabul come logista per il Progetto Giustizia, che si occupava di sostenere la creazione di un impianto giudiziario indipendente in Afghanistan. La missione durava 4 mesi ma, poiché il suo lavoro venne molto apprezzato, l’ambasciatrice Brunetti (titolare del progetto) ne richiese per ben due volte il rinnovo che venne concesso dal Dipartimento. Quando morì era alla sua terza missione a Kabul, sarebbe stata l’ultima ed il suo rientro era previsto per maggio: dal Ministero gli avevano prospettato la possibilità di lavorare in America Latina, paese che Stefano adorava e dove aveva deciso di andare a vivere.

Ad un certo punto, dopo che suo fratello le dice di avere informazioni che non può darle per telefono né attraverso internet, succede che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Cosa si prova a sentirsi etichettare il fratello come tossicodipendente pur sapendo che è una falsità?
Quando ho conosciuto gli esiti dell’autopsia ho voluto esaminare la situazione con distacco, cercando di non farmi coinvolgere dai sentimenti. Mi rendevo conto che Stefano viveva ormai da un anno a Kabul, e in un anno le persone – soprattutto in condizioni di vita difficili – possono cambiare. Stefano non aveva mai fatto uso di droghe pesanti ma non potevo avere la certezza che non fosse cambiato. La mia priorità, da quando arrivò la terribile notizia, era conoscere la Verità, qualunque fosse. Solo in seguito, verificando dagli atti e dalle testimonianze della gente che aveva lavorato insieme a lui in quel lungo periodo che non esisteva neanche una lontana possibilità che avesse iniziato a consumare eroina, ed insospettita per i continui ritardi e “intoppi” delle indagini, iniziò a montare la rabbia. E se anche le carte ed i referti autoptici avessero rivelato la tossicodipendenza di Stefano (e così non è stato) era palese che insieme al suo amico Iendi Iannelli erano stati vittime di un omicidio. Il continuo insistere sulla loro presunta tossicodipendenza portò alla luce le reali intenzioni di chi si stava occupando della vicenda: nascondere la Verità.

Cosa avete provato, lei e i suoi familiari, fino a che il Giudice per le indagini preliminari, Rosalba Liso, ha accertato che Stefano e Iendi sono stati uccisi?
Questi quasi sette anni sono stati intrisi di dolore, incertezza e speranza che “qualcuno” esaminando onestamente gli atti capisse cosa fosse realmente successo e lo riconoscesse. Sette anni. Nella prima udienza la GIP ha ascoltato con attenzione l’arringa del nostro avvocato Luciano Tonietti, ha esaminato tutte le carte in atti, ha chiesto accertamenti ed ulteriori indagini. Ha, in questo modo, costretto gli inquirenti ad approfondire i lati oscuri di questa vicenda. E, malgrado i pietosi tentativi di dare un significato diverso a quanto ormai emergeva dai nuovi accertamenti, ha saputo leggerne i risultati in maniera oggettiva ed è arrivata all’unica conclusione possibile. L’emozione è stata fortissima: da un lato il sollievo per aver vista riconosciuta l’evidenza dei fatti, dall’altro l’amarezza perché questo duplice delitto – visti i tempi biblici delle indagini ed il loro pessimo svolgimento – non vedrà mai puniti i colpevoli, mandanti ed esecutori.

Due episodi sembrano essere particolarmente inquietanti in questa vicenda, dandone una lettura diversa da quella che si vuole far emergere. Il primo aspetto è il comportamento della famiglia di Iendi Iannelli, che si è completamente disinteressata della vicenda (confermando che lo stesso era un tossicodipendente, cosa non vera*come dichiarato da chiunque lo conoscesse e confermato dal decreto di archiviazione del gip). Che idea si è fatta in merito?
Il padre di Iendi lavorava nei Servizi Segreti. Il fratello, Ivano, come è stato chiaramente dichiarato nelle testimonianze (non riportate in atti ma fortunatamente registrate nell’inchiesta che le ho inviato) era stato l’artefice del famoso “protocollo informale” stipulato tra IDLO (dove Iendi aveva preso il posto prima occupato dal fratello) e la UNOPS (dove lavorava Ivano). Si parla di un accordo per circa 10 milioni di dollari di fondi destinati al Progetto Giustizia che avrebbero preso un’altra strada. Quando incontrai il padre di Iendi cercò di convincermi che “i ragazzi avevano esagerato” e mi ricordo che gli risposi che secondo me si era trattato di un atto dimostrativo. Ivano dichiarò urbi et orbi che il fratello aveva problemi di droga (Iendi era un ex rugbista astemio che non aveva mai toccato droghe pesanti). La sensazione, ancora forte dopo tanti anni, è che sia il padre che il fratello erano perfettamente a conoscenza dei motivi della loro morte e che, in un certo senso, ne fossero coinvolti se non altro per non aver fatto nulla per evitarla. Ad oggi non ho avuto ancora il piacere di sentire la loro versione e nessun inquirente incaricato delle indagini ha mai convocato Ivano Iannelli, se non altro per farsi spiegare il motivo delle sue dichiarazioni.

Il secondo aspetto particolare di questa vicenda è il comportamento tenuto dal pubblico ministero Luca Palamara. Anche in questo caso, cosa ne pensa?
Il Pubblico Ministero in questa vicenda ha fatto il lavoro della pubblica accusa, non certo quello che in una sua intervista del gennaio 2011 dichiarava con convinzione: "I magistrati svolgono il loro difficile compito con serietà e rigore, nel pieno rispetto delle norme processuali e dei diritti delle persone coinvolte, con l'unico scopo di accertare i fatti." In questo caso il Dottor Palamara ha dimostrato con tenacia di non volere accertare i fatti; non mi spiego altrimenti l’assenza negli atti di importanti testimonianze, o l’ennesima richiesta di archiviazione per “morte in conseguenza di altro reato” malgrado il reato iscritto fosse stato variato in “omicidio volontario” con l’ordinanza del GIP. Stranamente però, non ha mai ritenuto doveroso spiegare “come” secondo lui fossero morti i due ragazzi; non si è mai presentato a nessuna delle 3 udienze e non ha mai rilasciato dichiarazioni che servissero a conoscere le sue ipotesi sulla vicenda. Sappiamo solo che per lui Stefano e Iendi erano due tossicodipendenti, ma non ha mai sentito il bisogno di spiegarci le modalità che ritiene abbiano portato alla loro morte.
Preferisco non dare giudizi su questo “modus operandi” perché sono troppo coinvolta e potrei non essere oggettiva; ritengo tuttavia che il mio diritto incontestabile di conoscere la dinamica dell’accaduto ipotizzata dal P.M. sia stato disatteso.
Il Dottor Palamara è incaricato anche dell’inchiesta sulla misteriosa morte del carabiniere Cristiano Brigotti avvenuta ad Algeri nel dicembre 2006. Anche in questa terribile vicenda c’è una famiglia che aspetta di conoscere “come e perché” sia morto il loro congiunto.

In più, le arriva la negazione del risarcimento da parte dei Lloyd's..
Quella è stata la ciliegina sulla panna di questa torta ormai rancida. Le motivazioni addotte dall’avvocato Roberta M. Battaini – dello studio legale che tutela le assicurazioni Lloyd’s – sono assolutamente campate in aria, un tentativo ridicolo di riscrivere gli accordi contrattuali siglati con il Ministero degli Esteri. La dottoressa Battaini arriva a negare che i Lloyd’s assicurino la morte in caso di omicidio ma ritiene che avrebbero sicuramente liquidato il premio concordato se Stefano fosse morto in seguito ad un infortunio. Insomma: se Stefano, cadendo dalla bici mentre girava spensierato per Kabul, fosse morto sbattendo la testa i Lloyd’s non si sarebbero opposti al risarcimento. Al contrario, poiché Stefano è stato ucciso nella stanza di una Guest House a causa di ciò che lui e Iendi avevano scoperto su un grave peculato ai danni del Progetto Giustizia (cioè del Ministero degli Esteri, cioè dei contribuenti italiani), ritengono che il risarcimento non sia dovuto.
Stranamente però, pur ritenendosi convinti della correttezza dell’interpretazione del contratto data dalla dottoressa Battaini, hanno contattato telefonicamente i nostri legali per proporre meno della metà della cifra pattuita con il Ministero. Alla richiesta, da parte dei legali, di formulare per iscritto questa proposta, si sono nettamente rifiutati.

Secondo le impressioni che ha avuto in questi anni: perché non si vuole arrivare alla verità?
Visti gli sforzi prodotti in tal senso per ben 7 anni ho ragione di ritenere che questa vicenda nasconda qualcosa di veramente grosso che potrebbe coinvolgere qualche personaggio di un certo rilievo della politica italiana.
Nel 2008, in seguito ad un’inchiesta svolta dall’ONU nei confronti dell’UNOPS, è stata accertata un’importante distrazione dei fondi destinati al Progetto Giustizia in Afghanistan da parte di un dirigente dell’epoca – tale Gary H. Helseth – motivo per cui venne licenziato in tronco.
Questo Helseth era in ottimi rapporti con il suo sottoposto Ivano Iannelli ma nessuno ha mai pensato di approfondire con lui la questione.
Dopo poco anche Ivano Iannelli lasciò la UNOPS.
Chissà se, ora che è aperto un fascicolo per peculato, qualcuno riterrà interessante chiedere a chi in quegli anni operava in UNOPS i dettagli di questo famoso “protocollo”. Magari si potrebbe arrivare a conoscere con esattezza il contesto e le motivazioni legate all’omicidio dei nostri fratelli. Io vorrei che fossero finalmente noti i motivi e la dinamica di questo duplice omicidio, chissà se è interessata anche la famiglia di Iendi…

Le ricostruzioni fatte sui giornali descrivono sempre un ruolo di “secondo piano” per Stefano, come se si fosse “semplicemente” trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Leggendo i documenti sembra un po' meno casuale che sia stato ucciso anche lui. Penso anche alla sparizione dei tabulati telefonici o ai buchi descritti nell'autopsia dei quali, diversamente da quanto scritto da alcuni giornali, non sembrano essere stati trovati su Iendi.
Io credo che Stefano fosse a conoscenza di quanto aveva scoperto Iendi sulle doppie fatturazioni tra IDLO e UNOPS. Tra lui e Iendi si era creata una bella amicizia e passavano insieme tutto il tempo libero: sono certa che Iendi avesse confidato anche a Stefano l’esito delle sue ricerche. Quella sera, come tante altre, erano insieme perché in Guest house avevano wi-fi e satellite e potevano quindi chattare con gli amici italiani e vedere un po’ di tv. Per quanto riguarda il referto autoptico di Iendi, anche io sono rimasta stupita dell’assenza di note relative ai prelievi che avevano subito già a Kabul (come descritto dai carabinieri). E’ anche vero che al momento dell’autopsia di Iendi era presente un perito incaricato dalla famiglia e curiosamente non venne annotato che Iendi aveva mezzo polmone in meno ed una protesi alla mandibola (entrambi a causa di un tumore che lo aveva aggredito anni prima e dal quale era completamente guarito). Leggendo i referti sembrerebbe l’autopsia di una persona mai colpita da una malattia così grave.

Le autopsie sembrano essere state fatte in maniera lacunosa, tanto che - come scrivete nella memoria difensiva - "non esiste alcuna certezza sia sul giorno che sull'ora, almeno presunta della morte". Perché secondo lei si è proceduto in questo modo? Sorge il dubbio, avendo un quadro più dettagliato della vicenda, che non da Kabul fosse partita la necessità di tappare la bocca a Stefano e Iendi, quanto da palazzi più vicini a noi come quelli delle istituzioni romane. Sono mai state fatte ipotesi in tal senso?  
Già il certificato di morte redatto a Kabul dai medici dell’ospedale militare tedesco dove i corpi subirono un primo esame non riporta un’ora presunta della morte: viene solo annotata la data del 16 febbraio 2006 – giorno della scoperta – ma non viene compilato lo spazio relativo all’ora dei decessi. L’idea che mi sono fatta – visto anche l’atteggiamento tenuto dalle istituzioni in questi anni – è che realmente ci sia stato un ordine “superiore” teso a nascondere l’enorme distrazione di fondi ai danni dell’Italia; ed il fatto – assai strano – che il Ministero degli Esteri non si sia costituito parte lesa né nell’inchiesta sul peculato, né una volta accertato l’omicidio dei ragazzi, non fa che consolidare i miei sospetti.

Perché, secondo lei, Vincenzo Lattanzi e Angelo Guadagni nelle deposizioni danno delle versioni evidentemente smentite dai fatti, come la storia della  posizione della chiave della stanza?
Bisogna capire il loro stato d’animo. Angelo Guadagni aveva ospitato Stefano nel suo appartamento nei primi mesi dal suo arrivo. Lavoravano nella stessa stanza, insieme tutto il giorno, ed Angelo lo trattava come un figlio. Angelo si accorse per primo della morte dei ragazzi, una volta entrato nella stanza, ma venne ascoltato solo poche ore dopo la scoperta, quando era ancora sotto choc. Ulteriori richieste da parte nostra, ed anche da parte del GIP se ben ricordo (ma devo verificare), di chiedere una nuova deposizione con domande più mirate ai dettagli non sono mai state accolte dal PM Palamara.
Quando Angelo venne a trovare mio padre a Roma ci descrisse con più dovizia di particolari quella terribile mattina e fu più preciso nel ricordare i suoi gesti: ricordava, ad esempio, di aver rotto il pannello laterale in vetro della porta per cercare la chiave all’interno e poterla aprire. Ma la chiave non c’era e fu costretto a sfondare la porta. Nella sua testimonianza parla di una terza persona presente in quel momento e qualificatasi come “appartenente alla sicurezza della guesthouse” che aiutò lui e Lattanzi a sfondare la porta.
Per quanto riguarda Lattanzi, che ho conosciuto quando sono andata a Kabul, mi è sembrato un tipo molto riluttante a prendere una posizione o ad esprimere un parere in merito alla vicenda. Anche lui conosceva bene Stefano ma mi ha dato l’impressione di aver timore di parlare dell’accaduto, un tipo che voleva farsi i fatti suoi.
La chiave comunque venne “ritrovata” sul pavimento all’interno della stanza proprio in prossimità della porta. La posizione della chiave ci ha fatto venire il sospetto che sia stata “posata” lì da qualcuno che è entrato nella stanza dopo la scoperta dei corpi: se fosse caduta in seguito all’abbattimento della porta – tesi su cui insistette il P.M. – secondo il nostro modesto parere e per le leggi della fisica, sarebbe stato assai più probabile ritrovarla più verso il centro della stanza, non così vicina alla porta. Ipotesi comunque improbabile visto che si trattava di una chiave dentellata e sarebbe stato più realistico ritrovarla ancora inserita nella serratura.

Perché Ruiz, Ergashev e Buscaglia, coloro che avrebbero potuto ricostruire dettagliatamente il movente, non vengono mai ascoltati?
Gonzalez-Ruiz e Buscaglia sono stati ascoltati dopo tantissimo tempo e solo in conseguenza dell’ordinanza del GIP. Già da anni, da quando abbiamo avuto gli atti a disposizione, io ed i miei legali avevamo richiesto con diverse memorie difensive e persino nelle opposizioni di contattare questi due importanti testimoni agganciandoci anche ai suggerimenti del nucleo investigativo dei carabinieri che esprimevano nella loro relazione la necessità di ascoltarli. Ma prima delle richieste del GIP il PM Palamara non ha mai ritenuto utile ascoltarli. Le dirò di più: poiché in un paio di occasioni i carabinieri dichiararono di non riuscire a contattarli, fui io stessa a metterli in contatto con loro dimostrandogli che – a differenza di quanto avevano dichiarato in atti – sia Gonzalez-Ruiz che Buscaglia erano reperibilissimi.
Per quanto riguarda Ergashev non hanno semplicemente neanche provato a cercarlo, malgrado io stessa abbia fornito loro i suoi indirizzi e-mail trovati senza problemi in internet.

Infine, è mai entrata in contatto con il giudice Zeuli per chiedergli il perché di quella dedica sul Codice Penale?
Ho conosciuto personalmente il giudice Zeuli che mi ha spiegato di aver lavorato qualche mese a Kabul insieme a Stefano e di essere rimasto colpito dalla sua allegria. Ricorda sempre che, in un momento di smarrimento, confidò a Stefano di temere per sé e per la sua famiglia e Stefano lo incoraggiò dicendogli che “nelle guerre sono sempre i soldati a morire e non gli ufficiali”. Quando Stefano e Iendi furono trovati morti Zeuli era già tornato in Italia ma rimase dolorosamente colpito dalla notizia. La sua dedica viene pubblicata ogni anno sull’edizione del Codice Penale perché era ed è convinto che Stefano fosse un bravo ragazzo.

[1 - Continua domani]