Falsa bandiera sudcoreana?

Nell’agosto del 1964 il trentaseiesimo Presidente degli Stati Uniti d’America Lyndon Baines Johnson dava il via alle operazioni che sarebbero diventate famose non solo come “guerra del Vietnam”, ma anche come una tra le peggiori – insieme alla Somalia del ‘92 – sconfitte militari della storia degli estadounidensi.
Il casus belli, cioè l’episodio che aveva rotto gli argini e aveva fatto prendere la decisione all’establishment americano di addentrarsi nella giungla vietnamita fu il c.d. “incidente del golfo del Tonchino”, quando – narra la leggenda – il cacciatorpediniere a stelle e strisce USS Maddox (DD-731), in missione di ricognizione nel suddetto golfo, venne attaccato da alcune motosiluranti nordvietnamite, che avevano scambiato il cacciatorpediniere per un vascello sudvietnamita. Piccolo particolare: l’incidente non è mai avvenuto. L’ha detto persino l’allora Ministro della Difesa McNamara. Certo, l’ha detto dopo quarant’anni, ma meglio tardi che mai no?
Oggi la storia sembra – o almeno sembrerebbe – ripetersi: è di queste ore infatti l’accusa lanciata dalla Corea del Sud dell’affondamento della corvetta Cheonasang avvenuto circa tre mesi fa e che ha causato la morte di 47 marinai. E di questo, dicono i sudcoreani in conferenza stampa, ci sono anche le prove. Ecco, sì…a proposito delle prove: io non sono un esperto di armamenti, ma credo che sia facilmente intuibile quanto il disegno non corrisponda alla “pistola fumante”:




Non sono un esperto, ripeto, e dunque la prima domanda che mi è venuta in mente appena ho visto le foto è stata: e il pezzo “3” nel disegno dov’è? Le risposte che mi sono dato sono state una di natura dolosa e l’altra di natura colposa, cioè o che i sudcoreani ne capiscano quanto me di questa roba, ignorando tranquillamente che il disegno non corrisponda alla “reliquia” (natura colposa) oppure che siamo dinanzi ad una riedizione dell’”attacco” del Tonchino (natura dolosa). Ma in questo caso sorgerebbe un’ulteriore domanda: quale utilità ne deriverebbe da un auto-attentato?
Innanzitutto partiamo da una questione che conosciamo benissimo anche noi in Italia: l’ingerenza militare a stelle e strisce sul territorio nazionale. Il nostro problema principale si chiama “Dal Molin”, cioè la base che – con il placet di ambedue i versanti politici – gli americani vogliono allargare per far diventare lo stivale il punto di lancio del loro attacco al Medio e lontano-Oriente; quello delle popolazioni con gli occhi a mandorla si chiama base di Okinawa (Giappone).
Cambiano i nomi, cambiano i territori e le geografie ma il risultato è sempre lo stesso: un secco rifiuto da parte delle popolazioni a questo tipo di ingerenza. Posizione ovviamente antitetica a quella dei fidi (per la Casa Bianca) governi, che vedono di buon occhio la militarizzazione da parte di forze straniere del proprio territorio. L’unica differenza tra la nostra situazione e quella giapponese è che il popolo nipponico ha dato il fatidico aut-aut al premier: o chiudi la base oppure puoi prenderti una lunga vacanza presso lo zio Sam, lunga più o meno il resto dei tuoi giorni. Mentre noi a mala pena conosciamo la situazione.
Cosa c’entra il Giappone con la Corea del Sud? C’entra più o meno quanto il numero di chilometri – in linea d’aria – che separano le due nazioni. Cioè la distanza che impiegherebbero corpi militari di stanza ad Okinawa per arrivare in Corea del Sud nel caso ci fosse un’escalation nei rapporti con i fratelli-coltelli del Nord. Oltre a questo, poi, è noto che il Pentagono lamenti da un po’ la scarsità di carne da macello da mandare in guerra, motivo per il quale le alte gerarchie americane stanno rivalutando la possibilità di un disinteresse – e quindi una riduzione delle unità – nell’area, magari a favore di un Medio Oriente nel quale l’affaire-Iran è catalogato ancora alla voce: “problemi irrisolti”, cosa che – per il motivo appena descritto – andrebbe a discapito proprio della Corea del Sud, che dunque ha tutto l’interesse a far rimanere gli U.S.A. nell’area.
Ci sarebbe poi anche un altro aspetto inerente alla base, che però va più pro domo statunitense che non sudcoreana: un controllo ravvicinato sulle velleità espansionistiche (non solo in termini geografici…) di potenze quali lo stesso Giappone e – soprattutto – la Cina. Ma qui, come dicevano una volta a scuola, si rischia di andare fuori tema…
Non sono mancate – e come potrebbero? – le dichiarazioni di simpateticità verso la posizione sudcoreana, attaccata dal dittatore Kim Jong Il. Le prime sono arrivate dalla Casa Bianca, dalla Gran Bretagna e dalla NATO.
Tra le tre la più comica – di quella comicità del filone demenziale nella quale l’Italia spesso eccelle – è stata sicuramente quella di Washington: «Questa aggressione è un altro caso dell’inaccettabile comportamento della Corea del Nord e del suo rifiuto di rispettare le leggi internazionali». Il classico caso in cui il bue dà del cornuto all’asino insomma. Anche i britannici suscitano un sorriso, quando sostengono che «l’attacco dimostra totale indifferenza nei confronti della vita umana», come ha detto il Ministro degli Esteri William Hague. Mi chiedo cosa ne pensi il popolo britannico, costretto a vedere molti dei propri giovani morire a migliaia di chilometri di distanza per la pazzia di due uomini politici, uno dei quali è stato loro Primo Ministro fino a qualche anno fa (domanda pruriginosa: perché né Bush jr né Blair sono comparsi di fronte al Tribunale Internazionale de L’Aja? Possiamo essere sicuri della indiscutibile obiettività di tale organo internazionale?). Sulla dichiarazione a firma Patto Atlantico evito ogni commento, visto che – come più volte ho ribadito dal blog – i locali della NATO servono solo come giardino per Bo, il cagnolino della famiglia Obama.
Alla luce di quanto detto rimangono ancora un paio di domande, alle quali però sto ancora cercando le risposte: che l’attacco nordcoreano sia in realtà un’operazione “false flag”? Ed in questo caso chi ne è l’ideatore: i nordcoreani o l’intelligence americana?