Immaginate poi che quello stesso cyberdissidente riceva nel giro di un anno moltissimi premi internazionali tutti riconducibili ad organi di informazione che fanno capo a paesi od organizzazioni degli Stati Uniti d'Europa. Cosa vi viene da pensare? Che ci sia una stretta correlazione tra le due cose, giusto?
Bene, perché è esattamente quello che ci si chiede quando si parla di Yoani Sánchez, la bloggera cubana diventata paladina della democrazia occidentale.
Prima di entrare nei dettagli, però, devo ammettere che – come credo qualunque blogger – sono geloso del blog di Yoani, Generación Y. Perché un blog di una perfetta sconosciuta – come lei stessa si definisce e come ha confermato la gran parte dei cittadini cubani in un documentario di Gianni Minà – che in un anno, oltre a vincere una miriade di premi di solito attribuiti ai nomi più altisonanti della letteratura, riesce a trovare anche un certo numero di persone che rendano possibile la traduzione del medesimo in ben 18 lingue (e non c'entra niente il pessimo traduttore di google che uso io...)
a chi sono circa 5 anni che scrive con una certa assiduità arrivando al massimo ad un centinaio di visite al giorno fa alquanto invidia. D'accordo che il mio blog, a differenza di GY è tenuto in maniera assolutamente gratuita, ma un po' di invidia – quantomeno per il fatto che c'è gente in giro per il mondo che trova gratis il tempo di tradurre un blog quotidianamente – credo verrebbe anche a persone come Shi Tao, Ye Guozhu, Zhao Xin, tre dei tanti dissidenti cinesi che a) hanno delle vere restrizioni alla voce “libertà di manifestazione del pensiero” e b) non hanno una rubrica fissa su Internazionale.
Ma andiamo per gradi.
Innanzitutto trovo una interessantissima intervista su Facebook, che è stata pubblicata sull'ultimo numero di “LatinoAmerica e tutti i Sud del mondo”, il trimestrale diretto da circa un decennio da Gianni Minà a cura di Salim Lamrani, docente universitario e giornalista francese specializzato nelle relazioni Cuba-Stati Uniti.
Ora: se io so di dover fare un'intervista al principale dissidente di una nazione definita non-democratica, non immagino che l'intervista si svolga in pieno giorno in uno degli alberghi del centro della capitale, ma evidentemente io ho una strana accezione della dissidenza.
Uno dei punti principali dell'intervista – che vi ripropongo in versione integrale da facebook nei documenti alla fine del post – riguarda l'aggressione subita il 6 novembre dello scorso anno dalla blogger mentre si recava ad una manifestazione anticastrista.
Nell'intervento che, prontamente, compare su GY, si può leggere [citazione testuale]:
“(...)ci hanno riempito di botte e spintoni, mi hanno caricato con la testa verso il basso e hanno tentato di infilarmi nell'auto. Ho afferrato la porta, ricevendo colpi sulle mani, sono riuscita a togliere un foglio che uno di loro portava in tasca e me lo sono messo in bocca. Mi sono presa un'altra scarica di botte perché restituissi il documento. Orlando (Orlando Luís Pardo Lazo, un altro dei blogger “contro-rivoluzionari”, ndr) era già dentro l'auto, immobilizzato da una mossa di karate che lo faceva stare con la testa verso il pavimento uno ha messo le sue ginocchia sul mio petto e l'altro, dal sedile anteriore, mi colpiva nella zona dei reni e sulla testa per farmi aprire la bocca e liberare il documento. (...)«Adesso la finirai di fare pagliacciate», ha detto quello che era seduto accanto all'autista e che mi tirava i capelli.(...)In un gesto di disperazione sono riuscita ad afferrare, dai pantaloni i testicoli di questo personaggio. Ho affondato le mie unghie, supponendo che lui avrebbe continuato a schiacciare il mio petto fino all'ultimo respiro. «Uccidimi adesso», gli ho gridato, con il fiato che mi restava, ma quello che stava nei sedili anteriori ha detto al pi giovane: «Lasciala respirare» (...)”
In pratica una mancata esecuzione. Stando alla descrizione.
Già, perché di questa aggressione – peraltro attuata in pieno giorno e davanti ad un'affollatissima fermata dell'autobus, come la stessa blogger ha detto nell'intervista, non ci sono prove. O meglio: Yoani Sánchez dice di avere delle fotografie dell'avvenimento, anche se mi chiedo come abbia fatto in tutto questo trambusto a farle, ma di volerle far vedere solamente in un eventuale processo. Ora: io so di avere in media dieci milioni di persone che tutti i giorni leggono il mio blog, posso denunciare un'aggressione alla mia persona fatta dal regime – cioè mostrare al mondo l'efferatezza di quello stesso manipolo di dittatori – ma non lo faccio perché spero in una giustizia che non si sa se e quando arriverà nel mio paese? Quantomeno strano direi, non trovate?
Ancor più strano, poi, è stato quel che ha potuto documentare Fernando Ravsberg, corrispondente della BBC a Cuba che – tre giorni dopo l'aggressione – ha intervistato la blogger insieme ad altri giornalisti internazionali: assolutamente niente. Non c'erano segni dell'aggressione, ed a tre giorni dagli accadimenti, naturalmente, le tracce dovrebbero essere ancora molto evidenti. Casualmente, le uniche prove inconfutabili si trovavano sui glutei della blogger, che ovviamente non avrebbe mostrato alla stampa.
Dopo aver detto che gli assalitori “non avevano voluto lasciare segni evidenti sul corpo” (che gentili...) si svela l'arcano:
«Il fatto che tre sconosciuti mi hanno portato dentro un'auto senza presentare nessun documento, mi dà il diritto di lamentarmi come se mi avessero fratturato tutte le ossa del corpo». «L'esistenza o meno dei segni fisici non dimostra l'evidenza del fatto», dice qualche riga più sopra.
Se una descrizione così cruenta è frutto di un controllo documenti durato “ben” 25 minuti (non proprio un “sequestro di persona” come lei stessa denuncia...) non oso immaginare cosa avrebbe potuto fare se fosse stata rinchiusa in carcere. Ma sul tema dei dissidenti carcerati ci torno in seguito.
Io so bene quanto possa essere faticoso aggiornare quotidianamente un blog, ed ancora di più so quanto sia importante controllare che tutto quel che si scrive non sia esclusivo frutto della fantasia (propria od altrui diventa qui irrilevante...), per cui mi chiedo – indipendentemente dagli evidenti aiuti che Yoani Sánchez riceve e sui quali arriverò a breve – come si possa definire attendibile chi inventa un'aggressione per denunciare la brutalità di un regime. Magari c'è anche stato qualcosa, ma senza prove inconfutabili – capite bene – che perde valore anche tutto quel che viene scritto prima e dopo. D'altronde è lo stesso sistema fiduciario che si basa tra lettori e giornalisti della carta stampata e del circuito radio-televisivo: io lettore non posso seguire tutti gli accadimenti del mondo e per questo mi affido a te giornalista che hai i mezzi per farmi arrivare tutte le notizie che reputi importanti. È come se io, un bel giorno, scrivessi un post nel quale – con dovizia di particolari – descrivessi un'aggressione che ho visto mentre ero in giro senza pubblicarne le prove: la mia parola contro quella del mio eventuale aggressore. Esattamente quel che si definisce “prova certa ed inconfutabile”.
Qualcuno si chiederà: ed i testimoni? Quelli che aspettavano l'autobus? Nessuno ha voluto parlare, neanche con i media internazionali che sembrano trovare anticastristi nella buca delle lettere ogni volta che gliene serve qualcuno. L'unica “testimonianza” è quella di Claudia Cadelo, anche lei blogger contro-rivoluzionaria che, stando alla ricostruzione di Yoani Sánchez “ha visto la scena da lontano mentre l'auto della polizia si allontanava”. Voi spiegatemi come fa una persona da una macchina che si sta allontanando ad avere una visione nitida di quel che avviene dentro un'altra macchina: o è Superman oppure qui c'è qualcosa che non torna!
Come se non bastasse – tante volte servisse la ciliegina sulla torta – c'è anche un risvolto per certi versi tragicomico della questione: dopo il “sequestro” - che peraltro si svolge esclusivamente in macchina – alla blogger sono stati restituiti cellulare e fotocamera, cioè gli unici due strumenti con i quali possono essere state fatte le fatidiche “prove”.
Ma naturalmente entrare nei dettagli di quel che si testimonia, per Yoani Sánchez, significa “perdere l'essenza” di quel che si dice, come più volte a ribadito nel corso dell'intervista. Come più volte ha applicato quella censura dalla quale si sente perseguitata, naturalmente quando si parlava di questioni a favore del “regime”.
Infantile. È questo il primo aggettivo che viene in mente scorrendo la lunga intervista. Infantile perché spinta da quell'auto-celebrazione che il diventare personaggi famosi porta automaticamente con sé. Ed infantile perché piena di contraddizioni, perché una volta messa all'angolo su questioni in qualche maniera “spinose” glissi e cambi discorso, come neanche il miglior politico sarebbe in grado di fare. Come quando sostiene che il suo blog è off-limits per i cubani (in tal caso non si capisce per quale motivo si ostini a dire che scrive per “cambiare il paese” se i suoi lettori di riferimento non possono leggerla...) e, alle rimostranze sul fatto che Lamrani lo abbia visitato poco prima di iniziare l'intervista Yoani Sánchez risponda con un: «Sì, però la maggior parte del tempo è bloccato». Un colpo di fortuna per l'intervistatore, non c'è che dire. Colpo di fortuna forse superiore anche a quello grazie al quale la blogger cubana si è vista rispondere ad un'intervista al Presidente degli Stati Uniti d'America Barack Obama, che ha schifato i mezzi di informazione più importanti del mondo (con i quali avrebbe avuto sicuramente eco maggiore) per rispondere a lei, magari nei ritagli di tempo tra l'approvazione della riforma sanitaria ed una partita di basket.
Continuando nella lettura, prima di entrare nel vivo degli argomenti, c'è un altro punto che a me dà parecchio da riflettere: io blogger ho denunciato di essere stato aggredito per quelli che noi chiameremmo “reati di opinione”, so che scrivendo quel che scrivo posso andare in prigione – dove sicuramente non mi porteranno caviale e champagne per colazione – ma me ne vado tranquillamente in giro a dare interviste. Neanche i giapponesi che si lanciavano su Pearl Harbour nel 1941 credo avessero tanto fegato!
Ma chi era Yoani Maria Sánchez Cordero prima di diventare la dissidente cubana più famosa dell'intero universo?
In realtà non si sa molto di chi sia stata “prima”. Si sa che è nata a L'Havana nel 1975 e che è stata per due anni (2002-2004) in Svizzera. Sul suo blog dice di essersi laureata nel 2000 in Filologia, ma sui documenti ufficiali in possesso delle autorità consolari in Svizzera, la sua istruzione risulta “preuniversitaria”. Si sa che ha un figlio, che è sposata con Rinaldo (che ne coadiuva il lavoro “informativo”) e che, per campare, fa la guida turistica abusiva. Non si capisce, con questi dati, come possa però permettersi i costi di gestione del blog, che costa più di quanto tutta Cuba possa permettersi nel campo informatico (utilizzo della banda nelle hall dei principali alberghi della città compresi).
Ma la cosa più strana – come da più parti viene fatto notare – è il suo ritorno nell'isola. Vai via – non certo per fare la missionaria in Congo o in qualche altra zona del Terzo Mondo – e, dopo due anni vissuti nel “paradiso” svizzero, torni in un paese che ti fa schifo fin nelle più recondite cellule? Ci sta la saudade, come dicono i brasiliani, ma quando più d'uno – come appare evidente dai commenti ai suoi post – che torna a Cuba dopo aver assaggiato “il mondo” ci torni perché il mondo “occidental-capitalistico” non gli è consono dovrebbe far riflettere.
Peraltro c'è anche un “gustoso” retroscena in merito al suo ritorno: una delle leggi cubane – non so quale, non conoscendone il costrutto legislativo – impone che chi decide di prolungare la propria visita all'estero per più di 11 mesi perda alcuni benefit dettati dal non essere più considerati residenti permanenti, cosa che non vale per la dissidente, che è stata nuovamente accolta tra le braccia di mamma Cuba con lo status di residente per “ragioni umanitarie” (quali, francamente, non saprei).
Che forse la nostra, che vuole un regime liberista e di privatizzazioni per la sua isola, non sia stata in grado di affrontare la competizione tra persone che il sistema capitalista impone? Che non sia stata in grado di cavarsela senza l'aiuto di quel regime che tanto critica e detesta ma che – stando alle parole della Banca Mondiale (non certo un'organizzazione filo-castrista) – in alcuni campi (istruzione e sanità in primis) è un esempio anche per i paesi più democratici? Riporto quel che dice la relazione della BM riportata nell'intervista:
«Cuba viene riconosciuta, a livello internazionale, per i suoi successi nel campo dell'educazione e della sanità; ha un servizio sociale che supera quello della maggior parte dei paesi in via di sviluppo e in alcuni settori è comparabile a quello dei paesi sviluppati. Dalla Rivoluzione cubana de 1959 e dall'insediamento del governo comunista con un partito unico, il paese ha creato un sistema di servizi sociali, gestito dallo Stato, che garantisce l'accesso universale all'educazione e alla sanità. Questo modello ha permesso a Cuba di raggiungere l'alfabetizzazione universale, di eliminare alcune malattie; ha favorito l'accesso all'acqua potabile e alla salute pubblica di base, uno dei tassi di mortalità infantile tra i più bassi della regione e una delle più lunghe speranze di vita. Una revisione degli indicatori sociali cubani rivela un miglioramento quasi costante dal 1960 al 1980. vari indizi importanti, come la speranza di vita e il tasso di mortalità infantile, continuarono a migliorare durante la crisi economica del paese negli anni '90...attualmente la prestazione sociale di Cuba è una delle migliori del mondo in via di sviluppo, come documentano numerose fonti internazionali compresa l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo e altre agenzie dell'ONU e la Banca Mondiale. Secondo gli indicatori dello sviluppo del mondo nel 2002, Cuba supera ampiamente alcune volte l'America Latina e i Caraibi e altri paesi con entrate medie, nei più importanti indici dell'educazione, della sanità e della salute pubblica».
A confermare quanto detto in pratica da tutte le organizzazioni imperialiste esistenti, poi, ci sono i dati: nel 1959 il tasso di mortalità infantile era del 60 per mille, nel 2009 del 4,8 (addirittura meno dei “democratici ed evoluti” Stati Uniti); prima della Rivoluzione la speranza di vita era di 58 anni, oggi di quasi 80 (media dei paesi sviluppati); secondo il britannico “The Guardian” - altra fonte non certo filo-castrista – Cuba ha il doppio dei medici dell'Inghilterra a fronte di una popolazione quattro volte inferiore, e questo anche grazie ad un tasso di analfabetismo dello 0,2% (la media in America Latina è dell'11%) ed un tasso di scolarizzazione che arriva al 100% (92% nel resto del continente latinoamericano), cifre fornite dall'Unesco.
Davanti a tali cifre, Yoani Sánchez è in grado di dire che si stava meglio sotto il regime del generale Fulgencio Batista y Zaldívar perché quando c'era Batista c'era una maggiore libertà di espressione, perché questa era sì una dittatura, ma la stampa era plurale ed aperta, con programmi radio di tute le tendenze politiche.
Qui sfioriamo il comico: dopo questa frase, l'intervistatore fa notare a Yoani Sánchez quanto questo non sia vero, perché tra dicembre 1956 e gennaio 1959 (nel terzo “mandato” di Batista) su 759 giorni la censura entrò in vigore per ben 630 giorni. Non proprio quel che si definirebbe “pluralismo libero”. La risposta della blogger ha dell'incredibile: «è vero che c'era censura, intimidazioni e morti» (testuale dall'intervista).
Più che una blogger cubana sembra una giornalista italiana. La cui unica differenza sembra essere la “macchina da guerra” (ideologica) di cui dispone Yoani Sánchez.
- Generación Y: l'anti-Granma
Come se non bastasse, la nostra pubblicizza anche il suo libro in italiano dalle pagine del blog, cosa vietata a Cuba. Ancora il regime castrista? No: l'embargo, il quale vieta il commercio elettronico (e naturalmente quello del libro – acquistabile con PayPal – è un chiaro esempio di commercio di questo tipo).
E se due indizi non fanno una prova, il terzo indizio è dato dai 15.000 euro che il gruppo PRISA (quello di El Paìs) ha dato ad Yoani, vincitrice del premio Ortega y Gasset, notoriamente conferito ad alte personalità del mondo letterario e non ad una persona qualunque oppure i 50.000 che la Rizzoli le ha dato per il suo libro (nessuno dei grandi personaggi della cultura cubana ha mai ricevuto una cifra simile).
E del copyright sul suo blog, unico caso in tutta Cuba, ne vogliamo parlare?
Ma questo, come ci suggerisce la stessa Yoani, è un argomento politico che non interessa alla gente (che deve essere la forma cubana di “no comment”, visto che nell'intervista viene usato per uscire dall'angolo).
Invece è un argomento interessante – o almeno per me lo è – la storia delle dimenticanze e dei punti di vista quantomeno “originali” che la prode Yoani ha sulle faccende del suo paese, due in particolare: “el bloqueo” (cioè l'embargo che da mezzo secolo attanaglia l'isola) e la dissidenza.
Già, perché la nostra dissidente “indipendente”, se gli Stati Uniti da 50 anni portano avanti la politica dell'embargo non è per una forma di violenza verso i cittadini cubani, ma come ripicca perché il regime comunista, nel '59, confiscò le proprietà statunitensi sull'isola. Cosa che sembra essere tanto esecrabile per la blogger quanto naturale per il diritto internazionale (certo: ci sarebbe quel “piccolo” dettagli che gli Usa rifiutino gli indennizzi che invece hanno accettato paesi come la Spagna, l'Italia o il Regno Unito, ma per la Sánchez è meglio dimenticare questo aspetto...).
Per quanto riguarda l'ingerenza, la nostra ha uno strano modo di intenderla...
Nel momento in cui, nell'intervista, si affronta il problema delle comprovate sovvenzioni che gli Stati Uniti fanno verso i dissidenti cubani, atto illegale in qualunque angolo del globo, la nostra sostiene che anche Cuba l'ha fatto, sostenendo movimenti ribelli e di guerriglia. Peccato che si riferisca all'aiuto che Cuba ha dato, nel corso degli anni, ai movimenti indipendentisti o al fronte anti-apartheid sudafricano, aiuti che non certo rientrano sotto la voce “ingerenza” come gli “aiutini” che gli amici americani di Yoani danno all'”opposizione” cubana, come quella di Santiago Alvarez, noto terrorista al servizio degli anti-castristi più estremi, che ha passato lo “scettro” (perché condannato a quattro anni di reclusione, poi ridotti a due e mezzo) a Martha Beatriz Roque, leader delle “Damas en blanco”, quella stessa associazione che – per bocca di Laura Pollán – dichiara di accettare aiuti da tutti, dall'estrema destra fino alla sinistra, senza condizioni. O meglio, una condizione c'è: l'essere asservite alla volontà imperialista estadounidense. Non so perché, ma a leggere queste storie mi affeziono ancora di più alle Madres de Plaza de Mayo (che almeno combattono contro un regime vero).
Un'altra dimenticanza di Yoani, che però è in compagnia di tutti i media mainstream (in particolare quelli che la pubblicano o che – come Il Fatto Quotidiano – fanno addirittura una raccolta firme a suo favore...) sono i cinque cubani arrestati nel 1998 dagli Usa (con tutto ciò che questo implica...) la cui unica colpa era quella di essere dissidenti dall'imperialismo americano. Perché non tutti i dissidenti sono uguali, dipende da quale bandiera battono.
C'è poi un ultima questione, che deriva dalla lettura dei post di Yoani Sánchez: siamo sicuri che quel che dice - indipendentemente da come si veda la situazione - sia davvero così interessante da meritare un'attenzione simile?
Documenti:
- L'intervista di Salim Lamrani a Yoani Sánchez: http://www.facebook.com/note.php?note_id=383405658230&id=1005860387&ref=mf
- La storia dei cinque "dissidenti dimenticati":http://www.lombardiacuba.it/cinco%20chi%20sono.htm