In quest'ultimo periodo si stava creando una convinzione sempre più netta in me, alla quale ieri hanno ben pensato di dare l'ultima spinta per poter dire che l'Italia è di nuovo sotto regime fascista. Basta guardare a quel che succedeva ieri durante quella scampagnata lì a Roma – qualcuno ha avuto il coraggio di chiamarla “manifestazione” - dove non era così difficile incontrare bandiere con la croce celtica o qualche nostalgico della X Mas che, vista la libertà di cui godeva, ha ben pensato di intonare “Faccetta Nera”.
Ma il focus, come si può facilmente evincere dall'incipit di questo post non è la riunione del Popolo della Libertà ieri nella capitale (niente: proprio non ce la faccio a scrivere che quella era una manifestazione).
Quel che mi colpisce oggi – e che dunque mi porta a scriverne – è un'altra questione. Una questione ben più importante e che ci riporta indietro nel tempo, e non solo perché per iniziare il racconto, dobbiamo tornare al 1981, al 17 maggio 1981 per la precisione.
In quella data, molti lo ricorderanno (per gli altri, come me, esistono sempre i racconti dei più grandi o la rete) il Partito Radicale, chiese al popolo di esprimersi in merito all'aborto ed a tanti altri aspetti della quotidianità di ognuno quali l'obiezione di coscienza in chiave non-violenta, l'abolizione dei Tribunali Militari, contro l'ergastolo etc. Il primo dei referendum ivi citati è quello di cui mi interessa parlare in questa sede: non tanto riaprire il dibattito sull'essere a favore o contrari all'aborto, visto e considerato che io – che ovviamente posso solo immaginare cosa si possa provare in una situazione del genere – sono fermamente convinto che decisioni simili, come quelle sull'eutanasia, debbano essere lasciate alla libera decisione di chi le subisce e che quindi il compito del legislatore sia solo quello di aprire legalmente alla possibilità di poter scegliere, nell'una o nell'altra strada.
Da quel che so, da quel che si può sentire dalla voce di chi quei referendum li volle (Marco Pannella)
a dar man forte alla lotta radicale in tal senso furono le nonne cattoliche, che ben sapevano cosa significava doversi affidare alle «mammane», cioè a quella che era la terza causa di morte dopo l'emorragia e l'ipertensione in quegli anni.
Che gli e le italian* fosse espert* nell'inventarsi modi per sbarcare il lunario è risaputo ad ogni latitudine di questo globo, ma che lo si facesse a discapito della salute – ed in alcuni casi della vita – altrui, probabilmente non è una gran cosa. Perché le mammane, per chi non lo sapesse, erano quelle persone che, magari anche in buona fede, si reinventavano dottoresse o dottori, ostetriche od ostetrici, ed operavano aborti sui tavoli delle loro cucine, là dove la sterilità degli strumenti e degli spazi è pura utopia.
Ma siamo negli anni '80. Tutta un'altra società, tutto un altro Paese, tutto un altro mondo. O forse no?
Il fenomeno degli aborti clandestini non è di certo un fenomeno riscontrabile solo nei libri di storia o in qualche studio sulla società e sui costumi dell'Italia prima della “svolta culturale” degli anni'70. Oggi siamo ad un numero decisamente inferiore (circa il 90% in meno), ma sono ancora 20.000 i casi registrati ogni anno nel nostro paese. Le donne che oggi si rivolgono alle “mammane 2.0”, quelle che hanno riposto i ferri da calza per più comode – ed occultabili – pillole non hanno distinzione di razza, condizione sociale, età o status. Anche se con la caccia all'immigrato voluta da questo governo il numero delle immigrate che non utilizzano le strutture pubbliche – alle quali è possibile rivolgersi dall'introduzione nel nostro ordinamento della “famosa” legge 194 nel 1978 – è ancora altissimo. Perché hanno paura di essere rispedite nei loro paesi o nei Cie, che forse è anche peggio.
Ma ci sono anche molte, moltissime italiane: donne in carriera che non vogliono avere “impicci”, e che spesso si comportano come e peggio del più becero maschilista, donne che sono oltre il limite legale per abortire in ospedale (tre mesi), minorenni che non hanno ben capito come avere rapporti senza rischiare, ma anche donne che quel figlio lo vorrebbero, ma la crisi o quel mercato del lavoro ancora troppo concentrato sulla figura del “maschio produttivo e lavoratore” non permette loro di crearsi una famiglia. O semplicemente donne che non hanno voglia o tempo di aspettare le lunghissime file agli ospedali, con le quali tutti più o meno dobbiamo incappare nella nostra vita.
In Italia ci sarebbe un metodo legale per abortire. Ha un nome particolare: Ru486, conosciuta anche come “pillola abortiva” appunto. Il condizionale è d'obbligo perché ogni volta che si tenta di portare questo paese nell'epoca moderna, ci si ritrova sempre a fare i conti con l'ostracismo catto-fascista di chi vuole continuare a tenerci nel Medioevo, e non mi riferisco solo al Vaticano, basti guardare a molti politici di primo, secondo e terzo piano, magari anche dal passato radicale i quali hanno capito che, per continuare a sedere su quella poltroncina da circa 20.000 euro annui. E naturalmente “aprire” alla possibilità che le donne, tutte le donne, che siano italiane, immigrate regolari od irregolari, possano avvalersi della possibilità di scegliere se continuare la gravidanza o meno è uno di quei punti sui quali si evidenzia la “medievalità” di una società.
Chi può si rivolge all'estero (500 euro il costo di un “viaggio della speranza”, sempre se non si trova qualcuno che vuole farsi un viaggio gratis in Inghilterra, come nel caso di questa inchiesta de Le Iene), oppure si siede davanti al pc e foraggia il vastissimo mercato nero. Virtuale o fisico che sia.
Chi decide di abortire in questo paese si trova davanti due strade: il mercato nero delle pasticche o quello più legale dei ricoveri ospedalieri, dove riuscire a trovare medici che pratichino l'aborto diventa impresa sempre più ardua.
- Metodi fai da te
Chi non può procurarsi la pillola abortiva però, può “ripiegare” sul Cytotec, un farmaco contro l'ulcera che, se assunto in dosi massicce, può portare all'aborto, tanto che la Direzione scientifica della Searle, l'azienda produttrice, ne sconsiglia caldamente l'uso in stato di gravidanza. Basta girare un po' per le città – per esempio nelle vicinanze della stazione centrale di Milano, come documenta La Stampa – per riuscirsene a procurare un po'. Oppure basta andare in farmacia e trovare qualche scusa abbastanza plausibile, come sovente viene ribadito nei tantissimi siti “per abortisti alle prime armi”; basta trovare un medico con un'etica un po' inferiore a quella di un maniaco sessuale – per citare una nota frase di Woody Allen – oppure costruirsi un medico pronto all'uso con nomi, timbri e quant'altro completamente fasulli. Già, perché per avere il mesoprostolo – altro nome con cui è conosciuto il Cytotec – dal 2006 bisogna avere la richiesta del medico, ma questo non sembra essere un grosso ostacolo. Ricetta – anche fasulla, tanto chi controlla – e 14€ in tasca ed il gioco è fatto.
Usare questo metodo, peraltro, elimina anche il più grande scoglio con cui, all'atto pratico, una donna che ha deciso di abortire è costretta a fare i conti: l'obiezione di coscienza del personale medico. Cosa c'entra un anti-ulcera con l'aborto, infatti?
- La “mafia” degli obiettori di coscienza
Circa il 72% dei medici italiani si dichiara contrario all'aborto, e quindi non lo pratica. Questo vuol dire che solo 4 ospedali su 10 riescono a garantire un équipe addestrata a tale pratica in maniera fissa, e quando ciò non è possibile spesso si ricorre ai c.d. “gettonisti”, cioè a veri e propri prestiti di medici che praticano l'aborto da altri ospedali. Questo fenomeno è ben visibile al Nord Italia, ed in particolare in quella Lombardia comandata da quella organizzazione a metà tra una mafia ed una loggia massonica che prende il nome di Comunione e Liberazione.
Però le credenze politico-religiose, come abbiamo già detto, non sono le uniche considerazione alla base del fronte degli anti-abortisti, visto che molti di quelli che obiettano diventano paladini dell'aborto con l'aiuto delle tenebre. E di una lauta ricompensa, naturalmente.
Per risolvere, o quantomeno tentare di risolvere, un fenomeno tanto ampio come questo, basterebbe ricominciare ad insegnare ai giovani - sia ragazzi che ragazze - l'importanza del prendere coscienza del e sul proprio corpo. Anche sotto l'aspetto sessuale e, dunque, di tutela da rischi come gravidanze indesiderate o trasmissione di malattie. Ai maschi, poi, andrebbe insegnata anche un'altra cosa: che non esiste alcuna legge che preveda una qualche forma di "proprietà" sul corpo delle donne. Le femministe degli anni '70 racchiudevano tutto questo in un unico termine: autodeterminazione. Credo sia il caso di ricominciare ad adoperarlo, anche come antibiotico al velinismo.
«L'interruzione di gravidanza evidenzia la contraddizione tra sessualità femminile e maschile, per questo il contributo maschile alla campagna può essere soltanto la radicale messa in discussione del proprio comportamento sessuale. Da 30 anni ci costringono a scendere in piazza per difendere una legge, la 194, che non ci è mai piaciuta in quanto legge di compromesso che offre la sponda a chi ci vuole impedire di decidere sui nostri corpi. La sessualità femminile è distinta dalla capacità di procreare; la posta in gioco è, allora, la libertà femminile, libertà che deve essere affidata alla pratica delle relazioni tra donne e non alle leggi dello stato».
[dal blog Ogo:http://ogo.noblogs.org]
È per questo che oggi, anno domini 2010, si può ancora asserire che le mammane non sono solo un fenomeno sociale e culturale di un tempo che fu. Sono qui, tra di noi, nella nostra quotidianità. Le trovi alla fermata del treno o con indosso il camice bianco. Non ci sono più ferri da calza e tavoli dalla scarsa sterilità, ma la sostanza è sempre la stessa. Ed i rischi per chi decide di affidarsi a queste mammane dell'epoca del 2.0 sono sempre gli stessi. Altissimi.