Avevo già iniziato a Natale, raccontando la storia di Maria Claudia Falcone, la giovane dirigente dell'UES (la Unión Estudiantes Secundarios) considerata un po' l'Anna Frank argentina. Continuo oggi, oggi che è il 24 Marzo, cioè il giorno in cui – nel 1976 – la notte calava sui figli d'Argentina, quella stessa notte che continua ancora oggi, a 34 anni di distanza, squarciata dal forte grido che ogni giovedì sera migliaia di donne lanciano in Plaza de Mayo. Sono le madri dei desaparecidos, conosciute con il nome di Madres de Plaza de Mayo. Chiedono solo una cosa: la riapparizione, da vivi, dei propri cari.
Molti di quei 30.000 erano ragazzi, studenti che, come molte volte abbiamo potuto vedere nei documentari sul maggio francese o sul '68 italiano, dalle aule universitarie gridavano che no, il mondo ingiusto in cui era toccato loro di abitare non gli piaceva, ed i ragazzi dell'UES non erano certo da meno.
Molti di quei 30.000 erano ragazzi come Maria Claudia, come Pablo Diaz – l'unico sopravvissuto alla c.d “notte delle matite spezzate”- come Maria Clara Ciochini o come Horacio Ángel Ungaro, di cui oggi voglio raccontare la storia in questo secondo post della mia personalissima "rubrica" per ricardare i desaparecidos .
Horacio nasce il 12 maggio del 1959 a Buenos Aires. È il minore di quattro fratelli: Luis Arsenio (12 anni), Martha Noemí (11) e Nora Alicia (6), ai quali è molto legato, come ogni figlio più piccolo in una famiglia ampia. Aveva un rapporto particolare con Martha, la sorella più grande, che ammirava e che, in qualche modo, aveva preso a modello tanto che, dopo le scuole dell'obbligo,
aveva deciso di studiare medicina come lei.
Dalla seppur brevissima linea biografica che sono riuscito a trovare, Horacio sarebbe il classico figlio che ogni madre vorrebbe: studioso, di carattere mite ed appassionato di sport. Come molti di quegli studenti, sapeva benissimo che ogni goccia nel mare, per quanto non possa da sola cambiare il corso degli eventi, può costituire quell'onda anomala che ogni tanto arriva a cambiare le cose, e per questo – ottenuta a 16 anni la qualifica di insegnante di francese – come molti suoi colleghi ed amici era impegnato in prima persona per tentare di migliorare le condizioni culturali e socio-economiche dei suoi concittadini. Come molti studenti, infatti, fa volontariato nei quartieri poveri, insegnando a chi non poteva permettersi la scuola.
Nel 1974 entra nell'UES, da dove inizia la sua battaglia per un paese più giusto e solidale che lo porta un anno dopo, insieme a tanti suoi altri colleghi, a lottare per l'ottenimento del Boleto Estudiantil Secondario, un biglietto a tariffa ridotta per l'accesso ai mezzi pubblici a chi, abitando lontano dal luogo di studio, non poteva permettersi la tariffa intera. Quel che chiedevano gli studenti, che il 13 settembre marciarono - riempiendo le strade di La Plata in 3000 – fino al Ministero dei Lavori Pubblici, nonostante l'ovvia repressione poliziesca che gli si frappose lungo il tragitto.
Ma si sa che l'ottusità del Potere non permette ai suoi uomini di essere battuti da un gruppo di giovani “rivoluzionari”, in particolare se quel potere vige sotto forma di dittatura. Ed è proprio da questa manifestazione che inizia a calare la notte, perché il 16 settembre del 1976 – la notte delle matite spezzate – gli uomini della Tripla A iniziano i rastrellamenti contro chi si era macchiato di un'onta tanto grave: aver lottato per i propri diritti.
Horacio viene sequestrato a casa sua, insieme al suo amico Daniel Racero e portato al Pozo de Arana prima (il campo di detenzione di La Plata) ed a quello di Banfield poi, insieme ai tanti ragazzi, molti dirigenti dell'UES tra cui Maria Claudia Falcone, Maria Clara Ciocchini, Claudio de Acha e tanti altri.
Il resto, purtroppo, è storia nota: stupri, torture, violenze di ogni genere. Da Banfield, poi, si perdono le tracce di Horacio, di sua sorella Nora e di tanti altri. Non si sa se sia uno dei giovani che hanno subito i voli della morte nel Rio de La Plata o nell'Oceano Atlantico o se sia stato uno dei tanti giovani adottati dai servi della dittatura, quegli stessi che oggi hanno ripulito la loro coscienza e si sono riciclati nella politica “democratica” del nuovo corso argentino.
Purtroppo tutto quel che si sa di Horacio è scritto in queste poche righe. Voglio però chiudere il post raccontandovi un altro di quegli episodi che rimangono nella Storia, quei piccoli episodi – quelli che vengono presi come note di colore nei libri – ma che raccontano la Storia degli dei minori, la storia degli uomini qualunque. Per farlo guardiamo allo sport, e precisamente a quello che – in Italia come in Argentina – è “lo” sport per antonomasia: il calcio.
Siamo nel 1978, l'Argentina vive nel pieno della dittatura e nel pieno della scomparsa dei suoi figli “ribelli”. In quell'anno però gli viene concesso di organizzare l'11° edizione dei Mondiali di calcio, che si tengono tra Buenos Aires, Córdoba, Mar del Plata, Mendoza e Rosario tra il 1° ed il 25 giugno.
A vincerli sono proprio i padroni di casa, che battono per 3 ad 1 l'Olanda di Johan Cruijff che però, per protestare contro la dittatura, decide di non scendere in campo. Due dei tre gol prodotti nei 130 minuti di gioco sono di Mario Kempes, che diventa così capocannoniere della competizione e calciatore sudamericano dell'anno per la rivista venezuelana "El Mundo".
Ma Kempes non era semplicemente un calciatore come tutti gli altri: "El Matador" – come lo avevano soprannominato nel Valencia – era anche uno di quei giocatori con un'etica e dei valori molto forti, tanto da essere probabilmente uno dei pochi giocatori al mondo a non essersi mai visto sventolare un cartellino giallo in faccia. Il gesto più eclatante se lo riservò per la finale dei Mondiali, dei "suoi" Mondiali, quelli in cui – come probabilmente avvenne per l'Italia del '34 sotto Mussolini – il risultato era già scritto: l'Argentina doveva vincere, perché la dittatura era imbattibile, anche nello sport!
Ma Kempes è uno sportivo vero, di quelli con dei valori molto forti, abbiamo detto. Tutti sapete che dopo la vittoria di una competizione sportiva a livello di nazionali, solitamente, il presidente della nazione ospitante passa in rassegna i campioni stringendogli la mano. Questo, per Kempes, voleva dire stringere la mano ad un dittatore e genocida e no, questo non voleva proprio farlo. Perché Kempes, con quella maglia addosso, rappresentava l'orgoglio del popolo argentino, di quello stesso popolo che veniva quotidianamente torturato, violentato, ucciso e fatto sparire da quella mano insanguinata che avrebbe dovuto stringere. E questo non lo si poteva accettare.
porque luchabamos nos desaparecieron,
porque aparecimos, seguimos luchando!
porque aparecimos, seguimos luchando!