«Se è vero, com'è vero, che una delle cause principali, se non la principale, dell'attuale strapotere della criminalità mafiosa risiede negli inquietanti suoi rapporti col mondo della politica e con centri di potere extra-istituzionale, potrebbe sorgere il sospetto, nella perdurante inerzia nell'affrontare i problemi del pentitismo, che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti».Scriveva Giovanni Falcone negli anni '80.
Sono passati circa 20 anni, ma questa frase potrebbe essere una dichiarazione di qualche procuratore antimafia di oggi, A.D. 2009.
La “stagione dell'anti-mafia” si è riaperta. È ormai evidente a tutti che riprendere in mano i fascicoli della strategia terroristica portata avanti dalla mafia nella stagione 1992-1993 vuol dire rispondere a quella domanda che per troppi anni è rimasta inevasa: Chi è stato (o chi sono stati) i mandanti delle stragi che hanno tolto la vita a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Rocco Chinnici e gli uomini della scorta? Chi c'è dietro alle stragi dei Georgofili e del “filone 1993”?
Torino, 4 dicembre 2009- Mediaticamente sembra di essere tornati ai tempi del maxi-processo, invece

Chi è Gaspare Spatuzza.
Gaspare Spatuzza nasce l'8 Aprile 1964 a Palermo. Soprannominato “'U Tignusu” (il calvo in siciliano), fa parte del mandamento di Brancaccio, famiglia Graviano. “Corrente” - se così si può dire – corleonese. È talmente fedele Spatuzza – d'altronde il giuramento che ogni picciotto fa per entrare in una famiglia recita “che io possa bruciare vivo se tradirò” non per caso – che chiama Giuseppe Graviano “Madre Natura”. È accusato – cosa che ribadisce durante la testimonianza – di 6-7 stragi e circa una quarantina di omicidi. Lo dice così, come se stesse facendo la lista della spesa. A lui si devono l'omicidio di Don Puglisi; lo scioglimento nell'acido del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, anch'egli passato dal “lato buono della forza”; è lui che imbottisce di tritolo la fiat 126 in via D'Amelio che tolse la vita al giudice Paolo Borsellino ed alla sua scorta nonché la “campagna” del 1993 dove si colpì o, quanto meno, si tentò di colpire la Torre dei Pulci a Firenze(27 maggio 1993); via Palestro a Milano (27 luglio) nell'ambito della campagna stragista contro il patrimonio artistico e a Roma, quartiere Parioli, dove si tenta – non riuscendoci – di colpire il giornalista (iscritto alla P2, tessera 1819) Maurizio Costanzo, che a quel tempo si occupava di mafia. Poi evidentemente capì che tra i due a ringhiare di più era Cosa Nostra, e decise di darsi a ben più leggeri ambiti. Ma questa è un'altra storia...
Spatuzza, come riferisce egli stesso nelle prime battute del dibattimento, ha fatto parte dell'associazione terroristico-mafiosa Cosa Nostra dagli anni '80 fino agli inizi del nuovo millennio, quando, in carcere ad Ascoli Piceno, inizia un percorso spirituale che lo porterà alla redenzione e, quindi, al pentimento. Dice proprio così: associazione terroristico-mafiosa, aggiungendo un piccolo-grande dettaglio alla domanda del pm, che gli aveva semplicemente chiesto se avesse mai fatto parte

Dice Spatuzza:
« a fine '93 avviene un incontro a Roma, al bar Doney in via Veneto, tra me, Cosimo Lo Nigro e Giuseppe Graviano, che ci spiega che dobbiamo uccidere un bel po' di carabinieri a Roma. Io dissi che questa storia ci faceva portare morti che non ci appartenevano, in riferimento ai morti di Milano, di Firenze tra cui la bambina, quindi era qualche cosa che non ci apparteneva questo terrorismo. Graviano disse che era un bene, così chi si doveva muovere si dava una smossa».Chi fosse però questa fantomatica entità che si doveva dare una smossa rimane ancora uno dei tanti omissis che Spatuzza si gioca nel corso del suo percorso di pentimento.
Perché Spatuzza, pur non avendo una grande istruzione a livello scolastico non è il tipico scemo del villaggio. Come non lo è nessun affiliato alle organizzazioni di stampo mafioso, basti guardare la difficoltà con cui gli esperti stanno tentando di decifrare il “codice Provenzano”, quello con cui zu Binnu ha continuato a comandare da latitante dalla cascina di Pian dei Cavalli (praticamente a casa sua...). E pen

Perché in questi giorni è balzato agli onori della cronaca.
Una volta forse lo si sarebbe definito un “super-teste”, uno di quei soggetti capaci di spostare gli equilibri in un processo. Oggi non so se si possa definire tale, ma sicuramente in questo momento Spatuzza e Massimo Ciancimino – figlio del “leggendario” ex sindaco di , il democristiano don Vito – sono i due grandi accusatori di Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi quali mandanti di quella stagione stragista, nonché di essere i referenti diretti – Dell'Utri più di Berlusconi in questo caso, vista la sua vicinanza accertata con i fratelli Graviano – della mafia nelle istituzioni. Ed il popolo italico, quello per cui “la mafia non esiste o al massimo è un problema dei siciliani”, ha conosciuto Spatuzza proprio nell'ambito del processo che vede il senatore Dell'Utri (che continua a sedere a Palazzo Madama, ma tanto tra nani, ballerine, voltagabbana e saltimbanchi di vario genere un mafioso forse è tra le personalità più “normali” a sedere sugli scranni parlamentari...) accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Se sia veramente colpevole di ciò non lo so – c'è sempre quella vecchia massima che durante il dibattimento l'imputato è ancora innocente – ma considerando che nell'aria c'è il tentativo di cancellare questo tipo di reato la cosa mi fa propendere verso una risposta affermativa...
Cosa può succedere dopo le sue dichiarazioni.
Per capire la vera portata delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza dobbiamo allargare il nostro obiettivo, e porlo nella più ampia ottica dei processi che riguardano sia il premier che il suo braccio destro Dell'Utri. Il processo aperto nei confronti di quest'ultimo, quello per cui c'è stato ieri l'interrogatorio a Spatuzza, è arrivato al secondo grado di giudizio, dopo la condanna arrivata in primo grado e che si basava sulle accuse di Antonino Giuffré – vice di Totò Riina ai tempi del “governo corleonese” ed oggi considerato tra i più importanti pentiti di mafia italiani – che, come hanno scritto i giudici di Firenze, ha avvalorato la tesi di partenza secondo cui Forza Italia fosse in qualche modo referente (o deferente?) della mafia nelle istituzioni.
C'è chi, sui media tradizionali, ha iniziato a dire che il “teorema Spatuzza” - parafrasa

Perché la mafia stia scaricando Berlusconi e Dell'Utri non si sa. Ci si può ragionare sopra però: perché se analizziamo un po' la storia della mafia – legata a doppio filo alla storia di questo paese – forse riusciamo a capire qualcosa in più. Prima c'era la Democrazia Cristiana, di cui Don Vito Ciancimino era il raccordo in Sicilia con Cosa Nostra (e questo ormai non è più un dato di cronaca ma un fatto storico) e Andreotti, almeno stando alle sentenze giudiziarie che lo assolvono per il periodo post-1980 (e quindi lo dichiarano colpevole per il periodo antecedente, più o meno fino al governo Andreotti V) a rappresentare il volto di Cosa Nostra nelle istituzioni. Ma abbiamo imparato ormai che “la Piovra” - com'era soprannominata in quegli anni – è sempre attenta a come gira il vento. Passata l'epopea democristiana, gli occhi di Cosa Nostra, così come ha riferito nei giorni scorsi Massimo Ciancimino, si posarono su Milano, precisamente sulla EdilNord S.a.s. di un giovane imprenditore milanese che a quel tempo iniziava la sua attività e che – cosa decisamente strana – si ritrovava già alle spalle una banca ed una finanziaria (la Finanzierungesellschaft fùr Residenzen Ag, di cui nessuno conoscerà mai i reali proprietari; la banca invece è la “famosa” Banca Rasini che – come ebbe a dire addirittura Michele Sindona – era la banca d'appoggio della mafia nel continente). Il suo nome è Silvio Berlusconi, ch

“La mafia vuole far cadere il governo”, ha sostenuto in una delirante dichiarazione Marcello Dell'Utri. Se abbia tutte queste pretese Cosa Nostra non saprei dirlo, anche perché bisognerebbe ragionare su quale cavallo avrebbe scelto per la prossima corsa. Però, una cosa è certa: tra i finanziatori della EdilNord c'erano Antonio Buscemi del mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco e Franco Bonura, dell'Uditore. Tra banche mafiose, finanziatori vicini a Cosa Nostra e finanziarie dalla proprietà fantasma bisogna ammettere la bravura di Berlusconi nello scegliersi chi a quel tempo gli dava i soldi...
Ed a proposito di soldi – o comunque di “rapporti economici” tra mafia e Stato – in questi giorni si sta apportando, nel silenzio generale ormai divenuto norma, la distruzione di una delle leggi di natura civile più importante di questo paese: la legge 109/96 con la quale si definiva come i beni confiscati alla mafia dovevano essere restituiti alla comunità tramite il loro uso sociale (che è poi quel che da molti anni fa Libera di Don Ciotti...). Nella finanziaria di quest'anno si asserisce che tutti i beni “eccedenti”, tutti quei beni, cioè, per i quali non sia stato trovato questo uso sociale, debbano essere venduti. È facilmente intuibile che questo è un regalo che il governo italiano fa alle mafie, che ricompreranno – magari anche a prezzo di favore – i beni sporchi di sangue che erano il simbolo del loro potere.
Vendere i beni confiscati alla mafia vuol dire una cosa sola: che lo Stato italiano, sia quello marcio e amico dei mafiosi, sia quello onesto (perché, nonostante lo si veda poco, esiste anche uno Stato onesto...) si è arreso alle volontà della mafia. Non è solo una resa economica e politica. È prima di tutto una resa di carattere culturale. Perché non è più la mafia che deve pagare il conto, ma è lo Stato che paga il conto alla mafia. Ma questa è un'altra storia...