“Dove il figlio sotterra la madre e non succede mai l'inverso”.
È un verso di “30.000 hermanos”, canzone scritta da Luca Persico – meglio noto come Zulù, frontman e anima dei 99 Posse – che prende spunto dalla forza e dalla vicenda delle Madres de Plaza de Mayo, le madri dei desaparecidos argentini. Cioè di quelle ragazze e quei ragazzi che circa 30 anni fa in Argentina sono spariti, nel giro di pochissimo tempo, perché non si erano voluti piegare alla dittatura militare allora vigente. Queste madri sono passate alla storia perché da oltre 30 anni si riuniscono tutti i giovedì nella piazza principale di Buenos Aires – Plaza de Mayo, appunto – per chiedere la reaparicion con vida de sus hijos. La riapparizione in vita dei propri figli. Perché loro non sanno se sono morti, vivi, se sono detenuti e, se lo sono, dove.
E poi ci sono altre madri che invece sanno benissimo dove sono i loro figli, ma anche loro da oltre 30 anni non si rassegnano. Non chiedono la riapparizione dei loro figli, perché lo sanno benissimo dove sono i loro figli, uccisi in una guerra per il predominio ideologico combattuta in questo paese negli anni '70.
Queste madri, come le Madres argentine, non chiedono altro che giustizia.
Quella giustizia che in questo paese troppe volte viene deviata, offuscata, negata. In nome di cosa, poi, ancora non lo si è capito...
Carla è la madre di Valerio Verbano, un ragazzo – anzi, un compagno – ucciso a 19 anni sul divano di casa sua, in via Monte Bianco 114 nel quartiere Monte Sacro a Roma. Siamo nel 1980, ed a quel tempo quel quartiere è una “zona rossa” per eccellenza. Così come il quartiere Trieste è la roccaforte dei giovani di destra di Terza Posizione. Ma procediamo per gradi.
Valerio nasce a Roma il 25 febbraio del 1961, iniziando la sua militanza – nel Collettivo autonomo Valmelaina – al liceo scientifico “Archimede”. Come molti ragazzi i suoi interessi non si limitano solo allo studio ed alla militanza politica. C'è infatti la musica (Beatles e Pink Floyd su tutti) e c'è lo sport. C'è la Roma, la sua squadra del cuore e ci sono judo e karate, discipline che Valerio pratica abitualmente. E c'è poi un'altra passione, una di quelle che in alcuni casi può rivelarsi una passione decisamente pericolosa, in particolare se ad essa associ anche la militanza nella sinistra extraparlamentare – Valerio era infatti un “autonomo”, cioè un militante di Autonomia Operaia – che è la fotografia.
Seguendo una consuetudine diffusa nell'area della sinistra extraparlamentare, Valerio inizia ad indagare in prima persona sul mondo dell'estremismo di destra nella capitale, nella “sua” Roma. È talmente bravo, Valerio, da arrivare a creare un vero e proprio archivio, con tanto di nomi, abitudini, foto, luoghi di riunione, amicizie politiche e presuti legami con gli apparati statali. Tutti questi documenti vengono raccolti in un vero e proprio dossier: il “Dossier NAR”.
L'acronimo NAR – Nuclei Armati Rivoluzionari il nome “per intero” – è stata probabilmente la sigla principale dell'eversione di destra di quel periodo, che vide come punto di massimo “splendore” la strage alla stazione di Bologna del 2 Agosto 1980 per la quale vennero condannati – tutti con sentenza definitiva – Valerio “Giusva” Fioravanti, Francesca Mambro, moglie del Fioravanti e Luigi Ciavardini. Ha destato scandalo, il 2 agosto di quest'anno, la notizia del ritorno in libertà di Fioravanti dopo 26 anni di detenzione. Ma questa è un'altra storia...
“Speravo che Valerio avesse un piccolo incidente con la Vespa, che cadesse. Insomma: qualunque cosa purché non tornasse a casa”.
Sono le parole di Carla dopo il 22 febbraio 1980. Proprio “quel” 22 febbraio. Quando Valerio viene ucciso. Ma, ancora una volta, procediamo per gradi.
Sono le 13, i genitori di Valerio sono da poco tornati da una visita ortopedica del padre Sardo e Valerio è ancora a scuola. Ad un certo punto suonano alla porta: “Siamo amici di suo figlio e vorremmo parlargli”, si sente dire da dietro il portone di casa. La madre, abituata ad avere gli amici di Valerio in casa, apre.
Ma subito si ritrova tre uomini con passamontagna che la immobilizzano e la portano nella sua camera da letto, dove immobilizzano anche il padre di Valerio. Uno dei tre uomini rimane a fare la guardia ai genitori, mentre gli altri due percuisiscono la camera del giovane autonomo. In cerca di cosa? Forse di quel famoso “dossier”? E cosa c'era di così scottante da dover essere messo a tacere? Sono domande senza risposta, sia perché Valerio viene ucciso con un colpo sparatogli alla schiena da uno dei tre uomini (che non saranno mai identificati...), sia perché – come nella miglior tradizione italiana – quel dossier, insieme ad altre prove sequestrate dalle autorità, sparisce. Così, da un giorno all'altro. Misteriosamente. Senza che nessuno capisca perché è sparito. L'ultima persona ad averlo avuto tra le mani è il giudice Mario Amato che, come Valerio, stava indagando sull'eversione di matrice “nera”, come si sarebbe detto a quel tempo. Il giudice Amato muore per mano dei NAR il 23 giugno dello stesso anno. Ciò avvalora la tesi che in quei documenti c'era qualcosa che nessuno doveva vedere. Rispondere alla domanda “cosa?”, però, equivarrebbe ad un semplice gioco di congetture e fantasie. Quindi, come tante volte in quel periodo, anche questa domanda non ha ancora trovato risposta. Ed anche in questo caso sono passati 30 anni.
Ogni volta che ho affrontato la storia di Valerio Verbano ci sono state sempre due cose che mi hanno in qualche modo colpito: una, l'abbiamo appena vista, è quella frase della madre: “speravo avesse un incidente e che non tornasse a casa”.
L'altra, se la si vuol leggere sotto un'ottica strana, un'ottica per certi versi “complottistica” se così possiamo dire, riguarda il bailamme delle rivendicazioni. Uno dice: sono stati tre militanti dei NAR ad uccidere Valerio, quindi cosa vuoi rivendicare? Ed invece no, perché la prima rivendicazione non è dei NAR. Intorno alle 20 del 22 febbraio, infatti, i “Gruppi Proletari Rivoluzionari Armati” (area della sinistra cosiddetta estrema) rivendicano l'omicidio: “è stato un errore, volevamo gambizzarlo. Verbano è un delatore, un servo della polizia”, dicono. Un'ora dopo, invece, arriva la rivendicazione dei “NAR Avanguardia di Fuoco”: “abbiamo giustiziato Valerio Verbano, mandante dell'omicidio Cecchetti. Il colpo che l'ha ucciso è un proiettile calibro .38. Abbiamo lasciato una 7,65. La polizia l'ha nascosta”.
Dicono proprio così: “Abbiamo lasciato una 7,65. La polizia l'ha nascosta”. Ora, facendo il conto dell'oste, come si suol dire, con una frase del genere si dovrebbe intendere che la polizia proteggeva i militanti dei NAR. Verità o depistaggio? Non si sa, o almeno se si vuol leggere gli anni '70 con delle lenti obiettive non si riesce a rispondere. Quel che si sa, però, è che dopo alcune ore tutti ritrattarono. I “rossi” come i “neri”, che però dopo un po' sfornano una seconda rivendicazione, dicendo che “il martello di Thor ha colpito a Monte Sacro”. Anche questa rivendicazione, però, viene nuovamente smentita.
Ma perché Valerio Verbano è stato ucciso?
Una verità “vera”, accertata ed oggettivamente riscontrata non c'è. Ci sono però almeno tre ipotesi, tutte e tre in qualche modo possibili, che il padre di Valerio – Sardo, che a quel tempo fa l'assistente sociale per il Ministero degli Interni – riesce a tirar fuori dalle sue contro-indagini:
1° movente: è il 19 settembre 1979, piazza Annibaliano, quartiere Trieste. Zona “nera”, abbiamo detto. C'è uno scontro tra quattro autonomi e un gruppo di appartenenti a Terza Posizione. Valerio, per difendere un compagno aggredito ferisce con una coltellata un ragazzo di destra, Nazareno “Nanni” De Angelis, uno dei leader di Terza Posizione (ma mai appartenuto ai NAR, come gli stessi genitori di Valerio Verbano diranno poi in seguito, scagionando De Angelis dall'accusa di essere il mandante dell'omicidio). Negli scontri Valerio riceve una martellata in petto, perdendo la borsa di tolfa nella quale aveva riposto i documenti (secondo il fratello di De Angelis, Marcello, nella borsa c'erano invece solo un goniometro ed una penna...).
Il secondo movente – lo abbiamo visto in precedenza – è legato al dossier, mentre il movente numero 3 è forse quello più inquietante, e stranamente non è mai stato preso in considerazione dagli inquirenti (e ciò mi fa pensare che possa essere la pista che più si avvicina alla realtà, ma sono mie supposizioni e nulla più): per creare il suo dossier, Valerio si è fatto aiutare da infiltrati ed informatori nei movimenti di destra, tra cui Marco Guerra, che all'epoca si riconosceva nel "Movimento Comunista Rivoluzionario" ma che fino al 1978 aveva militato nella destra extraparlamentare. Ecco: il terzo movente riguarda proprio questo: un possibile “accordo bipartisan”, come si direbbe oggi, tra autonomi e neo-fascisti (cioè tra “rossi” e “neri”) in merito a traffici di droga ed armi, e quindi al loro accordo per eliminare Valerio, colpevole di aver visto (e magari fotografato?) questi accordi. Ovviamente non ci sono prove, ma come spiegare altrimenti la rivendicazione – per altro la prima arrivata – dell'estrema sinistra?
A questo punto due sono le strade percorribili: o Valerio aveva visto qualcosa che non doveva vedere (magari qualcosa relativo a questo terzo movente? Oppure qualche rapporto tra l'estrema destra e qualche figura istituzionale “al di sopra di ogni sospetto”?), oppure Valerio doveva essere fermato prima di arrivare a qualcosa. Magari qualcosa al quale sarebbe potuto arrivare tramite il dossier. Che infatti, come nella miglior tradizione italiana, è magicamente scomparso.
Sono domande senza risposta, come al solito. L'unica cosa che si sa è che in questi giorni a Valerio verrà dedicata una via a Napoli, a Scampia per essere precisi, così da farlo conoscere a quei ragazzi che non hanno avuto modo di conoscerne la storia. Non sarà molto, ma in un paese in cui si tolgono intitolazioni a grandi uomini come Peppino Impastato per sostituirli con personaggiucoli dalla dubbia nomea, intitolare una strada a Valerio diventa atto di coscienza civile, quella coscienza che troppe volte, in questo paese, viene meno.