Do svidaniya America?


La prima cosa che ho pensato quando ho visto questo video [per i lettori di Facebook: http://www.youtube.com/watch?v=hlKzeBGUBuk] è stato che i nostri parlamentari, al confronto, sono ancora dei neonati: fanno parte della quotidianità i calci, i pugni e gli insulti che si alzano dai nostri scranni parlamentari, ma ai fumogeni ancora non ci siamo arrivati. Incuriosito – anche perché il commento è, come sentite, in russo (lingua che non parlo e non capisco) ho fatto una piccola ricerca sulla rete per saperne di più.
Quella che potremmo definire una “dialettica accesa” altro non era che il risultato della ratifica, da parte del Parlamento ucraino, dell'accordo tra il presidente russo Dmitrij Anatol'evič Medvedev ed il suo corrispettivo ucraino Viktor Fedorovych Yanukovych riguardante la proroga dell'affitto della base di Sebastopoli (nella Repubblica autonoma di Crimea) per altri 25 anni – a partire dal 2017, data di scadenza del precedente accordo – alla flotta di Mosca. L'Ucraina, in compenso, riceverà 100 milioni di dollari di affitto ed uno sconto del 30% sul gas russo, necessario per mantenere in vita l'industria della parte est del Paese.
L'opposizione ucraina, capeggiata dai filo-americani Julija Volodymyrivna Tymošenko (leader dell'Unione di Tutti gli Ucraini "Patria" e del Blocco Elettorale Julija Tymošenko) e Viktor Andrijovyč Juščenko, che nel 2005 salirono agli onori della cronaca mondiale per essere i due volti della c.d. “rivoluzione arancione” e che oggi hanno decisamente mutato la natura dei loro rapporti, ha tentato più volte – come è evidente dal filmato – di bloccare la ratifica che, secondo loro, altro non sarebbe che il ritorno dell'egemonia del Cremlino su Kiev e dintorni.

Chiusa infatti l'epopea delle grandi ideologie con il crollo del Muro nel 1989, l'allora Unione Sovietica si ritrovò da potenza egemonica nell'area a doversi reinventare completamente: la crisi socio-economica interna e la dissoluzione territoriale ne avevano infatti minato la caratura internazionale, aprendo – de facto – lo scenario geopolitico all'egemonia statunitense che abbiamo vissuto fino ad oggi, resa possibile anche dall'assenza di un'ideologia che ne controbilanciasse il potere di soft power derivante dalla fine dell'ideologia comunista.

È ancora così, oggi? Siamo ancora in una situazione geopolitica in cui esiste una grandissima potenza – gli Stati Uniti – alla quale non corrisponde niente?

Stando a quel che avviene sembrerebbe proprio di no.

Eliminata dai giochi la “vecchia” Europa, la cui unità è – come sempre – una mera concezione formale ed ormai da decenni scalzata dal ruolo egemonico che aveva in epoca coloniale, anche gli Stati Uniti sembrano vivere un periodo di salute precaria, non solo dovuta alla crisi economica che ha colpito indistintamente tutti i paesi e che può (potrebbe?) identificarsi come il grimaldello della fine del regime neo-liberista di marca tatcheriano-reaganiana, ma anche per la perdita di interesse ideologico dovuto sia alla guerrafondaia amministrazione di Bush jr, sia – e forse soprattutto – alla fine del “nuovo sogno americano” incarnato dall'attuale amministrazione Obama, il cui appeal iniziale (o, per meglio dire, la propaganda fatta dagli opinion-maker internazionali in suo favore) gli si sta ritorcendo contro. Ed il non ritiro delle truppe dai due fronti principali – Afghanistan ed Iraq – e l'imbarazzo con cui, da più parti, si è dovuta commentare l'assegnazione di un Premio Nobel per la Pace francamente inconcepibile sono lì a testimoniarlo.

Barry Buzan – professore di Relazioni Internazionali alla London School of Economics – nel suo “Il gioco delle  potenze” ci ricorda che è storicamente comprovato che tutti gli imperi, e dunque tutte le egemonie, sono ciclici. Questo vuol dire che ad un loro inizio ed alla corrispondente fase di espansione, ne deriva una altrettanto certa fase di declino e di declassamento dallo status di superpotenza a quello di grande potenza, situazione che egli colloca a partire dal 2020. Per chi non ha dimestichezza con le Relazioni Internazionali, più o meno la situazione funziona così: l'industrializzazione di nuovi paesi e la perdita di leadership culturale (intesa in termini di condivisione dei valori portati dalla superpotenza) sono le principali cause scatenanti del declino di una superpotenza. È avvenuto con la Gran Bretagna, sostituita da grandi potenze europee (Germania, Francia, Russia), dal Giappone e dagli Stati Uniti che, favoriti anche da una fortuna geografica – cioè quella di non aver subito lo stress dei conflitti mondiali sul proprio territorio – si sono ritrovati, a partire proprio dalla fine del II conflitto mondiale, a ricoprire un ruolo via via più egemonico, che vede il periodo di massimo splendore proprio a partire dalla distruzione dell'Unione Sovietica e del suo costrutto ideologico. Fino ad arrivare alla situazione che tutti conosciamo.
Ma abbiamo detto che l'egemonia è un fenomeno ciclico, per cui negli ultimi tempi, sembra registrarsi un'iniziale declino dell'”Impero a stelle e strisce” e l'avvento di un gruppo più o meno variegato di grandi potenze, soprattutto a partire da quell'America Latina che, con l'elezione di José Alberto "Pepe" Mujica Cordano, l'ex tupamaro divenuto Presidente della Repubblica in Uruguay che va ad aggiungersi alle ormai consolidate situazioni in Venezuela e Bolivia, sembra avvicinarsi sempre di più a quell'idea di “Patria Grande” che, da Simón Bolívar e José Martí e passando per Che Guevara, si riscontra oggi in Evo Morales e – soprattutto – in Hugo Rafael Chávez Frías (che, per questo, viene rappresentato dalla stampa occidentale come l'ennesimo dittatore sudamericano).
  • L'egemonia venuta dal freddo
Oltre al continente latinoamericano, anche la Russia – come abbiamo visto – capeggiata dalla strana coppia Medvedev-Putin sembra stia rialzando la testa, allungando nuovamente le mani sui suoi ex-satelliti. Finita l'epoca delle annessioni sul piano politico e geografico, sono oggi l'economia e lo sfruttamento delle risorse naturali ad essere il vero strumento di politica estera russo, con la compagnia Gazprom a ricoprire il ruolo principale (Ucraina docet).
Il “però” legato all'eventuale sviluppo egemonico della Russia, sta in un particolare non certo infimo e da sottovalutare: come la prenderanno le potenze asiatiche (leggasi alla voce Cina) la possibilità di avere una concorrente ben attrezzata nell'area? Riusciranno a convivere – come avviene dal 2001 nell'ambito della Shanghai Cooperation Organization – oppure chiederanno ognuna la testa dell'altra? 

Attualmente però, le preoccupazioni di Mosca sembrano essere non tanto quelle derivanti dal settore asiatico, quanto da quello mediorientale, dove l'ago della bilancia negli attuali rapporti Russia-Stati Uniti è costituito da Teheran.
Per quanto, infatti, gli organi di informazione occidentali definiscano il regime teocratico – ed il suo “volto politico” Mahmud Ahmadinejad – come il Male assoluto, il ruolo ricoperto dall'Iran sta diventando sempre più strategico nell'area, ed è forse questo il motivo per cui gli Stati Uniti ancora non hanno scatenato alcuna guerra contro la patria della rivoluzione khomeinista, legale od illegale che sia.

Schierandosi contro gli Stati Uniti – e la richiesta di ingresso nello Sco (Shanghai Cooperation Organization) sembra andare in questo senso – Teheran non fa altro che fare in qualche modo un favore a Mosca, costringendo tutto l'Occidente a dipendere ancora dalle risorse energetiche russe e, dunque, legittimando lo status di potenza regionale che, ad oggi, Mosca ha nel settore europeo. In questo caso assume ancora più importanza l'affaire nucleare di Teheran, che dunque non ha niente a che vedere con la paura che Al Qaeda possa dotarsi di ordigni nucleari, come Obama ed i suoi uomini tentano di venderci sul piano mediatico la questione; il blocco nucleare imposto a Teheran non servirebbe ad altro che ad evitare uno scenario completamente nuovo nell'area euro-asiatica: la nascita di un fronte Teheran-Mosca-Pechino, incentrata tutta sulla potenza energetica, e che potrebbe anche costituire il fulcro di un “ragionamento asiatico” dell'Europa, che abbandonerebbe così gli Stati Uniti, magari con qualche sconto sull'energia fornita dalle tre nazioni.
Anche perché, è evidentissimo in questi giorni, per quanto esistano istituzioni sovranazionali che ne danno una parvenza unitaria, i paesi europei sono tutto tranne che uniti: la risoluzione della controversia greca, con la Germania che spera in una dipartita degli ellenici dall'UE e gli altri paesi che invece tentano di salvarla è lì a testimoniarlo. In tutto questo c'è un'unica certezza: che la Grecia, affidandosi alle “cure” del Fondo Monetario Internazionale – cioè alle cure della scuola di Milton Friedman – diventerà la nuova Argentina.

  • La Revolución Bolivariana
Se il settore euro-asiatico è da tenere d'occhio, per Washington molto più pericolosa è la vitalità che, da qualche anno a questa parte, sta ritrovando l'America Latina la quale – come abbiamo visto in precedenza – si avvicina sempre più alla realizzazione di quell'idea di una nazione-continente che Simón Bolívar – al quale si rifanno molti dei presidenti di sinistra nel continente – definiva “Patria Grande”. Nonostante la stella della Revolución per antonomasia, cioè quella cubana, si sia appannata con gli acciacchi dell'età di Fidel Castro, oggi l'America Latina sembra avere la forza necessaria per scrollarsi di dosso quell'etichetta di “giardino di casa” con cui Washington l'ha sempre considerata. Grazie alla forza mediatico-ideologica di personaggi come  Chávez e Morales, ormai avviati a diventare le punte di diamante del Fronte Antimperialista e ad un tipo di società che si pone quasi per connotazione naturale in contrapposizione al regime liberista (si guardi, ad esempio, al diverso rapporto con le risorse naturali tra i due mondi...) l'America Latina potrebbe rappresentare – di qui a qualche anno – la vera risposta all'egemonia americana, nonostante il modello americano, quantomeno quello iniziale, ne sia in qualche modo punto di riferimento.
La costituzione dell'ALBA (che dall'ultimo cambio di nome è diventata Alianza Bolivariana para los pueblos de Nuestra América, riprendendo il nome di uno scritto di José Martí) non è solo il primo passo verso la costituzione di un'entità sovranazionale – la Comunità Latinoamericana e Caribeña di Nazioni – che dovrebbe svilupparsi sulla falsariga dell'Unione Europea, con tanto di eliminazione delle barriere doganali interne e la creazione di una moneta unica, ma anche la risposta “bolivariana” - e dunque in qualche modo politico-ideologica – all'ALCA (Área de Libre Comercio de las Américas), che altro non è che la riproposizione dell'adattamento degli accordi del NAFTA, cioè degli accordi di libero mercato tra Stati Uniti, Canada e Messico, che di fatto non fanno altro che adattare i rapporti di forza americani al nuovo millennio.
Anche in questo caso ci sono almeno un paio di “però”: il primo deriva dall'evidente personalismo che caratterizza i politici latinoamericani, che quindi diverrà un importante interrogativo nel momento del ricambio  degli attuali leader, il secondo riguarda il ruolo del Brasile. 
  • Da che parte sta il Brasile?
    I rapporti di amicizia tra il Venezuela e l'Iran sono storia nota, come lo sono quelli tra Venezuela e Cuba, la cui collaborazione sociale ed economica è probabilmente la più importante dell'area, un po' meno mediatizzati sono i rapporti tra il Venezuela e la Russia, basati principalmente sullo scambio armi-risorse energetiche tra i due paesi.
    Ancor meno reclamizzati, però, sono i rapporti tra Brasile e l'America che, dopo aver installato una serie di basi americane nella Colombia di Álvaro Uribe Vélez, sta tentando di fare la stessa cosa con il paese presieduto – ancora per poco – da Luiz Inácio “Lula” da Silva, così da poter isolare militarmente proprio la nazione chavista (ed una presenza costante di militari nelle vicinanze potrebbe rivelarsi utile nel caso si voglia ritentare un colpo di stato, visto che quello tentato nel 2002 fallì miseramente). L'operazione di insediamento militare degli Stati Uniti, peraltro, sarebbe ancor più semplice se alle prossime elezioni – come appare dai primi studi elettorali – salisse al potere un governo di destra (anche se Lula, e dunque si immagina anche la sua delfina Dilma Vana Rousseff, non sembra avere uno spirito antiamericano e soprattutto anticapitalista così evidente...).

    America Latina, Russia, Cina, Iran. Sembrano essere questi – insieme all'India – i giocatori di una prossima partita per l'egemonia del mondo. Una partita alla quale gli yanquis non sono stati invitati.