Ecco perché, questa volta, ha ragione Brunetta
Scritto da
Andrea Intonti
Pubblicato
1/22/2010 05:00:00 PM
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«Perché la destra spopola in Italia?»
Quante volte abbiamo proferito, noi popolo di sinistra, extra-sinistra,preudo- e proto-sinistra, o ci siamo sentiti domandare questo? Non so voi, ma io l'ho sentita parecchie volte, e mai una volta che fossi riuscito a rispondere. Almeno fino ad oggi.
La risposta che inizia a balenarmi in testa è che oggi, in Italia, l'”emisfero di destra” abbia una marcia in più rispetto all'”emisfero di sinistra”. Semplicemente.
Non è uno spostamento a destra, il mio. È semplicemente una constatazione. Perché oggi l'humus socio-culturale in cui si muove un “destrorso” mi sembra abbia qualcosa in più da dire rispetto a quello di una persona che si rifà alla sinistra, indipendentemente da quali ne siano le appartenenze partitiche e le sfaccettature ideologiche.
Questo mi deriva innanzitutto da una constatazione in qualche modo storica, derivante dal fatto che oggi, periodo in cui domina la destra, la situazione partitica sia speculare a quello che io individuo come il periodo di maggior successo della sinistra: gli anni '70, o comunque il periodo legato agli anni della contestazione, croce e delizia di questo paese non si sa da e per quanto tempo.
In quel periodo, a sinistra c'era il Partito Comunista, e a sinistra del PC
potevamo trovare una florida scelta di partiti e movimenti – le cui differenze mi sembrano sempre più sottili – che andavano, appunto, dal “grande” partito di Berlinguer a Lotta Continua, passando per Democrazia Proletaria, Autonomia Operaia, Potere Operaio e così via, tutti con una propria nitida demarcazione sia in termini di politica in quanto “azione” sia in termini di politica come “ideologia”. E questo garantiva una certa vitalità non solo in questi due campi, ma anche – e direi soprattutto – in termini di cultura e che solleticava aderenti, elettori e simpatizzanti prima di tutto sul piano culturale. Ognuno di questi – che avessero la forma di partito o di movimento – aveva comunque un suo spazio più o meno rilevante sullo scenario politico nazionale, con l'area di destra riconducibile per lo più o al Msi-Dn o comunque alla Democrazia Cristiana (nonostante i grandi conflitti interni tra dorotei, morotei etc). Se, dunque, da una parte (la destra) si era in una situazione, in termini partitici, di quasi duo-polio, dall'altra si registrava una situazione che – utilizzando lo stesso paragone economico – definiremmo di concorrenza (oserei dire di libero mercato se questo termine non facesse trasalire se accostato al termine sinistra).
Oggi, al contrario, siamo arrivati ad una situazione che non è esattamente opposta, ma quasi. Da una parte abbiamo il PdL con, alla sua destra, un certo sommovimento districato tra La Destra di Storace, Casapound ed una serie di “nanetti” - come direbbe Giovanni Sartori – che entrano o escono nel grande partito egemonizzatore dell'area a seconda delle intemperanze di qualche capo-popolo pidiellino. Dall'altra parte, invece, abbiamo un partito che non sa cosa vuol diventare da grande – il PD – indeciso se spostarsi al centro o a sinistra, ed una serie di partiti-servitù, nati – come nel caso di SinistraeLibertà (o come si chiami in questi giorni) – dello “zero virgola talmente poco”, come direbbe Gaber, da essere già difficilmente rilevabili dal punto di vista elettorale, figuriamoci da quello politico o culturale. Una situazione diametralmente opposta, appunto.
Perché questo rovesciamento? Perché nel periodo dell'egemonia di sinistra la destra “lottava” per il proprio spazio e, una volta avutane la possibilità, cioè una volta chiamata a governare il Paese ha saputo offrire un modello diverso da quello che aveva sempre proposto la sinistra e che, evidentemente, non era più il modello a cui si riferiva l'elettorato. Perché alla fine un partito nasce – o dovrebbe nascere – principalmente per questo no? Per soddisfare delle domande, inevase, dell'elettorato. Oggi la sinistra, è un dato di fatto non solo in Italia, non è più capace neanche di intercettarle quelle domande, figuriamoci se è in grado di trovarne le risposte! Perché da un po' di tempo a questa parte la sinistra – o meglio i suoi esponenti politici – si sono messi in testa di giocare a fare gli uomini di destra, per cui ecco l'inutile proliferazione di partiti nati solo per soddisfare il proprio ego smisurato – come nel caso di Nichi Vendola, che sempre più si avvia a diventare il “Berlusconi de noantri”, basti guardare le risposte date nelle interviste di questi giorni a chi gli chiedeva conto dei suoi veri o presunti guai con la giustizia – o che vivono non tanto di ideologie ormai sorpassate, ma di uomini sorpassati. Non credo che, a destra, ai tempi delle federazioni giovanili negli anni '70 si potessero trovare ai vertici Tremonti, Gasparri, Storace o l'onnipresente urlatrice televisiva Santanché, mentre dal lato sinistro a governare sulla federazione giovanile c'erano – come oggi – D'Alema e Veltroni, che portano avanti una classe politica che non si sa se sia più vecchia nell'anagrafe o nelle idee.
Mi rendo conto perfettamente che sto parlando alla Grillo – personaggio sul quale ci sarebbe da aprire una florida letteratura – ma il problema di questo paese è esattamente questo, e proprio in tal senso si inserisce la provocazione di Brunetta. Perché la proposta di legge sull'uscita di casa dei ragazzi a 18 anni è naturalmente una provocazione, ma a mio modo di vedere bisognerebbe riflettere di più in merito, invece che leggerla con le lenti ideologiche bollandola immeditamente come “l'ennesima cazzata del secondo nano più malefico degli ultimi 150 anni”.
Tralasciando il fatto che nonostante siamo entrati da un po' in quello che chiamano “Terzo Millennio” continuiamo a ragionare dal nostro comodo e sicuro giardinetto ideologico, senza andare a guardare se nel giardinetto del vicino c'è qualcosa di interessante, l'uscire di casa a 18 anni è innanzitutto rischiare e prendersi le proprie responsabilità. In una parola: crescere. D'altronde, quando Francesco Guccini canta “Uscir di casa a vent'anni è quasi un obbligo, quasi un dovere, piacere d'incontri a grappoli, ideali identici, essere e avere ” cone nella splendida “Piazza Alimonda” credo nessuno si azzarderebbe a dargli del fascista (ma la mano sul fuoco non ce la metterei, vivendo in Italia...).
Perché il problema di fondo – che si parli di bamboccioni diciottenni, ventenni o quarantenni – è esattamente questo: la paura di rischiare e di prendersi le proprie responsabilità. E non credo di inventare niente di nuovo o disvelare alcuna verità indicibile affermando ciò.
Enrico Mattei per la sua ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) voleva come classe dirigente dell'Ente persone che non superassero i 35 anni di età e che avrebbero dovuto fare almeno un'esperienza all'estero. Giovani svegli, detto in altri termini. Ma siamo negli anni '50, quando ancora a qualcuno interessavano le sorti di questo paese. Altri tempi, insomma.
Guardiamola oggi, la “classe dirigente” (mi limito a quella politica, che è la materia del contendere di questo scritto): Berlusconi ha 74 anni, D'Alema 61, Bersani 59, Fini 58. La “speranza” del mondo – Obama – ha 49 anni, Guido Westerwelle – vicecancelliere tedesco – anche, David Cameron, capo dell'Opposizione inglese ne ha “addirittura” soli 44, in Italia starebbe ancora chiuso in qualche consiglio comunale!
Possiamo ancora andare avanti così? Possiamo ancora continuare a vivere in questa società gerontocratica? Io dico di no, anche se la domanda principale è un'altra: «Perché siamo ancora governati dai dinosauri?»
Grillo ha ragione quando dice, o meglio fa intendere, che la classe politica deve essere sostituita, ma con cosa, se non abbiamo una classe politica giovane (o più giovane) con cui pensionarla?
Ed ecco che qui la provocazione di Brunetta inizia ad avere un suo senso: Perché Mattei voleva dei “giovani rampanti” a dirigere un ente statale delle fattezze dell'ENI di quel tempo (cioè una delle aziende strategiche per il paese)? Perché aveva bisogno di gente “sveglia”, che avesse il coraggio di rischiare. Di persone che non fossero troppo attaccate alle proprie sicurezze (politiche, economiche o di poltrona è qui indifferente), che non avessero paura di perdere la propria posizione in caso di errore e che, soprattutto, avessero una visione su un ipotetico paese del futuro. Che è esattamente quel che manca alla nostra classe dirigente che, spesso, si trova a girare per il Potere – spostandosi di volta in volta dallo scranno parlamentare a quello di un c.d.a. di un'azienda pubblica o privata e viceversa – da trenta e più anni. Sono lì, dettengono gli scettri del potere e dettano le politiche del paese da una generazione esatta. E continueranno a rimanere lì per altre due, tre, dieci generazioni se i giovani non decidono di mettersi in discussione, rischiando anche il fallimento (che, quando ti inculcano fin dalla culla l'idea del successo ad ogni costo, indipendentemente dalle tue capacità, non è contemplata nelle poche parole che si conoscono della lingua italiana...), ma andandosi a prendere quel che gli spetta! Ma per andare a prenderti “quel che ti spetta” innanzitutto devi sapere cosa vuoi andarti a prendere, cosa che noi giovani, spesso, non sappiamo. Perché ci hanno insegnato a non avere troppi “grilli per la testa”, ci hanno insegnato che “appena hai il posto fisso...”, che “chi te lo fa fare di rischiare?”. Ci hanno insegnato che finché c'è il “vecchio lupo di mare” a dettare legge, che sia in un'azienda, in un partito politico, che sia un “vecchio” docente universitario rimarrà al suo posto, anche se non è più in grado di leggere la società in cui vive. Perché ci hanno insegnato che il “Potere” - quello a cui questi dinosauri si aggrappano con le unghie e con i denti – non si contesta. Che è esattamente l'idea che, negli anni '70, si combatteva. Ed è per questo che, in questo caso, ha ragione il Ministro della Funzione Pubblica: perché “uscir di casa a vent'anni è quasi un obbligo, quasi un dovere”: il dovere di prendersi il rischio di portare questo Paese nel futuro.