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foto: proceso.com.mx |
Il giorno dopo è toccato alla compagnia Dipsa – che distribuisce tra le altre anche il settimanale Proceso - il cui palazzo è stato dato alle fiamme. Il gruppo, scriveva Patrick Corcoran su insightcrime.org lo scorso 6 agosto[1], ha una importanza vitale essendo l'unico distributore locale di giornali. Su un muro interno dell'edificio, evidenzia l'articolo, gli inquirenti hanno trovato le scritte “S” e “TER” delle quali rimane però ancora sconosciuto il significato.
Troppi galli nel pollaio. Che oggi il giornalismo in Messico sia, non certo per scelta propria, una delle parti in causa della guerra scatenata dai cartelli della droga lo dicono i numeri, come quelli della Commissione nazionale sui Diritti Umani che parla di 81 giornalisti uccisi e 14 scomparsi dal 2000[2] o degli innumerevoli attacchi alle sedi dei giornali che per questo decidono di dedicarsi ad altro, arrivando a forme di totale auto-censura verso le informazioni che riguardano la criminalità organizzata, come capitato con El Mañana[3].
Oltre agli attacchi alla stampa – che per quanto riguarda l'ex braccio militare del Cártel del Golfo rientrano in una più ampia politica di immagine (criminale) – un altro episodio eloquente in tal senso è accaduto il 13 maggio, quando Jesús Elizondo Ramírez, detto “El Loco”, leader Zetas a Cadereyta, nello stato di Nuevo León, ha disobbedito agli ordini di Miguel Ángel Treviño Morales detto “Z-40” e da qualche mese ribattezzato “il nuovo Giuda”. Elizondo Ramírez, arrestato pochi giorni dopo, ha raccontato ai militari di aver ricevuto ordini dai due leader dei Los Zetas (oltre a Treviño Morales, il gruppo è guidato dall'unico dei fondatori ancora in vita, Heriberto Lazcano Lazcano detto “El Lazca” o “Z-3”) per abbandonare i 49 corpi mutilati[4] – appartenenti a sei donne e 43 uomini – nella piazza principale di Cadereyta, ma di avervi disobbedito conscio delle conseguenze che questo atto avrebbe rappresentato per lui.