foto: lavoce.cz |
Roma, 26 marzo 2012 – Seconda ed ultima parte (la prima potete leggerla qui) del nostro viaggio in “Organizatsya”, nome con cui si indica tutto quell'universo di organizzazioni criminali dell'area ex-sovietica che per semplicità chiamiamo “mafia russa”. Dopo aver conosciuto alcuni dei suoi uomini chiave, ed aver visto come e quando in Italia inizia ad esserci un serio “allarme”, in questa seconda parte – che rappresenta anche la fine del nostro approfondimento cominciato agli inizi di febbraio – vedremo quale è stata la storia di questa organizzazione e fin dove, ad oggi, i nostri inquirenti sono arrivati.
A creare – quanto meno in termini mediatici – la “mafija” russa, nel 1988, è il tenente colonnello Aleksander Gulov, che per la prima volta ne denuncia l'esistenza in un'intervista al settimanale “Literaturnaja Gazeta”. L'organizzazione, però, nasce già negli anni Venti del secolo scorso, all'epoca dei gulag staliniani, dove venivano inviati capi-banda, estorsori e traffichini vari, che si impossessavano della gestione delle poche risorse presenti nei campi, dove i gruppi criminali crearono una prima forma di struttura gerarchica nazionale ed un vero e proprio codice d'onore, che prevedeva l'impossibilità di relazionarsi con le autorità, sia all'interno che all'esterno del campo, il rifiuto della violenza – derogabile solo in caso di legittima difesa – e la risoluzione pacifica delle controversie che potevano nascere tra i gruppi e solo dopo parere favorevole dello “Skhodka”, un vero e proprio tribunale dell'organizzazione, al quale era affidato anche il compito di affiliare nuovi membri. Particolare, per quella forma di criminalità, era l'idea del denaro – che nei campi veniva acquisito per lo più attraverso estorsioni, saccheggi e gioco d'azzardo – il quale non doveva essere usato per l'arricchimento del singolo ma messo a disposizione dell'intera organizzazione attraverso una cassa comune, detta "Obshchak”, che doveva essere finanziata anche una volta usciti dal campo, così da trovare il necessario sostentamento per le famiglie degli internati (pratica che ben conosciamo attraverso i racconti fatti da esponenti della camorra campana, ad esempio).
Le uniche cose che verranno tramandate alla criminalità organizzata venuta a colmare il vuoto di potere ed economico derivante dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica saranno il culto dei tatuaggi, utilizzati per raccontare la storia criminale del singolo affiliato, e il “capitale mitologico” - come lo chiama Federico Varese, professore di criminologia ad Oxford ed autore nel 2001 di “The Russian Mafia. Private protection in a new market economy” - su cui gli affiliati basavano la propria morale.
Questa nuova “mafija” nasce sfruttando due fattori della crisi sovietica: da un lato l'apertura ai capitali privati della perestrojka, dall'altro l'estrema facilità con cui si potevano corrompere gli uomini delle istituzioni negli ex paesi satelliti. I metodi utilizzati sono gli stessi delle altre organizzazioni: traffici internazionali, in particolare quello degli esseri umani declinato nel business della prostituzione, quello delle armi, dove Viktor Bout[1] rappresenta ancora oggi una leggenda e quello della droga, soprattutto eroina ed oppiacei, seguite dalla cannabis, dalle droghe sintetiche e, infine, dalla cocaina.
I due punti di forza di questa organizzazione, però, sono il “krisha” (“protezione”, in italiano), che alle nostre latitudini indica il “pizzo” e il sistema di lavaggio del denaro di provenienza illecita, investito non solo nel settore immobiliare in giro per il mondo, ma anche attraverso l'utilizzo di turisti compiacenti che, in cambio di una vacanza “spese incluse” arrivano, ad esempio, sulle coste italiane con le tasche piene di rubli.
È seguendo queste tracce – in particolare il traffico di visti per entrare in Italia nel 2001 o la scoperta delle rotte della schiavitù a matrice sessuale, delle armi e della droga – che scatta nel 2002 l'operazione “Tela di ragno”[2], di fatto la più importante operazione contro la mafia russa mai fatta in Italia e tra le più importanti in Europa.
Forte nei paesi dell'ex Unione Sovietica, come sappiamo, è anche il culto per lo sport, ed i criminali non sono da meno. Se, infatti, non è stato possibile accertarne gli interessi sulla semifinale di ritorno dell'Europa League tra lo Zenit San Pietroburgo ed il Bayern Monaco[3] certa è, invece, l'influenza esercitata durante le olimpiadi di Salt Lake City del 2002. «Ieri i francesi hanno aiutato la coppia di pattinatori russi; il 18 saranno i russi ad aiutare i francesi e, anche se Marina cade, faremo di lei la numero uno». A parlare, intercettato al telefono con l'ex pattinatrice olimpica Irina Cherniaeva, madre dell'atleta naturalizzata francese Marina Anissina è Alimzhan Tursunovich Tokhtakhounov, detto “Taiwanchik” (“il Taiwanese”, per via dei lineamenti orientali che caratterizzano il popolo uzbeko, di cui fa parte), considerato dal Federal Bureau of Investigation uno dei pilastri mondiali della mafia russa e quarto tra i latitanti più pericolosi del mondo secondo la rivista “Forbes” (preceduto, dopo la morte di Osama Bin Laden, solo dal capo del Cártel de Sinaloa, Joaquín “El Chapo” Guzmán, da Semion Mogilevich, il banchiere della criminalità organizzata russa e dal siciliano Matteo Messina Denaro).
È proprio grazie a questa telefonata – in quella gara, peraltro, erano coinvolti anche gli italiani Barbara Fusar-Poli e Maurizio Margaglio, che ottennero solo il bronzo – che la guardia di finanza, dietro indicazioni dei federali statunitensi, lo pedina nei suoi tre domicili italiani di Milano (piazza Brera), Roma (via San Marino) e Forte dei Marmi (via della Barbiera), dove viene arrestato il 31 luglio di quello stesso anno. L'accusa è “frode sportiva”, che nel nostro ordinamento prevede una pena inferiore ad un anno. Per questo, risultando impossibile l'estradizione – sul Taiwanese pendeva infatti un mandato internazionale spiccato a New York – la Cassazione è costretta a rigettare l'istanza e a rilasciarlo.
In Italia – come ha evidenziato il procuratore Luigi De Ficchy, che spesso si è trovato a dover fare i conti con questa mafia – il ruolo del Taiwanese era centrale. «Dalle indagini espletate presso le Direzioni Distrettuali Antimafia di Roma e Venezia» - dirà in una conferenza organizzata dal Consiglio Superiore della Magistratura nel gennaio di tre anni fa - «è risultato che Alimzhan Tokhtakhounov si trovava in Italia al fine di coordinare attività di riciclaggio per conto di gruppi criminali russi. Il suo compito era inoltre di mettersi in contatto con elementi della criminalità italiana al fine di poter attivare utili canali di collaborazione ed al fine di verificare se tale penetrazione avrebbe incontrato la resistenza di gruppi criminali già presenti in Italia. Altra sua funzione era quella di avvicinare impiegati dello Stato ed Ufficiali di Polizia ed in caso di necessità di corromperli al fine di ottenere permessi di soggiorno per gli appartenenti all'organizzazione criminale. Il Tokhtakhounov doveva inoltre regolarizzare la presenza di cittadini russi in Italia tramite l'organizzazione di matrimoni di comodo che servivano ad ottenere la cittadinanza italiana».
Un anno prima, nell'agosto del 2008, era stato impostato anche un primo tentato “maxiprocesso” contro l'organizzazione, accusando 187 imputati di associazione mafiosa e riciclaggio, dopo un decennio di rogatorie internazionali, viaggi degli inquirenti bolognesi nei tribunali ex-sovietici, intercettazioni e consulenze, ma il giudice per le indagini preliminari di Bologna Michele Guernelli, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Morena Plazzi, decise che il processo non dovesse nemmeno arrivare in aula, in quanto non era stato possibile accertare la provenienza dei capitali reinvestiti sul territorio italiano.
Insomma, cambia la nazionalità delle organizzazioni criminali, ma i problemi continuano a parlare sempre la stessa lingua.
A creare – quanto meno in termini mediatici – la “mafija” russa, nel 1988, è il tenente colonnello Aleksander Gulov, che per la prima volta ne denuncia l'esistenza in un'intervista al settimanale “Literaturnaja Gazeta”. L'organizzazione, però, nasce già negli anni Venti del secolo scorso, all'epoca dei gulag staliniani, dove venivano inviati capi-banda, estorsori e traffichini vari, che si impossessavano della gestione delle poche risorse presenti nei campi, dove i gruppi criminali crearono una prima forma di struttura gerarchica nazionale ed un vero e proprio codice d'onore, che prevedeva l'impossibilità di relazionarsi con le autorità, sia all'interno che all'esterno del campo, il rifiuto della violenza – derogabile solo in caso di legittima difesa – e la risoluzione pacifica delle controversie che potevano nascere tra i gruppi e solo dopo parere favorevole dello “Skhodka”, un vero e proprio tribunale dell'organizzazione, al quale era affidato anche il compito di affiliare nuovi membri. Particolare, per quella forma di criminalità, era l'idea del denaro – che nei campi veniva acquisito per lo più attraverso estorsioni, saccheggi e gioco d'azzardo – il quale non doveva essere usato per l'arricchimento del singolo ma messo a disposizione dell'intera organizzazione attraverso una cassa comune, detta "Obshchak”, che doveva essere finanziata anche una volta usciti dal campo, così da trovare il necessario sostentamento per le famiglie degli internati (pratica che ben conosciamo attraverso i racconti fatti da esponenti della camorra campana, ad esempio).
Le uniche cose che verranno tramandate alla criminalità organizzata venuta a colmare il vuoto di potere ed economico derivante dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica saranno il culto dei tatuaggi, utilizzati per raccontare la storia criminale del singolo affiliato, e il “capitale mitologico” - come lo chiama Federico Varese, professore di criminologia ad Oxford ed autore nel 2001 di “The Russian Mafia. Private protection in a new market economy” - su cui gli affiliati basavano la propria morale.
Questa nuova “mafija” nasce sfruttando due fattori della crisi sovietica: da un lato l'apertura ai capitali privati della perestrojka, dall'altro l'estrema facilità con cui si potevano corrompere gli uomini delle istituzioni negli ex paesi satelliti. I metodi utilizzati sono gli stessi delle altre organizzazioni: traffici internazionali, in particolare quello degli esseri umani declinato nel business della prostituzione, quello delle armi, dove Viktor Bout[1] rappresenta ancora oggi una leggenda e quello della droga, soprattutto eroina ed oppiacei, seguite dalla cannabis, dalle droghe sintetiche e, infine, dalla cocaina.
I due punti di forza di questa organizzazione, però, sono il “krisha” (“protezione”, in italiano), che alle nostre latitudini indica il “pizzo” e il sistema di lavaggio del denaro di provenienza illecita, investito non solo nel settore immobiliare in giro per il mondo, ma anche attraverso l'utilizzo di turisti compiacenti che, in cambio di una vacanza “spese incluse” arrivano, ad esempio, sulle coste italiane con le tasche piene di rubli.
È seguendo queste tracce – in particolare il traffico di visti per entrare in Italia nel 2001 o la scoperta delle rotte della schiavitù a matrice sessuale, delle armi e della droga – che scatta nel 2002 l'operazione “Tela di ragno”[2], di fatto la più importante operazione contro la mafia russa mai fatta in Italia e tra le più importanti in Europa.
Forte nei paesi dell'ex Unione Sovietica, come sappiamo, è anche il culto per lo sport, ed i criminali non sono da meno. Se, infatti, non è stato possibile accertarne gli interessi sulla semifinale di ritorno dell'Europa League tra lo Zenit San Pietroburgo ed il Bayern Monaco[3] certa è, invece, l'influenza esercitata durante le olimpiadi di Salt Lake City del 2002. «Ieri i francesi hanno aiutato la coppia di pattinatori russi; il 18 saranno i russi ad aiutare i francesi e, anche se Marina cade, faremo di lei la numero uno». A parlare, intercettato al telefono con l'ex pattinatrice olimpica Irina Cherniaeva, madre dell'atleta naturalizzata francese Marina Anissina è Alimzhan Tursunovich Tokhtakhounov, detto “Taiwanchik” (“il Taiwanese”, per via dei lineamenti orientali che caratterizzano il popolo uzbeko, di cui fa parte), considerato dal Federal Bureau of Investigation uno dei pilastri mondiali della mafia russa e quarto tra i latitanti più pericolosi del mondo secondo la rivista “Forbes” (preceduto, dopo la morte di Osama Bin Laden, solo dal capo del Cártel de Sinaloa, Joaquín “El Chapo” Guzmán, da Semion Mogilevich, il banchiere della criminalità organizzata russa e dal siciliano Matteo Messina Denaro).
È proprio grazie a questa telefonata – in quella gara, peraltro, erano coinvolti anche gli italiani Barbara Fusar-Poli e Maurizio Margaglio, che ottennero solo il bronzo – che la guardia di finanza, dietro indicazioni dei federali statunitensi, lo pedina nei suoi tre domicili italiani di Milano (piazza Brera), Roma (via San Marino) e Forte dei Marmi (via della Barbiera), dove viene arrestato il 31 luglio di quello stesso anno. L'accusa è “frode sportiva”, che nel nostro ordinamento prevede una pena inferiore ad un anno. Per questo, risultando impossibile l'estradizione – sul Taiwanese pendeva infatti un mandato internazionale spiccato a New York – la Cassazione è costretta a rigettare l'istanza e a rilasciarlo.
In Italia – come ha evidenziato il procuratore Luigi De Ficchy, che spesso si è trovato a dover fare i conti con questa mafia – il ruolo del Taiwanese era centrale. «Dalle indagini espletate presso le Direzioni Distrettuali Antimafia di Roma e Venezia» - dirà in una conferenza organizzata dal Consiglio Superiore della Magistratura nel gennaio di tre anni fa - «è risultato che Alimzhan Tokhtakhounov si trovava in Italia al fine di coordinare attività di riciclaggio per conto di gruppi criminali russi. Il suo compito era inoltre di mettersi in contatto con elementi della criminalità italiana al fine di poter attivare utili canali di collaborazione ed al fine di verificare se tale penetrazione avrebbe incontrato la resistenza di gruppi criminali già presenti in Italia. Altra sua funzione era quella di avvicinare impiegati dello Stato ed Ufficiali di Polizia ed in caso di necessità di corromperli al fine di ottenere permessi di soggiorno per gli appartenenti all'organizzazione criminale. Il Tokhtakhounov doveva inoltre regolarizzare la presenza di cittadini russi in Italia tramite l'organizzazione di matrimoni di comodo che servivano ad ottenere la cittadinanza italiana».
Un anno prima, nell'agosto del 2008, era stato impostato anche un primo tentato “maxiprocesso” contro l'organizzazione, accusando 187 imputati di associazione mafiosa e riciclaggio, dopo un decennio di rogatorie internazionali, viaggi degli inquirenti bolognesi nei tribunali ex-sovietici, intercettazioni e consulenze, ma il giudice per le indagini preliminari di Bologna Michele Guernelli, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Morena Plazzi, decise che il processo non dovesse nemmeno arrivare in aula, in quanto non era stato possibile accertare la provenienza dei capitali reinvestiti sul territorio italiano.
Insomma, cambia la nazionalità delle organizzazioni criminali, ma i problemi continuano a parlare sempre la stessa lingua.
Puntate precedenti
parte 1: Roma, finita la pax di "Cosa Nuova"?
parte 2: Roma, aperto il "laboratorio Cosa Nuova". Dagli anni Settanta
parte 3: Diplomazia criminale firmato Cosa Nuova
parte 4: Cosa Nuova. Canta Napoli e Roma risponde (col botto)
parte 5: Michele Senese, il "puparo" con l'accento napoletano
parte 6: Cosa Nuova. L'Aspromonte, l'ottavo colle di Roma
parte 7: Cosa Nuova. L'industria dei sequestri di persona
parte 8: Cosa Nuova. Il "nodo" Calò
parte 9: Cosa Nuova. Il patto dell'ortofrutta
parte 10: Cosa Nuova(d'importazione). Viaggio al centro della Triade
parte 11: Cosa Nuova(d'importazione). EmigranTriadi
parte 12: Cosa Nuova(d'importazione). Organizatsya apre la lavanderia Italia
(13 - Fine)
Note |
[2] Riciclaggio e mafia russa. 50 arresti in tutta Europa, Repubblica, 10 giugno 2002;
[3] Coppa Uefa, La mafia russa dietro Zenit-Bayern?, Firenzeviola.it, 16 settembre 2010