Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costingono. [Bertolt Brecht]

Che dal voto di fiducia del 14 saremmo entrati in una nuova fase era facilmente prevedibile. Altrettanto prevedibile era la risposta antidemocratica (ma esiste davvero la democrazia?) del governo che avendo ancor meno argomenti del solito – non che ne abbia poi così tanti in generale – applica la regola aurea di qualsivoglia forma di autorità: la repressione.
È in quest'ottica che il Ministro dell'Interno Maroni, imboccato dal sottosegretario Alfredo Mantovano, si è detto possibilista verso l'estensione del D.A.SPO. (acronimo che sta per Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) anche alle manifestazioni di protesta come quelle a cui stiamo assistendo (e partecipando) in questi giorni.
Misura di prevenzione atipica e caratterizzata dall'applicabilità a categorie di persone che versino in situazioni sintomatiche della loro pericolosità per l'ordine e la sicurezza pubblica con riferimento ai luoghi in cui si svolgono determinate manifestazioni sportive, ovvero a quelli, specificatamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che partecipano o assistono alle competizioni stesse.(...)Il D.A.SPO. può essere comminato anche nei confronti di soggetti minori di anni 18, che abbiano compiuto il quattordicesimo anno di età (in tal caso, il divieto è notificato a coloro che esercitano la patria potestà)” dice l'Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del Ministero dell'Interno.

La repressione non mi stupisce di certo, e questo non perché – per usare uno slogan tanto caro ad una certa parte politica – saremmo sotto “dittatura”, ma semplicemente perché la repressione non è altro che una delle tante forme espressive con cui si manifesta lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, conditio sine qua non di una struttura sociale composta da non-eguali come la nostra. Per cui finché non si deciderà un cambio drastico dell'intero sistema (quale miglior momento di questo?) la repressione, così come lo sfruttamento e qualsivoglia forma di inegualità continueranno ad esistere.
Quel che mi stupisce, in positivo, è che finalmente ci si sta iniziando a rendere conto che il nostro paese ha il vizio di erigere statue (di cartapesta) ad eroi (di carta, per usare il titolo di un libro di Alessandro Dal Lago) solo perché salgono agli onori della cronaca personaggi che dicono esattamente quelle parole che il c.d. popolo vuol sentirsi dire.
Successe qualche anno fa con Antonio Di Pietro, poi con Beppe Grillo ed ora con mr. “vado via o resto?” Saviano, che in questi giorni ci ha indirizzato una lettera – uso la prima persona plurale perché studente e perché ai cortei ci sono stato anch'io – dicendo, in pratica, che dovremmo andare a farci manganellare dalle forze dell'ordine e senza protezioni, perché i caschi, le sciarpe (o più spesso le kefieh) con cui filtrare gli urticanti sarebbero materiale da ragazzi che «finito il videogame a casa, continuano a giocarci per strada». Forse Saviano la piazza – quella vera, non quella di suoi fans – l'ha vista ben poco, preso com'era a firmare contratti con Endemol e Mondadori o a portare in promozione il suo romanzo, perché altrimenti lo saprebbe perché non si va ad un corteo senza protezioni: «Quando Saviano invita a non mettersi il casco e sfilare a volto scoperto ignora, non si sa se per scarsa conoscenza o per malafede, le centinaia di manifestazioni pacifiche nelle quali su quelle stesse teste scoperte sono calati pesantemente i manganelli della repressione. Non avevano i volti coperti quelli massacrati alla Diaz e a Bolzaneto e nemmeno quelli che pochi giorni fa sono stati caricati e arrestati mentre solidarizzavano a Brescia con gli immigrati costretti a salire su una gru per rendere visibile al mondo la propria condizione insostenibile. Perciò quando vediamo dei caschi in un corteo non pensiamo a dei vigliacchi che hanno paura di mostrare il volto, ma solo a una legittima forma di autodifesa dei movimenti di fronte alla repressione. Se Saviano ha i suoi motivi per chiamare i carabinieri della sua scorta “i miei ragazzi”, non ne hanno altrettanti Carlo Giuliani o Stefano Cucchi. È una questione di percorsi di vita e talvolta di morte» ha risposto la 99 Posse, che per storia e “curriculum” ha ben altra autorevolezza sulla questione, in una delle tante lettere di commento a quella dello scrittore napoletano.

Ma torniamo all'argomento principe di questo post.
Avete presente “Minority Report”, il film del 2002 nel quale si paventava un mondo senza omicidi (letta dal lato opposto: con una giustizia preventiva)? Evidentemente in questi giorni i nostri politici devono aver rivisto il dvd, in quanto l'idea della punizione preventiva dei “facinorosi” dalla piazza sembra essere ripreso proprio da quel film. Come ci spiegava ieri su Liberazione Paolo Persichetti – un altro che di piazze e militanze se ne intende decisamente più di Saviano - «i D.A.SPO. verrebbero applicati a chiunque avesse precedenti e denunce in corso, in sostanza interverrebbero prima del giudizio finale manifestandosi come una sanzione amministrativa anticipata prim'ancora che la colpevolezza venisse penalmente accertata».
Già, perché il D.A.SPO. ha una particolarità: per farlo scattare basta una semplice denuncia, per cui sarebbe estremamente semplice stringere le maglie repressive intorno ad eventuali capi-rivolta, facinorosi o semplici rompiscatole, cioè quei soggetti che verranno di volta in volta identificati come “devianti”, cioè come coloro che – in una massa di manifestanti pacifici (che magari sarebbe meglio rimanessero a casa a studiare o guardare la televisione) – si prodigheranno nel «prendere in ostaggio al fine di sfregiare una città, colpire i palazzi della democrazia, attaccare gli uomini delle forze dell'ordine. Una minoranza fatta di professionisti della violenza, estranei alle ragioni della protesta e che presumibilmente non vorranno perdere le prossime occasioni di dissenso per imporre un clima di tensione e violenza». Il ministro ha poi definito offensive le illazioni sulla presenza di agenti infiltrati (leggi alla voce: dottrina Kossiga) durante le manifestazioni. Una scena pateticamente comica – degna dei cine-panettoni che ci propinano in questo periodo – si è poi avuta quando il nostro si è prodigato nell'assicurare che i militi in divisa giravano armi in pugno per non farsele fregare dai manifestanti. Se poi, fortuitamente, dovesse anche «scapparci il morto» beh, si può sempre dare la colpa ad un fortuito rimbalzo no?

Il problema dunque è quello di tenere lontani dalla piazza i violenti. Da qui mi sorge una domanda: perché continuate a mandare le forze dell'ordine? Voglio dire: cosa c'è di più violento della «coazione fisica o morale esercitata da un soggetto su un altro così da indurlo a compiere atti che altrimenti non avrebbe compiuto» [definizione del termine “violenza” dallo Zingarelli 2007], e dunque cosa c'è di più violento del costringere delle persone a scendere in piazza? Perché sono costrette le forze dell'ordine, ma siamo costretti a scendere in piazza anche noi. Noi studenti che vediamo il nostro futuro venirci incontro tra prospettive di vite a progetto e sogni andati in fumo per un tratto di penna; noi precari che passiamo la vita a fare concorsi perché non apparteniamo a questo o a quel barone; noi operai, costretti a lavorare in regime di cassa integrazione o con stipendi da fame perché un operaio dell'est costa la metà e pretende meno garanzie.
Cosa c'è di più violento di un manipolo di pochi “eletti” che, dal caldo dei loro scranni ben riparati, si divertono a guardare altre persone – quelle senza diritti e senza garanzie – massacrarsi tra loro, così come gli imperatori di epoca romana nel Colosseo?

In un vecchio libro (“Pace con mezzi pacifici”del 2000), il sociologo norvegese – e padre dei peace studies – Johan Galtung ci spiega le forme della violenza in maniera geometrica: esisterebbe un triangolo della violenza ai cui angoli troveremmo la violenza diretta (verbale o fisica; sul corpo, sulla mente o sullo spirito), la violenza strutturale (politica, che si esercita nella repressione; economica, che produce sfruttamento) e la violenza culturale (cioè quella religiosa e/o ideologica, utilizzata per giustificare le altre due forme).
È interessante notare come ci si affanni a denunciare la pericolosità della prima forma di violenza – quella diretta – che è la forma più visibile ma anche quella più marginale, senza che nessuno si ponga il problema di analizzare le cause che portano al suo utilizzo, che poi significherebbe passare al piano dell'analisi strutturale della violenza.

È interessante notare anche un'altra cosa: cioè come la soluzione repressiva sia legittimata da ambedue i lati del Parlamento. Se non è una novità che la repressione sia la risposta della parte dell'emiciclo parlamentare che si rifà ai valori della destra, quel che mi fa riflettere è che la stessa enfasi ci sia dall'altro lato, in coloro che – almeno in teoria – si dovrebbero rifare ai valori della sinistra e quindi, ancora più in teoria, essere non dico in prima linea negli scontri ma quanto meno al fianco di operai, studenti e ricercatori. D'altronde anche in questo caso non c'è nulla di nuovo sotto al sole: così come avvenne negli anni '70 con il il PCI – per definizione, il partito delegato a rappresentare in aula le istanze operaie – che appoggiò la repressione verso chi scese in piazza (i.c.d "estremisti") al fine di accalappiare i voti moderati, così oggi il Partito Democratico, per legittimare il suo spostamento al centro (e dunque, anche in questo caso, allargare il proprio bacino elettorale verso i moderati) si schiera tra i repressori. Ma d'altronde un'altra non-novità è proprio la sempre più netta separazione tra “il Palazzo” e la piazza, tra chi deve districarsi tra mille peripezie per arrivare a fine mese e chi percepisce uno stipendio per non presentarsi sul proprio luogo di lavoro.

Sappiamo – da definizioni scolastiche – che le società si basano sul mantenimento di un equilibrio a sua volta derivante dal conflitto sociale. Il politologo e sociologo norvegese Stein Rokkan negli anni '70 prende da qui le mosse per la sua prospettiva genetica, all'interno della quale delinea le quattro fratture sociali (i cleavages) sulle quali si sarebbero formati i partiti fin qui conosciuti:

  • la frattura tra centro e periferia, che ha dato origine alle mobilitazioni di movimenti nazionalisti e regionalisti (si pensi a fenomeni come i movimenti regionalisti dell'Irlanda del Nord o dei Paesi Baschi. Per la Lega Nord il discorso è un po' diverso...);
  • la frattura religiosa (cioè la frattura tra cattolici e protestanti) che, a seconda della dominanza di una delle due confessioni, diventa la frattura tra Stato e Chiesa che tende ad essere canalizzata su problematiche legate al sistema educativo (e relativo al tentativo dello Stato di sostituzione di simboli e valori educativi fino ad un certo momento monopolizzati dall'istituzione e dall'educazione ecclesiale);
  • la frattura tra città e campagna;
  • la frattura tra capitale e lavoro, cioè la frattura tra classe operaia e la borghesia che è stata la frattura centrale tra il Diciannovesimo secolo ed il secondo conflitto mondiale.

È forse eccessivo definire in termini di “frattura” – così come delineate da Stein Rokkan – anche il conflitto tra il Palazzo (cioè l'oligarchia aristotelica) e la piazza. Per rimanere all'interno della definizione dei cleavages, che ci sia bisogno di un movimento – al di fuori di quelli attualmente presenti che hanno dimostrato la propria inadeguatezza – che, saldando le istanze studentesche, operaie e delle diverse marginalità oggi presenti, si instauri come un movimento “di disobbedienza civile”?

«La disobbedienza civile diviene un dovere sacro quando lo Stato diviene dispotico o, il che è la stessa cosa, corrotto. E un cittadino che scende a patti con un simile Stato è partecipe della sua corruzione e del suo dispotismo».
[Mohandas Karamchand Gandhi]


Buona resistenza in questa vita precaria.

Documenti: