foto: it.novopress.info |
Roma, 25 marzo 2012 – Sasha lo ritrovano strangolato nei boschi intorno ad Atene, il 2 febbraio 1997. Un mese dopo la polizia italiana fa irruzione nel suo lussuoso appartamento di via Gregorio VII, a Roma, dove in un armadio a muro, tra pantofole di Gucci e camicie di Pal Zileri vengono rinvenute due mitragliette Skorpion, due kalashnikov, dieci pistole di calibro vario, silenziatori, qualche centinaio di munizioni, pugnali, binocoli di precisione, radiotrasmittenti, parrucche, documenti falsi e, naturalmente, i puntatori laser che per anni hanno segnato gli ultimi attimi di vita dei boss russi rivali. Perché Sasha, prima di ritrovarsi morto in un bosco nei pressi di Atene, faceva il killer.
Conosciuto anche come “il Macedone” o “il Grande”, quando torna a Kurgan – la cittadina della Siberia sud-occidentale che gli dà i natali nel 1960 – lo chiamano Aleksandr. Che è poi il suo nome di battesimo. Aleksandr Viktorovich Solonik, passato attraverso la lotta libera nella Lokomotiv ed una carriera nell'Armata Rossa (o forse, come narra la leggenda, nei reparti speciali Omon, fondati nel 1979 in vista delle olimpiadi moscovite, per evitare una nuova “Monaco 1972”[1]) interrotta per motivi mai realmente chiariti per poi diventare uno dei pochi cecchini a saper sparare con entrambe le mani.
Due anni prima, nel 1995, si era reso protagonista di una rocambolesca fuga – considerando anche il fatto che al momento del suo arresto un proiettile gli ha bucato un rene - dal carcere moscovita Matrosskaja Tishinà, dove qualche giorno prima era entrato in servizio il sergente Sergeij Menshikov, nome farlocco dietro cui si cela l'uomo che lo fa evadere, scalando la parete del carcere attraverso una serie di chiodi da roccia precedentemente fissati.
In carcere, Sasha ci arriva come capo della Brigata Kurganskaja, un centinaio di affiliati in tutto, tra i principali clan che partecipano alla guerra di mafia russa della prima metà degli anni Novanta, dove il suo puntatore laser lascia a terra personaggi come “Kalina”, al secolo Viktor Nikiforov, considerato dalla polizia uno dei più potenti criminali della città od il georgiano Otari Kvantrishvili, uno dei boss più potenti della storia russa. Tra un omicidio e l'altro, il gruppo si dedica alle estorsioni, al riciclaggio ed ai traffici internazionali, in particolare di armi e stupefacenti. Ci sarebbero proprio loro, dicono gli inquirenti italiani, dietro al traffico di persone sordomute costrette all'accattonaggio a Prato, nel 2000[2].
È come Vladimiros Kesov, uomo d'affari di origini georgiane e passaporto greco, che Sasha sbarca in Italia, insieme ad una donna che, ufficialmente, è sua moglie. Imprenditori nel campo della moda venuti in Italia per un lungo periodo di riposo. È così che si presentano ai vicini di casa. Il vero motivo per cui Solonik sia arrivato nel nostro paese – a parte quello di riciclare tutto il denaro di provenienza illecita raccolto in quegli anni – non è dato sapere, dato l'episodio di Atene.
C'è chi dice che Sasha si sia ormai ritirato, e l'Italia sia solo un “buen retiro” per chi ha deciso di appendere il kalashnikov al chiodo. Ma c'è anche un'altra pista da seguire.
Una pista come quelle da sci di Madonna di Campiglio, come quelle su cui la polizia, nell'ambito dell'operazione denominata “Scacco matto”[3] qualche giorno prima del blitz nell'appartamento di via Gregorio VII mette le manette a “Samosval” (“ribaltabile”, in russo), alias Yuri Ivanovich Essine, leader incontrastato della Fratellanza di Solntsevo (“Brigata del Sole”), considerato il più importante clan dell'intera galassia della criminalità organizzata dell'area ex sovietica e clan rivale della Brigata Kurganskaja.
Ad Essine era stata affidata la gestione dell'Italia durante un summit tenutosi a Miami nel 1993 tra i più importanti padrini della mafia sovietica.
Perché l'Italia è un paradiso perfetto, se hai tanti soldi da dover riciclare.
La Globus trading – una società che si occupa di importazione di oli combustibili di cui Essine possedeva il trenta per cento – e la Ocean Fish, attraverso cui lavorare il pesce proveniente dalla Corea, sono i due principali tentacoli di Solnstevo nel nostro paese. Il progetto è quello di aprire un canale commerciale – parallelo a quello legale, naturalmente – tra Italia e Russia, sfruttando anche le importanti conoscenze acquisite in Italia, in particolare quella di Alberto Grotti, ex vicepresidente dell'Ente Nazionale Idrocarburi condannato ai tempi di Tangentopoli ed in affari con il boss attraverso la compartecipazione nella Globus. «Con una telefonata», dice il boss ad un suo amico nel corso di una telefonata intercettata, «risolve problemi in tutto il mondo. Certo, è stato condannato a quattro anni, ma gestisce tutto da casa».
A lanciare l'allarme sull'arrivo dei russi nel nostro paese era stato, nel 1993, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino in un'intervista rilasciata al quotidiano “Komsomolskaja Pravda”, nella quale aveva raccontato di un summit, tenutosi a Praga, tra uomini della criminalità organizzata russa ed esponenti di Cosa Nostra, in cui si sarebbe deciso il piano di investimenti dell'una nel paese dell'altra. Dalle Marche alla Romagna, passando per la capitale e la Toscana, sono queste le mete preferite della “Organizatsya”, come viene chiamata la mafia russa.
Secondo stime fornite dal Ministero degli Interni russo all'epoca, i gruppi riconducibili ad una forma di criminalità organizzata nella federazione seguita al crollo dell'Unione Sovietica sono in tutto 5700, per un totale di 114000 affiliati e circa tre milioni di persone tra manovalanza e “sostenitori”. Due dei più importanti boss dell'organizzazione in quegli anni sono a Roma, un altro – Monja El'son, fuggito dagli Stati Uniti e dai malumori di Viaceslavi Ivankov, detto “il Giapponesino”, di fatto una figura quasi mitica nell'immaginario criminale sovietico – lo arrestano a Fano, mentre tenta una rapina insieme a Josif Roizis, la “gola profonda” che permette alla polizia italiana ed ai federali americani di mettere le mani su “Samosval”.
Da quel momento – dando ragione all'allora Procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, che da anni lanciava l'allarme – l'Italia fa conoscenza con i “vory v zakone”, come vengono chiamati gli uomini d'onore della criminalità organizzata sovietica e post-sovietica.
Conosciuto anche come “il Macedone” o “il Grande”, quando torna a Kurgan – la cittadina della Siberia sud-occidentale che gli dà i natali nel 1960 – lo chiamano Aleksandr. Che è poi il suo nome di battesimo. Aleksandr Viktorovich Solonik, passato attraverso la lotta libera nella Lokomotiv ed una carriera nell'Armata Rossa (o forse, come narra la leggenda, nei reparti speciali Omon, fondati nel 1979 in vista delle olimpiadi moscovite, per evitare una nuova “Monaco 1972”[1]) interrotta per motivi mai realmente chiariti per poi diventare uno dei pochi cecchini a saper sparare con entrambe le mani.
Due anni prima, nel 1995, si era reso protagonista di una rocambolesca fuga – considerando anche il fatto che al momento del suo arresto un proiettile gli ha bucato un rene - dal carcere moscovita Matrosskaja Tishinà, dove qualche giorno prima era entrato in servizio il sergente Sergeij Menshikov, nome farlocco dietro cui si cela l'uomo che lo fa evadere, scalando la parete del carcere attraverso una serie di chiodi da roccia precedentemente fissati.
In carcere, Sasha ci arriva come capo della Brigata Kurganskaja, un centinaio di affiliati in tutto, tra i principali clan che partecipano alla guerra di mafia russa della prima metà degli anni Novanta, dove il suo puntatore laser lascia a terra personaggi come “Kalina”, al secolo Viktor Nikiforov, considerato dalla polizia uno dei più potenti criminali della città od il georgiano Otari Kvantrishvili, uno dei boss più potenti della storia russa. Tra un omicidio e l'altro, il gruppo si dedica alle estorsioni, al riciclaggio ed ai traffici internazionali, in particolare di armi e stupefacenti. Ci sarebbero proprio loro, dicono gli inquirenti italiani, dietro al traffico di persone sordomute costrette all'accattonaggio a Prato, nel 2000[2].
È come Vladimiros Kesov, uomo d'affari di origini georgiane e passaporto greco, che Sasha sbarca in Italia, insieme ad una donna che, ufficialmente, è sua moglie. Imprenditori nel campo della moda venuti in Italia per un lungo periodo di riposo. È così che si presentano ai vicini di casa. Il vero motivo per cui Solonik sia arrivato nel nostro paese – a parte quello di riciclare tutto il denaro di provenienza illecita raccolto in quegli anni – non è dato sapere, dato l'episodio di Atene.
C'è chi dice che Sasha si sia ormai ritirato, e l'Italia sia solo un “buen retiro” per chi ha deciso di appendere il kalashnikov al chiodo. Ma c'è anche un'altra pista da seguire.
Una pista come quelle da sci di Madonna di Campiglio, come quelle su cui la polizia, nell'ambito dell'operazione denominata “Scacco matto”[3] qualche giorno prima del blitz nell'appartamento di via Gregorio VII mette le manette a “Samosval” (“ribaltabile”, in russo), alias Yuri Ivanovich Essine, leader incontrastato della Fratellanza di Solntsevo (“Brigata del Sole”), considerato il più importante clan dell'intera galassia della criminalità organizzata dell'area ex sovietica e clan rivale della Brigata Kurganskaja.
Ad Essine era stata affidata la gestione dell'Italia durante un summit tenutosi a Miami nel 1993 tra i più importanti padrini della mafia sovietica.
Perché l'Italia è un paradiso perfetto, se hai tanti soldi da dover riciclare.
La Globus trading – una società che si occupa di importazione di oli combustibili di cui Essine possedeva il trenta per cento – e la Ocean Fish, attraverso cui lavorare il pesce proveniente dalla Corea, sono i due principali tentacoli di Solnstevo nel nostro paese. Il progetto è quello di aprire un canale commerciale – parallelo a quello legale, naturalmente – tra Italia e Russia, sfruttando anche le importanti conoscenze acquisite in Italia, in particolare quella di Alberto Grotti, ex vicepresidente dell'Ente Nazionale Idrocarburi condannato ai tempi di Tangentopoli ed in affari con il boss attraverso la compartecipazione nella Globus. «Con una telefonata», dice il boss ad un suo amico nel corso di una telefonata intercettata, «risolve problemi in tutto il mondo. Certo, è stato condannato a quattro anni, ma gestisce tutto da casa».
A lanciare l'allarme sull'arrivo dei russi nel nostro paese era stato, nel 1993, l'allora ministro dell'Interno Nicola Mancino in un'intervista rilasciata al quotidiano “Komsomolskaja Pravda”, nella quale aveva raccontato di un summit, tenutosi a Praga, tra uomini della criminalità organizzata russa ed esponenti di Cosa Nostra, in cui si sarebbe deciso il piano di investimenti dell'una nel paese dell'altra. Dalle Marche alla Romagna, passando per la capitale e la Toscana, sono queste le mete preferite della “Organizatsya”, come viene chiamata la mafia russa.
Secondo stime fornite dal Ministero degli Interni russo all'epoca, i gruppi riconducibili ad una forma di criminalità organizzata nella federazione seguita al crollo dell'Unione Sovietica sono in tutto 5700, per un totale di 114000 affiliati e circa tre milioni di persone tra manovalanza e “sostenitori”. Due dei più importanti boss dell'organizzazione in quegli anni sono a Roma, un altro – Monja El'son, fuggito dagli Stati Uniti e dai malumori di Viaceslavi Ivankov, detto “il Giapponesino”, di fatto una figura quasi mitica nell'immaginario criminale sovietico – lo arrestano a Fano, mentre tenta una rapina insieme a Josif Roizis, la “gola profonda” che permette alla polizia italiana ed ai federali americani di mettere le mani su “Samosval”.
Da quel momento – dando ragione all'allora Procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, che da anni lanciava l'allarme – l'Italia fa conoscenza con i “vory v zakone”, come vengono chiamati gli uomini d'onore della criminalità organizzata sovietica e post-sovietica.
Puntate precedenti
parte 1: Roma, finita la pax di "Cosa Nuova"?
parte 2: Roma, aperto il "laboratorio Cosa Nuova". Dagli anni Settanta
parte 3: Diplomazia criminale firmato Cosa Nuova
parte 4: Cosa Nuova. Canta Napoli e Roma risponde (col botto)
parte 5: Michele Senese, il "puparo" con l'accento napoletano
parte 6: Cosa Nuova. L'Aspromonte, l'ottavo colle di Roma
parte 7: Cosa Nuova. L'industria dei sequestri di persona
parte 8: Cosa Nuova. Il "nodo" Calò
parte 9: Cosa Nuova. Il patto dell'ortofrutta
parte 10: Cosa Nuova(d'importazione). Viaggio al centro della Triade
parte 11: Cosa Nuova(d'importazione). EmigranTriadi
(12 - Continua)
Note |
[2] Dossier "Mafie Internazionali", Coordinamento studenti medi bolognesi di Libera, 14 dicembre 2011;
[3] Così ci invade la mafia russa di Franca Selvatici, Repubblica, 19 marzo 1997;