Dal pane alle mozzarelle di bufala passando per i pomodori e la farina. La criminalità organizzata - sfruttando leggi lasche e la connivenza di chi dovrebbe controllare - sta mettendo le mani su un nuovo business "pulito": la nostra tavola.
«Sardegna. Una bella mattina d’estate. La coda di auto che pigra va verso il mare. Quasi uno scenario idilliaco, finché non entriamo nell’abitacolo di una delle auto, a spiare i pensieri del conducente. Guarda una bella donna con il suo bambino a fianco. Il bambino gli sta antipatico, ma si consola notando la merendina che il piccolo divora con avidità: sa bene di cosa si tratta, visto che chi produce le merendine è un suo cliente. Quelle merendine sono fatte con un ovoprodotto proveniente da una ditta di riciclaggio di rifiuti che “invece di smaltire uova ammuffite, rotte, invase dai parassiti, le ripuliva alla buona dalla putrescina e dalla cadaverina e le trasformava in una poltiglia confezionata in comodi bidoncini pronti per essere versati nelle impastatrici delle industrie dolciarie».
Inizia così “Mi fido di te”, libro – del 2007 – di Massimo Carlotto e Francesco Abate, caporedattore de L'Unione Sarda e dj.
Con la “scusa” del noir i due ci mettono di fronte ad un fatto vero – anzi, ad una serie di fatti veri – e testimoniati dalle cronache quotidiane. Una serie di fatti che poco interessa ai giornalisti – ed ai giornali, che hanno paura di perdere la pubblicità delle grandi aziende alimentari - ma che rappresentano uno dei tanti business senza spargimento di sangue che tanto interessano alla criminalità organizzata. Il business in questione è quello agroalimentare, la mafia (o meglio: le mafie) che se ne occupano sono le agromafie.
Sono principalmente due le strade – finora conosciute – con cui la criminalità organizzata è entrata nel business: il riciclaggio dei proventi illeciti derivanti da investimenti “classici” quali i traffici di droga o di armi, ai quali vanno aggiunte le truffe all'Unione Europea (precisamente al FEASR, Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale) oppure mettendo direttamente le mani sulla filiera: dal produttore al venditore al dettaglio, non c'è fase in cui non ci sia la longa mano delle mafie. Secondo i dati della C.I.A, la Confederazione Italiana Agricoltori, questa strada da sola permette alle mafie di avere un giro d'affari di circa 10 miliardi di euro all'anno. Praticamente briciole se comparato – ad esempio – con il volume d'affari di mercati come quello dello smaltimento dei rifiuti tossici o del traffico di droga.
Sacrificio tutto sommato accettabile sull'altare di leggi lasche che spesso sembrano sfociare nella vera e propria connivenza, come nel caso delle lobby in sede europea che non vedono di buon occhio il procedimento sulla tracciabilità dei prodotti ortofrutticoli o la – seppur momentanea – cancellazione del reato di “sofisticazione alimentare” (legge n.283 del 30 aprile 1962 sulla tutela degli alimenti) da parte dello zelante Ministro per la Semplificazione Normativa Roberto Calderoli.
Qualcuno potrà ancora credere che, parlando di mafie, anche il loro interesse per il settore agricolo sia un discorso legato al meridione. Per questo, e per iniziare ad addentrarci nei dettagli, partiamo da Milano. Precisamente da un locale sito in via Montello, proprietà dell'Ospedale Maggiore (entrato nelle cronache nazionali per la nuova “Affittopoli” in salsa lombarda). Tra gli inquilini i Cosco, i Carvelli, i Comberiati, i Toscano e i Ceraudo, famiglie originarie di Petilia Policastro (Crotone) che negli anni Ottanta e Novanta – mandati al “confino” al Nord dalla magistratura per essere sradicati dai loro feudi – hanno gestito il traffico di coca ed eroina riproponendo in terra di “grande imprenditoria” le stesse dinamiche con cui i boss facevano il bello e cattivo tempo nei loro feudi calabresi.
Al numero civico 12 c'è un locale molto interessante, e gli inquirenti lo scoprono verso la fine di marzo del 1999, quando in quello che ufficialmente è un circolo di pesca sportiva si ritrovano, tra gli altri, personaggi come Pasquale Papalia, detto Pasqualino, figlio del capobastone Antonio e fratello di Domenico Papalia, latitante, esponente della 'ndrina Barbaro-Papalia che, a detta dell'ex boss pentito Saverio Morabito, aveva trovato nella zona tra Corsico e Buccinasco una nuova Platì, notoria roccaforte del clan in terra calabrese.
Tra i partecipanti a questo strano meeting anche Giosafatto Molluso e suo figlio Giuseppe, entrambi ritenuti legati alle 'ndrine di Platì e, naturalmente, la famiglia Barbaro al completo: Domenico, il padre, detto l'australiano ed i due figli Rosario e Salvatore, a riprova – ancora una volta - che la criminalità organizzata al nord c'è ed è ben radicata.
Ma torniamo allo stabile al civico 12. Siamo nel 2007, il locale che una volta era conosciuto come un circolo per la pesca sportiva è nel frattempo diventato una panetteria. Titolare la Musipane srl. A gestire il tutto sono Vincenzo ed Antonio Musitano - detto Totò brustia - della famiglia Musitano legata al clan dei Mammoliti di Platì (negli anni Cinquanta in faida proprio con la 'ndrina dei già citati Barbaro) e coinvolta nello smaltimento dei rifiuti tossici. Antonio Musitano, peraltro, è da sempre uomo di fiducia di Antonio Papalia ed in passato vicino a Morabito ed al ramo mafioso dei Sergi.
La scelta della nuova destinazione commerciale – una panetteria – non è casuale. Quello del pane infatti, come nei giorni scorsi testimoniato (in maniera estremamente superficiale purtroppo...) dal programma “Le Iene” è uno dei principali mercati di cui le mafie si stanno interessando, tanto le 'ndrine calabro-milanesi che le famiglie camorristiche napoletane.
Da Milano ci spostiamo a San Marino, dove nel 2009 è scoppiato lo scandalo del “forno del clan”.
Per quasi tutto l'anno, infatti, le mense scolastiche sono state rifornite dal “Panificio Vallefuoco srl”, società costituitasi a Gualdicciolo nel 2005 e che nel 2008 ha vinto una gara d'appalto per servire il pane nelle scuole della Repubblica sanmarinese. La società riforniva anche il gruppo Camst (colosso della ristorazione da circa 900 milioni di euro di fatturazione annua, come riscontrabile dal sito internet) a Bologna e la cooperativa Cir Food di Reggio Emilia.
L'appalto viene vinto dai Vallefuoco perché l'offerta per la fornitura risulta economicamente la più bassa. Forse bassa quanto la qualità del pane che veniva fuori dai forni del panificio, così scadente da costringere l'avvocatura di Stato ad un'ammonizione formale. La direttiva è chiara: o la qualità del pane migliora o si rescinde il contratto di fornitura. Rescissione che arriva comunque il 14 settembre – nel frattempo il panificio si era “messo in regola” con la qualità del suo prodotto – quando la stessa società rinuncia al contratto.
I Vallefuoco entrano anche in un'indagine della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna – l'operazione “Vulcano” - volta a far luce sulla Ises, impresa di recupero crediti facente capo a Francesco Vallefuoco e che ha portato all'arresto di dieci affiliati al clan dei Casalesi, a quello dei Vallefuoco, e a quello dei Mariniello che avevano creato una vera e propria “holding dell'estorsione” nel triangolo Rimini-Riccione-San Marino e che cercava di impossessarsi della Fincapital S.p.A., società finanziaria specializzata negli investimenti immobiliari messa in liquidazione coatta dalla Banca Centrale di San Marino.
Arriviamo così nella terra d'origine dei Vallefuoco: Napoli.
Per arrivarci percorriamo – al contrario – proprio la strada che li ha portati sulla riviera romagnola partendo da zone come Sant'Antimo e Afragola, dove il clan è alleato dei maranesi Nuvoletta – a loro volta raccordo tra la camorra e Cosa Nostra – e che agli inizi degli anni Ottanta si schierarono contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo durante quella che è passata alle cronache come la prima guerra di camorra.
Colonnello, la camorra siamo noi. Tutti i giorni finanziamo i clan. Appena nati diamo da bere ai nostri figli il latte comprato dai camorristi che gestiscono la rete di distribuzione. Crescendo, mangiamo pane e pasta prodotti, distribuiti e venduti dai clan. La tazzina di caffè che sorseggiamo al bar ce la vende la camorra. E persino quando moriamo ci rivolgiamo ai becchini della mala che ci vendono le bare e ci offrono un bel funerale.A parlare così è Davide Imberbe, giovane imprenditore titolare di una catena di supermercati da 20 milioni di euro annui a Portici grazie al quale è stato possibile scoprire l'esistenza del business ed i meccanismi – intimidatori e non – utilizzati dalla camorra per muovere a proprio piacimento l'andamento del mercato delle forniture che i clan mettono a registro per la somma di un milione di euro circa all'anno.
«Può diminuire il racket della droga, quello delle armi...ma la gente deve continuare a mangiare». dice Francesco Emilio Borrelli, commissario regionale dei Verdi. «Soprattutto nei comuni di Giugliano, Melito, Casalnuovo, Acerra e Caivano stanno nascendo nuovi forni che vantano legami sempre più forti con la criminalità organizzata locale. Soltanto intorno alla città di Napoli ci sono circa 1.300 forni abusivi che hanno un giro d'affari vicino ai 500 milioni di euro».
Forni che, come abbiamo visto nel già citato servizio de “Le Iene”, vanno poi a rifornire i banchetti di strada sui quali fino a qualche anno fa venivano impilate le stecche di sigarette di contrabbando. Su quei banchetti, però, il pane ci arriva dopo essere passato in locali dove il rispetto delle norme igienico-sanitarie è pura utopia, tra farina ed impasti messi a lievitare tra topi, muri ammuffiti, forni arrugginiti per i quali viene usata legna tossica prelevata da infissi verniciati e – in un caso comunque isolato – bare dissotterrate dal cimitero di Poggioreale. Nasce così il “pane nero”, che sempre più sta colonizzando anche gli scaffali di negozi e supermarket dati i bassi costi d'acquisto ed i relativi alti profitti che se ne possono ricavare. La salute dei consumatori, invece, fa fatturare troppo poco.
Dall'altro lato c'è la versione (più o meno)legale del business: i clan impongono fornitori di fiducia ai commercianti ed ai forni legali – quelli cioè che rispettano le norme igienico-sanitarie – e dai quali si fanno rivendere, a prezzo “di convenienza” tutta la loro produzione che sarà poi proprio la camorra a reintrodurre nel mercato ad un costo naturalmente maggiorato così da orientare la domanda verso il più economico “pane nero”.
Si calcola intorno ai 1.200 panifici legali controllati con questo sistema dai clan, che dispongono direttamente di almeno altri 2.200 panifici illegali nei quali vengono sfruttati anche immigrati clandestini o ex-carcerati che, in un paese in cui “l'etichetta è tutto”, non trovando lavoro legale devono rivolgersi nuovamente ai vecchi datori di lavoro.
«Il pane della camorra ha sicuramente prezzi più bassi sul mercato. Parliamo di un business che ha a che fare con circa trecentomila chili di pane per ciascun panificatore occulto, che moltiplicato per circa settecento/ottocento panifici occulti porta a un giro d'affari stimato tra i duecento ed i duecentocinquanta milioni di euro», come racconta Ugo Marani, ordinario di politica economica all'Università Federico II di Napoli e presidente di Ires Campania, il centro studi della Cgil.
Denaro che – come insegna l'economia – in parte viene reinvestito per l'approvvigionamento delle materie prime. Una parte di queste proviene direttamente dai mercati dell'Est europeo, dove viene semilavorato, congelato ed inviato sulle tavole di ignari cittadini, campani e non. Dall'Europa dell'Est il pane congelato raggiunge il pane nero lavorato nei panifici abusivi campani. Tappa obbligata Afragola, il cui municipio è stato più volte sciolto per associazione camorristica. Da lì le pagnotte ed i panini prendono la strada della piccola e grande distribuzione, spargendosi a macchia d'olio su tutto il territorio nazionale.
Per quanto riguarda questo mercato, però, bisogna sempre tenere bene in mente una cosa: cioè che il mercato del pane non esisterebbe senza altri mercati, primo fra tutti quello delle farine, dove non sono solo le mafie a dettare le regole. Se, ad esempio, sono noti episodi come quello del clan Papale-Ascione che imponeva le farine ad Ercolano (con il procedimento che abbiamo descritto poc'anzi), non si può prescindere dalla speculazione che le grandi industrie del settore praticano nella più completa impunità. È sempre l'ex assessore Borrelli a spiegarne i meccanismi (la citazione è dello scorso agosto:http://www.ilgazzettinovesuviano.com/2010/08/30/verdi-%E2%80%9Caumentano-i-prezzi-di-pane-e-latte-rischia-anche-la-pizza%E2%80%9D/):
Un quintale di farina oggi è arrivato a costare 48 euro, due mesi fa veniva pagato 25 euro. Con questo ritmo il pane aumenterà del 40% in pochi mesi. Anche altri generi alimentari derivanti dal grano avranno prezzi molto maggiori in poco tempo. Parliamo della pasta ma anche della pizza. Se non ci saranno correttivi seri i costi di generi di prima necessità, compreso il latte (visto che anche le mucche hanno nella loro dieta mangimi lavorati col grano) saliranno alle stelle. In questo quadro in provincia di Napoli rialzano la testa i panificatori abusivi con prezzi stracciati visto che stanno immettendo sul mercato pane realizzato con farine scadute, contaminate (ad esempio levate dal commercio perché realizzate con grano pieno di pesticidi dannosi per la salute) o piene di OGM (organismi geneticamente modificati). Abbiamo calcolato che se il costo del grano resterà a questi livelli l'aumento medio annuo a famiglia per il pane ed il latte sarà mediamente di 475 euro.
Traducendo: se non si colpirà la speculazione – impegno che difficilmente la classe politica nazionale ed internazionale metterà in agenda – l'alimentazione della famiglia media verrà messa sempre più in mano alla criminalità organizzata e, con i controlli al minimo, sarà ancora più semplice per le mafie nostrane introdurre in Italia materie prime come la farina cinese, famosa per essere composta per un terzo da calce polverizzata od altri agenti sbiancanti - come l'amido di mais - utilizzati per abbreviare i tempi di lavorazione e, dunque, abbassarne il prezzo di vendita.
Dopo quella cinese, la farina più apprezzata dalla criminalità organizzata è quella proveniente dalla Russia, accusata di aver esportato in Egitto farina contaminata da non meglio specificati insetti morti e quella canadese, contaminata da sostanze cancerogene che Francesco Casillo, leader nel settore dei cereali, ha importato nel 2008e per questo si è visto recapitare una multa di circa 3.000 euro – ed il passaggio da reato doloso a colposo – per aver introdotto nel Belpaese grano contaminato da ocratossina, una sostanza che provoca nell'uomo irreversibili alterazioni ai reni, ed ha effetti immunodepressivi e neurotossici.
Il mercato dell'importazione della farina, comunque, vede per la camorra e per imprenditori dalla dubbia moralità, anche la concorrenza delle immancabili 'ndrine calabresi, per le quali ruolo importante è quello della famiglia dei Serraino (Reggio Calabria).
Ci sono poi le vongole e le cozze di Marghera, pescate scartando sostanze inquinanti quali diossina, mercurio e piombo che arrivano sulle nostre tavole con la certificazione di prima qualità; il vino fatto d'acqua, sostanze chimiche varie, concimi, fertilizzanti ed una spruzzatina di acido muriatico per dare quel retrogusto particolare (un business che gira intorno a 700 mila ettolitri di vino che arrivano sugli scaffali di negozi e supermercati per essere messi in commercio ad un prezzo compreso tra i 70 centesimi ed i 2 euro a litro); l'olio extravergine corretto con olio di colza o di nocciolino proveniente da Spagna, Grecia, Turchia e Tunisia («Almeno il 75% del nostro olio non ha una chiara origine certificata ed è dunque a rischio sofisticazione» dice Antonio De Concilio della Coldiretti pugliese) venduto a 50 o 60 centesimi quando dovrebbe costare tra i 5 ed i 6 euro e che fa la felicità di chi deve acquistarne grandi quantità oppure il concentrato di pomodoro che, partendo dalla Cina, arriva sulle nostre tavole con il marchio Dop (Denominazione di origine protetta) o i capperi marocchini spacciati come “di Pantelleria”; il miele moldavo o il sale industriale che parte dalle coste del Nord Africa per diventare “alimentare” lungo il tragitto fino ai nostri piatti.
Oppure le mozzarelle di bufala “drogate” con latte boliviano arrivato ai porti di Napoli e Salerno via Olanda. Le bufale prodotte in questo modo vengono vendute a 6 euro anziché ai 9 di quelle “campane al 100%”; da un chilogrammo di latte boliviano (pagato 50 centesimi) escono fuori cinque chili di mozzarella di bufala. Leader nel settore i Casalesi, che traggono la propria forza sul territorio proprio da questo commercio. Oltre al latte boliviano molto usate sono le cagliate provenienti dalla Romania, che vengono congelate in inverno e scongelate in estate per far fronte all'aumento della richiesta di latticini. Anche in questo caso – come per la ricotta – si usano calce ed altre sostanze nocive come sbiancanti.
«La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» disse una volta Paolo Borsellino.
Chissà cosa penserebbe oggi, vedendoci accettare i miasmi di illegalità che provengono dalle nostre tavole...