28 febbraio 2011. Sara Michienzi, nove anni, muore dopo una operazione per l'asportazione delle tonsille nel reparto di otorinolaringoiatria dell'ospedale di Lamezia Terme (Catanzaro). Uno di quei famosi interventi definiti “di routine” che non dovrebbero avere alcuna controindicazione e che i medici dovrebbero portare a termine praticamente ad occhi chiusi.
Eppure qualcosa va storto.
Perché Sara muore dopo pochi giorni per un'«emorragia sviluppatasi intorno alla zona operata» ma anche – come recita il referto autoptico - «per una concomitante crisi respiratoria». Quella stessa crisi respiratoria che aveva indotto sua madre, Isabella Notaro a portarla al pronto soccorso. «Tutto apposto, non si preoccupi» era stata la risposta. Probabilmente la stessa che, nel 2003, la signora Notaro si sente dire quando suo marito muore d'infarto, dopo essere stato all'ospedale di Vibo Valentia per farsi visitare. O magari la stessa risposta che avevano dato nel dicembre 2007 ai genitori di Eva Ruscio, 16 anni, morta per una tracheotomia o ai genitori di Federica Monteleone, anch'essa 16enne ed anche lei morta all'ospedale di Vibo in seguito ad un blackout elettrico mentre si trovava in sala operatoria.
In tutti questi casi la parola d'ordine dei giornalisti è stata una sola: malasanità. Tra la fine di aprile 2009 ed il dicembre 2010 – secondo i dati della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali presieduta dall'esponente IdV Leoluca Orlando – quello di Sara Michienzi è il 78esimo caso di malasanità avvenuto in Calabria su un totale di 326 su tutto il territorio nazionale.
Quel che risalta immediatamente dalla lettura delle cronache locali è che nell'equipe che si è occupata del caso di Sara c'era Gianluca Bava, indagato e poi assolto «per non aver commesso il fatto» nell'indagine sul caso di Eva. Forse solo una tragica fatalità, o forse qualcosa di diverso che sarà compito della magistratura indagare.
Al di là dei nomi, comunque, quello che appare evidente – in Calabria come in Lombardia, nel Lazio come in Campania – è che più che un problema di nomi, la sanità italiana ha un problema di nomine, ed è per questo che parlare di “malasanità” vuol dire tutto e non vuol dire niente.
Nel novembre 2009 il Ministero delle Pari Opportunità presentava uno spot contro l'omofobia (dall'ambientazione ospedaliera) che chiedeva allo spettatore il grado di interesse di determinate caratteristiche del personale che – in via più o meno teorica – potrebbe un giorno salvargli la vita.
Eliminando da quello spot tutto il lavoro fatto nello specifico della lotta all'omofobia (e dunque tralasciando tutto il dibattito che ne è venuto fuori, non essendo questo ciò che mi interessa in questa sede), si potrebbe aggiungere una piccola quanto fondamentale domanda, che più o meno potrebbe suonare in questi termini:
«Di quest'uomo ti interessa di più sapere se appartiene ad una cosca, ad un partito, o non ti importa?»
Perché è questa, oggi, la prima domanda da porsi quando ci si trova di fronte ad un camice bianco. E questo vale negli ospedali di Vibo, dove l'Azienda Sanitaria Provinciale è stata sciolta per infiltrazione mafiosa lo scorso dicembre così come vale nella sanità lombarda modellata sui voleri della politica
In questa prima parte dell'ipotetico “Giro d'Italia nella malasanità” rimaniamo al Sud, iniziando il nostro giro nella sanità calabrese, dove tra 'ndrine e partiti non si capisce bene chi sia il più “criminale”. Nella seconda puntata, invece, andremo a scoprire il “sistema pugliese” della lotta Tarantini-Tedesco e del proscioglimento di quel Nichi Vendola che voleva cambiare la legge perché impossibilitato nell'affidare un posto di direttore generale ad un suo pupillo. Nella terza ed ultima parte, invece, saliamo al nord. Andiamo in Lombardia a guardare cosa succede all'ombra di Comunione e Liberazione.
Ma procediamo per gradi...
Jazzolino, l'ospedale del malaffare
Gravi carenze sotto il profilo igienico-sanitario e della prevenzione degli infortuni sul luogo di lavoro; numero elevato di morti sospette (tranne che nel caso di Sara, gli altri tre casi riportati in apertura sono avvenuti tutti allo “Jazzolino”); tangenti; appalti ed assunzioni controllate dalle 'ndrine nonché almeno un caso di deturpamento di cadavere (come riporta l'agenzia Adnkronos, il 13 gennaio scorso il commissario straordinario dell'Asp di Vibo Alessandra Sarlo ha disposto in via cautelare l'allontanamento di un ausiliario specializzato reo di aver estratto la protesi dentaria di una anziana donna da poco deceduta). Sono solo alcuni degli allarmi lanciati in merito all'ospedale civile di Vibo, che era invece stato pensato come struttura di specializzazione (“spoke”, in gergo tecnico) per quanto riguarda i campi di Medicina generale, Chirurgia generale, Anestesia, Ortopedia, Ostetricia, Pediatria, Cardiologia, Neurologia, Dialisi per acuti, Endoscopia di urgenza, Psichiatria, Oculistica, Otorino, Urologia, Medicina e Chirurgia d'urgenza e con servizi di Radiologia “h 24”. Insomma: sulla carta quell'ospedale avrebbe dovuto rappresentare uno degli snodi fondamentali del reticolo sanitario calabrese e che invece è passato alle cronache come “l'ospedale della vergogna”. Eppure in quell'ospedale, stando a quanto certificava l'Asl vibonese nel 2008, c'erano addirittura 153 medici altamente specializzati, compreso quel chirurgo che si era fatto esentare dalla sala operatoria perché troppo amico della bottiglia.
Evidentemente i requisiti necessari per l'ottenimento dell'alta specializzazione erano altri.
«È un discorso molto complicato, quello della sanità calabrese. (…) C'è una zona grigia di illegalità molto diffusa. E non dimentichiamo che l'ospedale di Vibo è commissariato per infiltrazioni mafiose».Di che tipo di infiltrazioni mafiose parliamo?«Appalti, Lavori per il nuovo ospedale, servizi come mense, lavanderia...la presenza nella Asl di soggetti che facevano capo a un'organizzazione mafiosa»(...)«A Vibo ci sono medici bravissimi, generalizzare sarebbe un errore grave. Ci sono casi come quello di Eva Ruscio che riguardano un puro errore medico, che possono accadere a Milano, Firenze, Palermo...altra cosa è voler operare a tutti i costi in una sala operatorio non idonea, com'è avvenuto nel caso Monteleone. Lì non si tratta solo di medici, ci sono le responsabilità di chi gestiva la struttura»
sosteneva qualche giorno fa il procuratore capo Mario Spagnuolo in un'intervista al Corriere della Sera (qui l'articolo: http://www.inail.it/repository/ContentManagement/information/P1860818406/XU99N.pdf).
Nel caso di Federica Monteleone, peraltro, c'è tutta una serie di quesiti – ancora in cerca di risposta – che ruotano attorno alla figura dell'ex Procuratore Capo di Vibo Alfredo Laudonio, che avrebbe consentito non solo che le indagini partissero in ritardo (così da permetterne l'inquinamento fin dalle prime battute), ma si è macchiato anche dei reati di falso ideologico, omissioni di atti d'ufficio e favoreggiamento personale, che il gup di Salerno Vincenzo Di Florio ha tradotto in 1 anno ed 8 mesi (pena sospesa), la condanna al pagamento delle spese processuali ed il risarcimento di tutti i danni morali e materiali.
È evidente che l'operato di Laudonio sia viziato dal voler coprire qualcosa o qualcuno. Chi (o cosa), però, non ci è dato sapere.
Le mani sull'ospedale (che non c'è).
Per capire quanto sia appetibile la torta della sanità calabrese basti considerare un dato: l'80% della spesa pubblica della regione è destinato a questo comparto. È dunque scontato l'interessamento delle 'ndrine (cioè dei Mancuso, dei Lo Bianco e dei Fiarè). L'Azienda Sanitaria sciolta lo scorso dicembre è praticamente di loro proprietà. Le gare per gli appalti sono praticamente inesistenti o perché ogni volta si ricorre alle proroghe o perché questi vengono parcellizzati per non andare a finire sotto la lente del controllo antimafia. Il tutto, naturalmente, negli interessi di quelle poche ditte locali che si spartiscono ogni euro (pubblico) stanziato dalla Regione. Quella delle aziende riconducibili alle 'ndrine, poi, è un tipo di concorrenza che fagocita tutto, basti pesare – ad esempio – a quella ditta del nord che cura i pasti all'ospedale che ha assunto otto nipoti del boss Rosario Fiarè (senza contare i vari affiliati e “simpatizzanti”) o alla ditta a cui vengono assegnati i lavori per la climatizzazione degli ambienti, il cui direttore tecnico è genero del boss Carmelo Lo Bianco.
La concorrenza delle 'ndrine è una concorrenza sleale e lo sappiamo. Sleale quasi quanto quella dei partiti. Ed è difficile, se non impossibile, capire quale delle due metastasi sia quella più distruttiva.
Il “boom” degli ospedali.
Nella Piana di Gioia Tauro sono sette: Palmi, Polistena, Rosarno, Taurianova, Oppido, Mamertina, Gioia Tauro, Cittanova. In tutto ce ne sono 42 (38 le cliniche private), in alcuni casi costruiti con decreto emergenziale della Protezione Civile.
Sette ospedali che, nell'ottobre del 2007, non riescono a salvare la vita a Flavio Scutellà, dodici anni, che muore a seguito di un ematoma che si è procurato battendo la testa sul selciato. Flavio muore perché in un ospedale non c'è posto, o non c'è un'ambulanza che possa andare a prenderlo oppure – addirittura – non c'è nemmeno il pronto soccorso.
Perché quei sette ospedali sono “ospedali elettorali”, buoni solo come sacca da cui attingere voti (di scambio) per la classe politica. Tutta, senza esclusioni. Ma dove, comunque, comanda l'Udc.
Tengo un'azienda...
«Tengo un'azienda che è dell'Udc». A dirlo è, nel 2006, Santo Garofalo, ex direttore generale della Asl numero 8 di Vibo. «Non ti dimenticare» - spiegava lo stesso in un'altra intercettazione - «Vibo è di Tassone e non di Ranieli né di quegli altri né di Stillitani. Le tre aziende: una di Galati, una di Tassone e l'altra di Trematerra». Mario Tassone, parlamentare Udc fino al 2008 nella Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno mafioso. Pino Galati, Unione di Centro anche lui e nel 2003 accusato – insieme ad Emilio Colombo e Gianfranco Micciché – nell'ambito dello scandalo droga nella Roma “bene” (lo stesso scandalo che coinvolse anche l'altro Udc Mele) e Gino Trematerra, stesso partito ed attualmente parlamentare europeo.
Ranieli, invece, è Michele Ranieli, Udc anche lui, che nel 2004 si incontra con il pentito Domenico Cricelli: «Eh, hai visto chi sono io...i lavori che gli faccio prendere a Lello Fusca, però se non mi dà 1 milione e 700 mila euro, il lavoro, non glielo faccio prendere» sarebbero state le parole pronunciate da Ranieli. Il condizionale è d'obbligo quando si parla di pentiti.
Quel che è certo, però, è che chi avrebbe vinto l'appalto per la costruzione del nuovo ospedale avrebbe dovuto dare il 2% dello stesso all'Udc. Non per corrompere o tenersi amico qualche esponente locale. Quel 2% era destinato ai vertici nazionali.
L'azienda scelta per vincere l'appalto e il Consorzio Tie di Domenico Liso e Domenico Scelsi (entrati anche loro nelle indagini), un consorzio il cui vero compito era esclusivamente quello di fare da tramite tra “il territorio” e la sede romana del partito. Era stato proprio uno degli esponenti di spicco dell'Udc – denominato “il dottore” - a far assegnare l'appalto a Tie.
1.765.000 euro l'importo totale della tangente (quanto meno della prima rata), nascosta in 16 cambiali con le quali onorare il “contratto di progettazione” stipulato tra la P&P Costruzioni di Lamezia Terme (prima subappaltatrice dei lavori) e la Icop spa. Impresa, quest'ultima, di proprietà della stessa Tie.
Da quel milione e settecentosessantacinque mila euro, comunque, bisognava toglierne quattrocento mila che sarebbero stati utilizzati per pagare il rup (Responsabile Unico del Procedimento) Francesco Vitiello per fargli pilotare l'appalto ed altri seicentonovanta mila andavano a Giorgio Campisi, 66 anni, geometra e dirigente dell'Udc siciliana che si sarebbe fatto carico della “sicurezza sul cantiere” (traduzione: di tenere buone le 'ndrine).
In tutto questo, però, c'è anche da dire che c'è stato chi ha provato a cambiare le cose (come vedremo anche nella “puntata lombarda”). Doris Lo Moro fino al 30 novembre del 2007 è stata assessore alla Sanità della giunta Loiero. Ma la signora Lo Moro aveva un piccolo “difetto”: non permetteva ai “suoi”, quelli del Partito Democratico, di entrare nel business.
Ma le probabilità di successo erano inferiori allo zero. Basti pensare che tra i suoi acerrimi nemici c'era Peppino Biamonte, lo stesso che faceva – letteralmente – carte false per far arrivare 500.000 euro alla clinica Villa Anya di Domenico Crea, il “dio” dell'Asl 11 di Reggio al quale Biamonte rispondeva con un più che eloquente “agli ordini” ogni volta che alzava il telefono.
Ed a proposito di privato, in tutta questa storia c'è anche spazio per gli uomini di Dio: don Alfredo Luberto è il titolare della casa di cura Papa Giovanni di Serre, vicino Cosenza. Come tanti, come troppi, anche a lui la Regione elargiva una parte di denaro che sarebbe dovuto andare, nello specifico, alla cura dei 363 degenti della casa di cura. Degenti che invece vivevano nel lerciume e con la scabbia addosso mentre monsignor Luberto comprava quadri (per non parlare delle quattordici automobili di sua proprietà), arredava il proprio appartamento con mobili di lusso e, naturalmente, pensava alla “cura” del proprio conto corrente.
Evidentemente anche monsignor Luberto – per citare una nota battuta – è di quella corrente spirituale che non vuole morire in povertà come quel Cristo di cui si riempiono la bocca.
Ma questa è un'altra storia...
(1 - Continua)