A dirlo è il generale David Petraeus, dal 23 giugno scorso uomo di fiducia di Barack Obama in Medio-Oriente, dove ha sostituito il generale Stanley Allen McChrystal, reo di aver rilasciato al magazine Rolling Stone una intervista molto critica verso l'amministrazione dell'attuale inquilino della Casa Bianca.
Suona un po' come il vecchio detto “se non puoi batterli unisciti a loro”, ed è quello che sembra stia accadendo in Afghanistan dove – dopo 9 anni di una guerra lanciata all'insegna della caccia al taleban – tra poco tempo quegli stessi uomini una volta inseriti nella “black list” andranno a formare il governo della probabile era post-Karzai o, quanto meno, ne andranno a rinsaldare i pilastri.
Abbiamo già parlato dell'influenza del clan Haqqani (qui il post: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/10/i-nuovi-padroni-dellafghanistan-il-clan.html), la cui importanza potrebbe rivelarsi utile – visti gli stretti rapporti con Al Quaeda – anche in un futuro conflitto con il Pakistan. Ma questa, per ora, è fanta-geopolitica.
Attenendoci invece alla realtà, un altro dei personaggi che quasi sicuramente andranno a far parte del nuovo esecutivo – vista anche la sua sovraesposizione mediatica – è una vecchia conoscenza dello zio Sam. Un amico molto speciale potremmo quasi affermare, visto che ai tempi della guerra anti-sovietica è stato il principale destinatario degli aiuti americani alle milizie afghane, aiuti che passavano proprio da quel Pakistan che sempre più diventa “croce e delizia” per l'amministrazione di Washington. Il nome di questo signore della guerra è Gulbuddin Hekmatyar.
- Chi è Gulbuddin Hekmatyar
Pashtun, nato nel 1947 a Kunduz (Afghanistan del Nord, capitale della provincia omonima) da una ricca famiglia di proprietari terrieri, già ai tempi dell'università di ingegneria di Kabul si fa notare per il suo radicalismo: non è difficile sentirlo minacciare di raschiare via il rossetto dalle labbra delle studentesse con la carta vetrata o decantare altre “gentilezze” simili. Negli anni '70 diventa uno degli uomini di spicco del partito islamico moderato Jamiat-i-Islami (il partito più vecchio dell'Afghanistan il cui nome significa “Società Islamica”), a quel tempo capeggiato dall'ex presidente (il primo dell'Afghanistan post-comunista) Burhanuddin Rabbani e dove spicca il principale nemico interno di Hekmatyar, quell'Ahmad Shāh Massūd conosciuto come il “Leone del Panjshir” divenuto l'”eroe per antonomasia” del popolo afghano.
Nel 1973 fugge in Pakistan, a seguito del golpe filo-comunista del progressista Mohammed Daud Khan. È in questo momento che iniziano i contatti – indiretti – tra Hekmatyar e gli americani, che in quegli anni organizzano la resistenza anti-sovietica dell'Afghanistan. Tre anni dopo la prima “svolta” di un uomo che non ha remore a passare da una parte all'altra della barricata: esce dal gruppo di Rabbani per fondare Hezb-i-Islami (il “Partito Islamico”), il cui obiettivo è creare una Repubblica Islamica sulla falsariga di quello che – negli stessi anni – l'ayatollah Khomeini tenta di fare in Iran.
Tra il 1979 ed il 1989 lo troviamo impegnato nella guerriglia anti-sovietica. È proprio nel suo rifugio di Peshawar che il suo radicalismo diventa ancor più forte, tanto da auto-proclamarsi “spada di Allah”. Durante il conflitto la sua base è a Shamshatoo, sede del più impenetrabile e disciplinato tra i campi profughi che il Pakistan crea per i rifugiati afghani. C'era una ”usanza” in quel campo: quando la gente vedeva dei corpi galleggiare lungo il canale che scorre lì vicino significava che Hekmatyar aveva eliminato un altro dei suoi nemici interni. Nel frattempo, lo abbiamo già visto, diventa il principale referente degli americani sul suolo afghano, tanto da essere l'unico destinatario di molte informazioni che non saranno invece rese note agli altri leader della Resistenza (sarà anche l'unico destinatario dei missili Stinger che arrivano in gran quantità nel 1986 e di 600 milioni di dollari di “aiuti” anti-sovietici).
Ma la guerra finisce. O meglio: finisce quella – indiretta – tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, perché un'altra logorante guerra è pronta a fare il suo ingresso nella quotidianità del popolo afghano: quella tra i signori della guerra, dove lo scontro più aspro – come era prevedibile – avviene proprio tra la fazione di Hekmatyar e quella degli ex alleati Rabbani- Massūd, che conquistano Kabul nel 1992 instaurando il primo governo post-sovietico, dove trova posto anche Hekmatyar, nel 1993. Ma la tregua dura poco, e nel 1994 il sangue scorre di nuovo copioso tra le fazioni afghane.
La gente però è stanca della guerra civile creata solo per la sete di potere dei signori della guerra e per questo si rivolge all'unico interlocutore possibile: nasce così la “minaccia” taleban.
Quello che avviene sotto il regime dei ṭālib lo conosciamo tutti. Quando gli Stati Uniti – sulle tracce dell'introvabile “Sceicco del Terrore” Osama Bin Laden – attaccano l'Afghanistan, Hekmatyar è in Pakistan, da dove più volte fa sapere di essere pronto a correre in soccorso degli studenti delle scuole coraniche (e di Bin Laden) al minimo cenno. Ma forse per problemi di comunicazione il leader del Partito Islamico torna nella terra dei padri solo nel febbraio 2002, quando ormai la guerra volge al tramonto. Nonostante la poca tempestività l'apporto degli uomini di Hekmatyar – forti di un addestramento con pochi eguali e del lascito della Central Intelligence Agency degli anni '80 – si rivela fondamentale per i taleban, in particolare sotto il punto di vista militare.
Tornato in Afghanistan Hekmatyar si stanzia a Kunar, al confine con il Pakistan, ma il suo potere – basato sul controllo delle piantagioni di oppio della provincia di Badakhshan – si estende anche alle province intorna a Kabul (Nangarhar, Logar, Laghman, Wardak) nonché a Jalalabad e Kandahar. A ciò si aggiungano i 19 seggi (su 246) nonché Abdul Hadi Arghandiwal, attuale ministro dell'Economia, che fanno di Hizb-ul-Islami e di Hekmatyar interlocutori quasi obbligatori per l'exit strategy americana.
Arriviamo così alla più stretta attualità. Nelle scorse settimane l'eco dei colloqui di pace tra il governo Karzai, gli onnipresenti signori della guerra ed i taleban del mullah Omar (sempre più descritto, però, come il fantasma del temibile uomo di qualche tempo fa...) è arrivato sui più importanti quotidiani occidentali, anche se non si può ancora dire se saranno fruttuosi o meno, basti considerare che per quanto potente, il reale potere negoziale di Hekmatyar è quasi ridotto al minimo, considerando anche i vari e repentini cambi di fronte a cui il leader del Partito Islamico ha abituato la sua gente e che ne fanno in qualche modo la “variabile impazzita” di questa fase di transizione dell'Afghanistan. Sembra però seria l'intenzione di arrivare ad una conclusione positiva da parte della sua fazione, che ha inviato come capo-delegazione Qutbuddin Helal, considerato il numero due di Hizb-ul-Islami. Come evidenziato anche in un'intervista rilasciata ad Anand Gopal per “The Christian Science Monitor” (e che ritrovate tradotta qui: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/10/i-colloqui-di-pace-in-afghanistan.html) le richieste di Hekmatyar sono relativamente semplici da realizzare: ritiro delle forze di occupazione occidentali entro la prossima estate – cioè un anno prima della data preventivata da Washington – nuove elezioni e, soprattutto, una nuova carta costituzionale. Anche se il punto principale degli accordi riguarderà il ruolo dell'attuale Presidente Hamid Karzai: uomo in mano agli americani o, come ruolo istituzionale vorrebbe, uomo che fa gli interessi della sua gente?
Ci sarebbe poi un'ultima considerazione da fare, relativa alla reale volontà degli americani di chiudere definitivamente l'affaire-afghano: far tornare al potere i taleban – o delle forze “miste” tra gli studenti ed i signori della guerra – non sarà forse solo un modo per creare un “protettorato” afghano fortemente controllato, anche economicamente, dallo zio Sam? Se il vero proposito americano è quello di portare l'Afghanistan ad essere una democrazia sul modello occidentale perché non puntare allora su figure di completa rottura con il passato violento di quella terra? Perché non puntare, ad esempio, sulla “piccola” grande Malalai Joya, una donna che ha avuto il coraggio di sfidare, da parlamentare, i signori della guerra che proprio in quel Parlamento imperversano?
A questo punto, però, la domanda dovrebbe essere rivista: gli americani vogliono davvero “chiudere” il capitolo afghano? Ma questa è un'altra storia...
(2 – continua...forse.)