Dicevo che questo post è stato nel cestino fino a ieri pomeriggio, fino a quando non mi arriva una mail di Lorella Zanardo (no, nessun caso di omonimia, è proprio l’autrice de “Il Corpo delle donne” che mi onora, oltre che della sua amicizia – seppur principalmente virtuale – anche di essere mia “fan” personale…) che mi chiedeva cosa ne pensassi della situazione partitica attuale e di un uomo politico in particolare. Per cui, pur non credendo alle coincidenze, non mi rimaneva altro da fare che aprire il cestino e riprendermi il testo che state per leggere. La domanda che mi poneva Lorella è se esista, allo stato attuale delle cose, un’alternativa alla situazione politica che stiamo vivendo ormai da tempo. Per rispondere a questa domanda voglio partire da L’Aquila, città ferita per l’incuria di qualcuno che un anno e qualche mese fa sottovalutò il terremoto e per le manganellate prese la settimana scorsa a Roma. Qualche giorno fa, infatti, 150 deputati del Partito Democratico hanno avuto il coraggio di presentarsi nel capoluogo abruzzese. «Grazie a voi di essere venuti qui. A soli un anno, tre mesi e ventuno giorni dal terremoto…» è stato il giusto saluto degli aquilani.Come gli avvoltoi, infatti, i deputati del partito di finta opposizione, che sempre più ricorda la corrente migliorista di quel Partito Comunista Italiano che – incapace di coinvolgere una popolazione tanto vasta da poter governare da solo –elemosinò un po’ di potere prostrandosi ai piedi della Democrazia Cristiana tramite quello che passò alla storia come “il compromesso storico”.
Io negli anni 70 non ero ancora nato, dunque tutto quello che so sul compromesso e su quegli anni in generale deriva dalla lettura di libri, dalla visione di film e documentari e, in alcuni casi, da chiacchierate con chi quegli anni li ha vissuti sulla pelle, ma quello che mi sembra stia venendo fuori in quest’ultimo periodo è la riproposizione – o forse il compimento – dell’idea che Enrico Berlinguer delineò dalle pagine di “Rinascita” nel marzo 1972. Come definire altrimenti la politica del “tu fai che io mi giro dall’altra parte” dei vertici del PD? Ma non è solo il partito senz’anima a lasciarmi interdetto, visto che se i nuovi miglioristi giocano a fare la destra, anche quella che una volta si chiamava “estrema” sinistra non viaggia poi su binari tanto differenti. Qui secondo me bisognerebbe ragionare su un discorso per certi versi “linguistico”: cosa intendiamo quando parliamo di “Sinistra”. Perché se intendiamo che la Sinistra è quella che qualunque cosa succeda nel paese l’unica cosa che conta è prendersela con Berlusconi e la sua coalizione abbiamo un certo tipo di sinistra. Se invece ne intendiamo una versione in cui i leader li trovi la mattina alle 4 davanti alle fabbriche a volantinare, li vedi in prima fila a difendere i migranti rinchiusi nei Centri di Identificazione ed Espulsione o a difendere i diritti dei carcerati o dei lavoratori siamo di fronte ad un altro tipo di Sinistra. Una Sinistra ben più vicina almeno a come la intendo io. Solo che tutto questo, francamente, non lo vedo.
Mi chiedo per esempio dove siano gli esponenti di quella Sinistra “estrema” quando l’Esecutivo – in un remake del governo Tambroni (anni ‘60) – manganella gli operai che protestano per un Padrone che, grazie ai sindacati gialli che adesso fanno gli sconvolti, quelli per cui spostare la più grande azienda di questo paese in Serbia è un atto inaudito ed indegno, può svegliarsi una mattina e fottersene allegramente (scusate il francesismo…) dello Statuto dei Lavoratori introdotto in questo paese grazie a delle lotte sociali che poco avevano di differente dalle guerre civili. Mi chiedo dove siano le Sinistre – visto l’infinito numero di nani e nanetti creati in questi anni – quando c’è da combattere per le battaglie sociali: una scuola ed un’università che sempre più sta tornando al classismo fascista; la lotta contro la privatizzazione di beni fondamentali come l’acqua pubblica (che per altro sarebbe anche una netta violazione dei diritti umani…). Oppure, torniamo a qualcosa del passato: avete presente tutti il nuovo “scandalo” dei circa 92.000 documenti presentati all’opinione pubblica da Wikileaks, il New York Times, il Gardian e lo Spiegel in merito alla guerra in Afghanistan. Qui ho almeno tre considerazioni da fare: a) a parte la novità del riportare l’esatto numero di vittime, quali sono state le cose sconvolgenti nei documenti? Apprendere che la guerra non è quella cosa bella, buona e giusta che ci presentano nei film hollywoodiani? O apprendere che chi spara forse a tutto pensa tranne che ad “esportare” pace e democrazia? Beh, credo che al paese dei balocchi avremmo dovuto iniziare a non crederci più tanti anni fa, e non vorrei che adesso l’opinione pubblica si scandalizzasse per cose che l’informazione antagonista racconta ormai da tempo immemore solo perché Wikileaks è il sito che va di moda in questi ultimi tempi; b) A pubblicare la notizia sono stati alcuni tra i principali giornali internazionali. E i “grandi” giornali italiani? Dove stavano quando il mondo scopriva questi documenti? Dov’era Repubblica (che in teoria dovrebbe essere orientato a sinistra ed il giornale più letto in Italia dopo la Gazzetta dello Sport…). D’accordo che dietro Repubblica c’è De Benedetti, di cui è nota l’eterna bagarre con Berlusconi, ma se a Repubblica si mettessero finalmente a fare informazione invece che fare le veline antiberlusconiane forse il paese ne gioverebbe, no? E veniamo così alla terza – e più importante – considerazione: «Non sia trattato pubblicamente ma solo a livello tecnico» chiedeva il governo Prodi in merito all'invio di truppe senza le fanfare mediatiche ad enfatizzare questi "eroi". Ricordo che quello stesso governo era composto anche dalle forze estreme, le quali di giorno si stracciavano le vesti per apparire contrarie alla guerra. Come la mettiamo ora? Come continuare a credere a chi di giorno ti promette una cosa e di notte fa di tutto per non fartici avvicinare? È un po’ come con Penelope e la sua tela, solo che lei attendeva il ritorno di Ulisse, i politici attendevano il tempo necessario per maturare la propria pensione da parlamentari. Mi viene gioco facile sostenere che tutto ciò deriva dalla natura stessa del sistema partitico e di potere, eretti ambedue sul concetto di “compromesso”. Ma se provassimo a cambiarla questa situazione? Se provassimo a “far saltare il banco” e riscrivere le regole del gioco fin dalle più importanti, fin da quelle su cui ci siamo basati fino ad oggi?
In queste settimane sto leggendo “Un contadino nella metropoli”, il libro – autobiografico – che racconta l’esperienza di vita e di lotta di Prospero Gallinari, uno di quei tanti giovani che negli anni ‘70 videro nella lotta armata (è stato infatti una delle colonne portanti delle Brigate Rosse) l’unica via per migliorare il sistema di cose che gli era capitato di abitare. A pagina 132 si può leggere:
«La strategia del processo politico di Jacques Vergès è il libro che gira freneticamente nelle celle. Il piccolo volume del ‘68 è già a suo modo un classico. Si tratta di una tagliente indagine sulle varie linee di comportamento processuale adottate nei secoli dagli imputati politici eccellenti, fossero essi capi di stato, filosofi come Socrate, ribelli o militanti di organizzazioni rivoluzionarie. L’attenzione di Vergès è attirata da quello che egli definisce “processo di rottura”. È il comportamento assunto da Dimitrov davanti ai nazisti nel 1934. Il comportamento dei membri del FLN algerino davanti ai tribunali francesi. “anche se in catene, l’accusato si presenta in nome di un altro ordine e di un altro mondo”. È dunque la stessa competenza dei magistrati che il “processo di rottura” mette in questione. È la stessa posizione dell’imputato che va abbandonata, abbandonando la tacita connivenza fra giudice e reo che il rito processuale comporta(…)».
Gallinari e gli altri non fecero altro che sovvertire le regole del gioco, dicendo che quell’impostazione per loro non voleva dire alcunché (da quel momento, infatti, iniziò anche il loro dichiararsi prigionieri politici). Dunque perché non traslare questa operazione dagli anni ‘70 ad oggi?
Forse perché riuscire in questo significherebbe andare contro la natura stessa della politica partitica come la intendiamo noi, cioè di quella politica che – dall’una e dall’altra parte – fa del “tutto e subito” l’unica ragion d’essere, tant’è vero che né dall’una né dall’altra parte ci viene proposto un modello al quale riferirsi, come scriveva Pietro Orsatti ieri su “Gli Italiani”: «Manca un sogno da offrire agli italiani, una speranza, un progetto chiaro». Manca, dall’una e dall’altra parte, un progetto di Futuro. E qui non è colpa della classe politica – o, per meglio dire, non solo – è colpa della natura stessa del nostro popolo, non più abituato a programmare né a guardare oltre il brevissimo periodo.
Ma, naturalmente, per investire sul Futuro – anzi, anche solo per avere un progetto, anche parziale, confuso, di Futuro – dobbiamo investire sul Presente. Ciò vuol dire due cose: a) eliminare la classe politico-economica attuale, la cui data di scadenza è oramai illeggibile; b) creare una nuova coscienza politica nei giovani. Per fare questo abbiamo bisogno di una nuova Educazione politica, un’educazione che schiodi finalmente la nostra generazione dallo schermo televisivo per tornare a chiedersi cosa succede nel mondo (e qui mi viene in mente il Luca Argentero in versione “contestatore universitario” de “Il Grande Sogno”), ad informarsi e ad agire affinché le innumerevoli storture di questo mondo vengano abbattute. Non so come la vedano i miei coetanei – considerando anche che molti di quelli che conosco io non sono esattamente inquadrabili nello stereotipo dell’”impegnato” – so che comunque le scintille per qualcosa di nuovo ci sono, come ci sono sempre state. E sempre più mi convinco di una cosa: che quando finalmente capiremo come scardinare le porte del Palazzo – oKKupandolo – sapremo andare oltre questo mondo fatto di partiti, coalizioni e personaggi politici che si girano dall’altra parte. Dobbiamo però incominciare a fare proprio come durante il “processo-guerriglia” delle Brigate Rosse: dobbiamo ricominciare a considerarci non come singoli, ma come parti di uno stesso progetto. Così come fecero i Partigiani contro il regime fascista e così come, negli anni 70, fecero quell* che occupavano le università e sì, anche coloro che scelsero la lotta armata. Dobbiamo abbandonare il parlare all’”io” capitalista per sostituirlo al “noi” del futuro. I prodromi ci sono già…
«I nostri nemici organizzano le loro forze mediante la potenza del danaro e l’autorità dello stato. Noi non possiamo organizzare le nostre, se non mediante la convinzione, la passione.»
[Michail Alexandrovič Bakunin]