foto: thecuttingedgenews.com |
Berlino, 23 giugno 2012 – Venerdì scorso è stata lanciata la “Worldwide Investments in Cluster Munitions, a shared responsibility”[1], una ricerca realizzata da IKV Pax Christi e FairFin, entrambe facenti parte della Cluster Munition Coalition (CMC), una ricerca che mostra come dal 2009 banche ed altre istituzioni finanziarie di sedici paesi abbiano investito più di 43 miliardi di dollari in compagnie che producono le cluster bombs (le famigerate bombe a grappolo di cui è da tempo noto l'impatto, in particolare sulla vita delle popolazioni civili), motivo per il quale la CMC ha richiamato i governi dei paesi che hanno aderito alla Convenzione di Oslo – che bandisce tali bombe - affinché procedano al divieto di investimento nel settore attraverso la creazione di una legge nazionale in materia.
L'Italia – che dall'11 al 14 settembre 2012 andrà al meeting di Oslo per la prima volta come Stato-Parte dopo aver accolto definito attraverso l'articolo 7 della specifica legge che vieta non solo il finanziamento diretto alla produzione, ma anche il supporto finanziario per quanto riguarda produzione, detenzione e commercio.
Già due anni fa, con il disegno di legge 2136 le senatrici Silvana Amati del Partito Democratico e Barbara Contini all'epoca del Popolo della Libertà (oggi migrata in Futuro e Libertà), si era tentato di legiferare sulla questione, ma la proposta è ferma da due anni in Commissione Finanza e Tesoro. «È quantomai illuminante il fatto che addirittura le banche, in genere recalcitranti su alcuni argomenti si muovano più velocemente delle nostre istituzioni». «Da quella Commissione, che abbiamo contattato numerose volte, molte rassicurazioni e pochi fatti» - dice Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le mine - «conosciamo il professor Baldassarri come una persona sensibile ad argomenti quali i diritti umani ma, evidentemente, in questo caso la sensibilità non basta e non era mai successo dal 1994 ad oggi che una proposta di legge così importante fosse totalmente ignorata non riconoscendole neanche la dignità di una calendarizzazione».
Dal rapporto, comunque, si evince chiaramente come dal 2009 un numero sempre maggiore di banche stiano pian piano abbandonando questo tipo di mercato, abbracciando un comportamento – che in realtà riguarda tutto il settore delle armi[2] – più etico nei loro investimenti. Sono in tutto 137 le banche e le istituzioni finanziarie ancora coinvolte in questo particolare mercato, 27 delle quali afferenti a paesi che fanno parte della Convenzione sulle munizioni cluster come Francia, Germania, Italia, Giappoen e Gran Bretagna. Per quanto riguarda l'Italia i nomi più in vista sono quelli di Intesa San Paolo – negli anni scorsi uno dei principali finanziatori della Lockheed Martin - ed Unicredit, che si sono impegnate ad abbandonare completamente il mercato delle bombe a grappolo anche se è ancora molto il lavoro da fare, in particolare nelle controllate dalle due holding. Il nostro è, secondo il rapporto, uno dei pochi paesi ad aver esteso il divieto anche al finanziamento di aziende produttrici.
Nonostante questo, comunque, della lista nera fanno parte i “soliti nomi”, tra i quali JP Morgan Chase, Goldman Sachs, Deutsch Bank, Ubs, Credit Suisse, per una disposizione geografica che vede in testa alla lista gli Stati Uniti ed i suoi 63 istituti coinvolti, seguiti dalla Corea del Sud con 22 e dalla Cina con 16. Questi stessi paesi ospitano anche le principali aziende che producono le bombe a grappolo, cioè le statunitensi Lockheed Martin, Textron e Alliant Techsystems, le sudcoreane Hanwha e Poongsan e la Norinco, cinese. Chiude il gruppo dei produttori la Splav, sulla quale batte bandiera russa.
È interessante notare, in conclusione, come questi rapporti – che si parli di quello sulle bombe a grappolo o sulle banche armate – sembrano non attecchire in quella che qualcuno ha definito opinione pubblica, la cui coscienza anti-militarista, evidentemente, si è esaurita con la parata del 2 giugno.
L'Italia – che dall'11 al 14 settembre 2012 andrà al meeting di Oslo per la prima volta come Stato-Parte dopo aver accolto definito attraverso l'articolo 7 della specifica legge che vieta non solo il finanziamento diretto alla produzione, ma anche il supporto finanziario per quanto riguarda produzione, detenzione e commercio.
Già due anni fa, con il disegno di legge 2136 le senatrici Silvana Amati del Partito Democratico e Barbara Contini all'epoca del Popolo della Libertà (oggi migrata in Futuro e Libertà), si era tentato di legiferare sulla questione, ma la proposta è ferma da due anni in Commissione Finanza e Tesoro. «È quantomai illuminante il fatto che addirittura le banche, in genere recalcitranti su alcuni argomenti si muovano più velocemente delle nostre istituzioni». «Da quella Commissione, che abbiamo contattato numerose volte, molte rassicurazioni e pochi fatti» - dice Giuseppe Schiavello, direttore della Campagna Italiana contro le mine - «conosciamo il professor Baldassarri come una persona sensibile ad argomenti quali i diritti umani ma, evidentemente, in questo caso la sensibilità non basta e non era mai successo dal 1994 ad oggi che una proposta di legge così importante fosse totalmente ignorata non riconoscendole neanche la dignità di una calendarizzazione».
Dal rapporto, comunque, si evince chiaramente come dal 2009 un numero sempre maggiore di banche stiano pian piano abbandonando questo tipo di mercato, abbracciando un comportamento – che in realtà riguarda tutto il settore delle armi[2] – più etico nei loro investimenti. Sono in tutto 137 le banche e le istituzioni finanziarie ancora coinvolte in questo particolare mercato, 27 delle quali afferenti a paesi che fanno parte della Convenzione sulle munizioni cluster come Francia, Germania, Italia, Giappoen e Gran Bretagna. Per quanto riguarda l'Italia i nomi più in vista sono quelli di Intesa San Paolo – negli anni scorsi uno dei principali finanziatori della Lockheed Martin - ed Unicredit, che si sono impegnate ad abbandonare completamente il mercato delle bombe a grappolo anche se è ancora molto il lavoro da fare, in particolare nelle controllate dalle due holding. Il nostro è, secondo il rapporto, uno dei pochi paesi ad aver esteso il divieto anche al finanziamento di aziende produttrici.
Nonostante questo, comunque, della lista nera fanno parte i “soliti nomi”, tra i quali JP Morgan Chase, Goldman Sachs, Deutsch Bank, Ubs, Credit Suisse, per una disposizione geografica che vede in testa alla lista gli Stati Uniti ed i suoi 63 istituti coinvolti, seguiti dalla Corea del Sud con 22 e dalla Cina con 16. Questi stessi paesi ospitano anche le principali aziende che producono le bombe a grappolo, cioè le statunitensi Lockheed Martin, Textron e Alliant Techsystems, le sudcoreane Hanwha e Poongsan e la Norinco, cinese. Chiude il gruppo dei produttori la Splav, sulla quale batte bandiera russa.
È interessante notare, in conclusione, come questi rapporti – che si parli di quello sulle bombe a grappolo o sulle banche armate – sembrano non attecchire in quella che qualcuno ha definito opinione pubblica, la cui coscienza anti-militarista, evidentemente, si è esaurita con la parata del 2 giugno.
Note |
[2] http://senorbabylon.blogspot.it/2012/05/italia-il-mercato-rifugio-e-ancora.html