foto: canalsolidario.org |
Ciudad Autónoma de Melilla (Spagna), 20 maggio 2012 – «In questo momento» - scriveva mercoledì scorso Patricia Simón su Periodismo Humano[1] - «almeno una ventina di persone si sono nascoste in alcuni nascondigli di Melilla, probabilmente in alcuni terreni che proteggono la città e fanno da anticamera alle valli che la isolano dal continente africano».
Due mesi fa, il 10 marzo, cinquantadue congolesi sono stati espulsi da Madrid e riportati nella Repubblica Democratica del Congo, da dove erano partiti addirittura sei anni prima in fuga dal più povero territorio dell'Africa e dalle sue guerre.
Il timore, in tutti, è quello di essere rinchiusi nel Centro di Identificazione ed Espulsione (in spagnolo Centros de Internamientos de Extranjeros) di Melilla, enclave spagnola situata in territorio marocchino – dove il tempo massimo di detenzione è di sessanta giorni – e soprattutto essere rimpatriati nella Repubblica Democratica per essere incarcerati, come oppositori politici del regime di Joseph Kabila Kabange, nel Centro Penitenziario di Rieducazione Makala di Kinshasa, considerato il carcere più pericoloso del mondo. Fino a pochi anni fa morivano di fame almeno dieci persone al giorno. Per questo era nota come la “prigione della morte”.
Il Marocco – così come la Libia di Gheddafi e la Tunisia di Ben Ali – ha acconsentito alla politica di subappalto del controllo transfrontaliero voluto dall'Unione Europea in cambio dei fondi MEDA, istituiti nell'ambito del Processo di Barcellona (o Partenariato Euro-Mediterraneo) nel 1995[2].
Istituiti già nel 1985 e definiti dalla legge «privi di carattere penitenziario», sul territorio spagnolo sono stati costruiti nove centri per migranti[3] (quello di Melilla è del 1998), anche se la Asociación pro derechos humanos de Andalucía ha documentato l'esistenza di almeno altri due centri fantasma – nella zona di Almería e nelle Canarie – senza essere in grado di definire quanti altri centri “fantasma” esistano sul territorio, data la scontata difficoltà nel reperire informazioni. Come per la situazione italiana, gli attivisti denunciano non solo il regime di carcerazione illegale, ma anche la mancanza di interpreti che possano informare i migranti sui loro diritti (in particolare quello di asilo) nonché l'improvvisazione e l'inefficienza sanitaria. Nel 2008, infine, la Spagna ha inserito nel proprio ordinamento la cosiddetta “Direttiva della Vergogna”, che ha portato a 18 mesi il periodo massimo di detenzione dei migranti sans papier in attesa di rimpatrio.
Insieme a Ceuta, Melilla costituisce di fatto un limbo tra due inferni: da un lato il rimpatrio nei paesi di origine, che nella maggior parte dei casi significa un ritorno alla povertà ed alla guerra; dall'altro il passaggio verso i Centri di Permanenza Temporanei della penisola spagnola per sessanta giorni, a seconda delle capacità di questi ultimi e delle relazioni internazionali con il paese di rimpatrio.
Lo scorso 7 maggio dodici migranti si erano rivolti alla questura di Melilla, da dove erano stati poi tradotti al Centro di Identificazione de Espulsione di Tarifa, la città più meridionale dell'intera Europa continentale situata nella comunità autonoma dell'Andalucía. Qui erano stati uniti ad altri dieci congolesi arrivati da Ceuta, uno dei nodi strategici delle rotte dei migranti tra Africa ed Europa.
«Nel gruppo dei deportati» - scrive Patricia Simón - «ci sono almeno quattro persone non congolesi che temono di essere anch'essi deportati ugualmente nella Repubblica Democratica del Congo».
«Non siamo politici, però il presidente Kabila considera le persone che stanno fuori dai confini come un esercito di oppositori e allora li uccide», raccontano alcuni dei deportati. «In Spagna ti tengono per sessanta giorni in carcere e poi ti liberano. Qui a Melilla qualcuno è tenuto da tre anni...Possiamo solo sperare che questo è ciò che Dio vuole», dice uno dei ragazzi sopravvissuti al viaggio e che potrebbe essere presto detenuto in quella che Gustav Kiansumba della Organizzazione non governativa Crea (Centro de recursos de africanistas) definisce «una esposizione alla morte: senza cibo, senza igiene e senza poter ricevere visite».
È facile, dunque, intuire i motivi che spingono i migranti a nascondersi, anche se dalla città è praticamente impossibile sfuggire, essendo recintata da una doppia barriera alta sei metri e mezzo e terminante con del filo spinato.
Secondo quanto raccontato da alcuni attivisti dei diritti umani, la Polizia in casi come questi è solita realizzare retate identificando le persone in base al colore della pelle. Delle vere e proprie “retate razziste”, come sono state definite dalle Nazioni Unite ed altre organizzazioni che per prime le hanno denunciate, ritenendole fortemente discriminatorie. «Riescono a salvarsi solo i più duri, quelli che non escono dai loro rifugi», dice Kiansumba.
Secondo quanto denunciano alcuni detenuti del Centro di permanenza temporanea per migranti (in spagnolo Centro de Estancia Temporal de Inmigrantes, Ceti), la mattina di lunedì 14 maggio poliziotti in borghese sono entrati nel centro alla ricerca di congolesi e camerunensi, scatenando l'allarme tra i migranti che dormivano ed i minori che vivono con loro.
Il caso dei migranti detenuti nel Cie di Tarifa è stato posto a conoscenza del Defensor del Pueblo Andaluz, una figura istituzionale «al di sopra dei poteri che l'hanno nominato, cane da guardia dei diritti degli ultimi, inclusi i migranti» tipica della cultura spagnola da qualche anno utilizzata anche in America Latina[4].
La Delegación de Gobierno de Melilla – l'organo di rappresentanza del governo centrale della comunità autonoma – interrogata dalla giornalista, si è detta estraneo e non al corrente del fatto.
Nel video: diciannove rifugiati congolesi espulsi dal Belgio arrivati lo scorso 7 marzo a Kinshasa secondo quanto stabilisce il piano di cooperazione bilaterale tra i due paesi sul tema e detenuti a Makala, denominata “la prigione della morte”.
Due mesi fa, il 10 marzo, cinquantadue congolesi sono stati espulsi da Madrid e riportati nella Repubblica Democratica del Congo, da dove erano partiti addirittura sei anni prima in fuga dal più povero territorio dell'Africa e dalle sue guerre.
Il timore, in tutti, è quello di essere rinchiusi nel Centro di Identificazione ed Espulsione (in spagnolo Centros de Internamientos de Extranjeros) di Melilla, enclave spagnola situata in territorio marocchino – dove il tempo massimo di detenzione è di sessanta giorni – e soprattutto essere rimpatriati nella Repubblica Democratica per essere incarcerati, come oppositori politici del regime di Joseph Kabila Kabange, nel Centro Penitenziario di Rieducazione Makala di Kinshasa, considerato il carcere più pericoloso del mondo. Fino a pochi anni fa morivano di fame almeno dieci persone al giorno. Per questo era nota come la “prigione della morte”.
Il Marocco – così come la Libia di Gheddafi e la Tunisia di Ben Ali – ha acconsentito alla politica di subappalto del controllo transfrontaliero voluto dall'Unione Europea in cambio dei fondi MEDA, istituiti nell'ambito del Processo di Barcellona (o Partenariato Euro-Mediterraneo) nel 1995[2].
Istituiti già nel 1985 e definiti dalla legge «privi di carattere penitenziario», sul territorio spagnolo sono stati costruiti nove centri per migranti[3] (quello di Melilla è del 1998), anche se la Asociación pro derechos humanos de Andalucía ha documentato l'esistenza di almeno altri due centri fantasma – nella zona di Almería e nelle Canarie – senza essere in grado di definire quanti altri centri “fantasma” esistano sul territorio, data la scontata difficoltà nel reperire informazioni. Come per la situazione italiana, gli attivisti denunciano non solo il regime di carcerazione illegale, ma anche la mancanza di interpreti che possano informare i migranti sui loro diritti (in particolare quello di asilo) nonché l'improvvisazione e l'inefficienza sanitaria. Nel 2008, infine, la Spagna ha inserito nel proprio ordinamento la cosiddetta “Direttiva della Vergogna”, che ha portato a 18 mesi il periodo massimo di detenzione dei migranti sans papier in attesa di rimpatrio.
Insieme a Ceuta, Melilla costituisce di fatto un limbo tra due inferni: da un lato il rimpatrio nei paesi di origine, che nella maggior parte dei casi significa un ritorno alla povertà ed alla guerra; dall'altro il passaggio verso i Centri di Permanenza Temporanei della penisola spagnola per sessanta giorni, a seconda delle capacità di questi ultimi e delle relazioni internazionali con il paese di rimpatrio.
Lo scorso 7 maggio dodici migranti si erano rivolti alla questura di Melilla, da dove erano stati poi tradotti al Centro di Identificazione de Espulsione di Tarifa, la città più meridionale dell'intera Europa continentale situata nella comunità autonoma dell'Andalucía. Qui erano stati uniti ad altri dieci congolesi arrivati da Ceuta, uno dei nodi strategici delle rotte dei migranti tra Africa ed Europa.
«Nel gruppo dei deportati» - scrive Patricia Simón - «ci sono almeno quattro persone non congolesi che temono di essere anch'essi deportati ugualmente nella Repubblica Democratica del Congo».
«Non siamo politici, però il presidente Kabila considera le persone che stanno fuori dai confini come un esercito di oppositori e allora li uccide», raccontano alcuni dei deportati. «In Spagna ti tengono per sessanta giorni in carcere e poi ti liberano. Qui a Melilla qualcuno è tenuto da tre anni...Possiamo solo sperare che questo è ciò che Dio vuole», dice uno dei ragazzi sopravvissuti al viaggio e che potrebbe essere presto detenuto in quella che Gustav Kiansumba della Organizzazione non governativa Crea (Centro de recursos de africanistas) definisce «una esposizione alla morte: senza cibo, senza igiene e senza poter ricevere visite».
È facile, dunque, intuire i motivi che spingono i migranti a nascondersi, anche se dalla città è praticamente impossibile sfuggire, essendo recintata da una doppia barriera alta sei metri e mezzo e terminante con del filo spinato.
Secondo quanto raccontato da alcuni attivisti dei diritti umani, la Polizia in casi come questi è solita realizzare retate identificando le persone in base al colore della pelle. Delle vere e proprie “retate razziste”, come sono state definite dalle Nazioni Unite ed altre organizzazioni che per prime le hanno denunciate, ritenendole fortemente discriminatorie. «Riescono a salvarsi solo i più duri, quelli che non escono dai loro rifugi», dice Kiansumba.
Secondo quanto denunciano alcuni detenuti del Centro di permanenza temporanea per migranti (in spagnolo Centro de Estancia Temporal de Inmigrantes, Ceti), la mattina di lunedì 14 maggio poliziotti in borghese sono entrati nel centro alla ricerca di congolesi e camerunensi, scatenando l'allarme tra i migranti che dormivano ed i minori che vivono con loro.
Il caso dei migranti detenuti nel Cie di Tarifa è stato posto a conoscenza del Defensor del Pueblo Andaluz, una figura istituzionale «al di sopra dei poteri che l'hanno nominato, cane da guardia dei diritti degli ultimi, inclusi i migranti» tipica della cultura spagnola da qualche anno utilizzata anche in America Latina[4].
La Delegación de Gobierno de Melilla – l'organo di rappresentanza del governo centrale della comunità autonoma – interrogata dalla giornalista, si è detta estraneo e non al corrente del fatto.
Nel video: diciannove rifugiati congolesi espulsi dal Belgio arrivati lo scorso 7 marzo a Kinshasa secondo quanto stabilisce il piano di cooperazione bilaterale tra i due paesi sul tema e detenuti a Makala, denominata “la prigione della morte”.
Note |
[2] Il Programma comunitario MEDA (Fondi MEDA II);
[3] Los nueve centros de internamiento en España, publico.es, 18 giugno 2006;
[4] Chi ha bisogno di un defensor del pueblo? di Rita Fatiguso, blog.ilsole24ore.com, 11 dicembre 2007;