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Ci sono delle storie, in Italia, la cui puzza è avvertita a chilometri di distanza. Sono le storie che parlano di mafia, quella che spara, uccide e fa morti per la strada.
Ci sono altre storie, in Italia, che puzzano lo stesso, magari di meno, con l'olezzo edulcorato da litri e litri di profumo, come quelle che riguardano le infiltrazioni mafiose nell'economia legale, nelle gare per i grandi e piccoli appalti o quelle che riguardano il mondo della sanità.
E poi ci sono quelle altre storie, in Italia. Quelle che non puzzano di mafia perché, a ben guardare, con la mafia non hanno niente a che fare. Né con quella che spara, uccide e fa morti per la strada né con quella che si infiltra nell'economia legale.
Però puzzano lo stesso.
Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro nel tempo. Al 12 dicembre 2000, per la precisione.
Quel 12 dicembre in Sicilia accaddero due cose, entrambe a Palermo. Alla presenza di quattordici capi di Stato, cento ministri e oltre duemila delegati di 180 paesi veniva firmata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale[1], con la quale si introdussero il reato di associazione mafiosa, riciclaggio di denaro di provenienza illecita, corruzione e intralcio alla giustizia. Sempre a Palermo, a Corleone per essere precisi, quello stesso giorno arrivarono tra gli altri l'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, il vicesegretario delle Nazioni Unite Pino Arlacchi – oggi deputato europeo del Partito Democratico – Piero Grasso, allora Procuratore capo della Repubblica, Don Luigi Ciotti, il giudice Ingroia e, naturalmente, le autorità locali. Il motivo di tanto dispiegamento di forze fu l'inaugurazione del Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e il movimento Antimafia (da ora, Cidma), che vide il suo miglior momento proprio in quel 12 dicembre.
Perché dopo l'inaugurazione diventa un'altra cosa.
Eppure il centro avrebbe tutte le carte in regola per essere uno snodo importante per quella memoria antimafia – siciliana e nazionale – troppe volte vilipesa.
Situato nella zona di Palermo che dette i natali ai “viddani”di Cosa Nostra, all'atto dell'inaugurazione la camera penale del Tribunale palermitano donò tutti i faldoni del maxi-processo, dei quali però è consultabile solo quello contenente le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, dichiarazioni ormai note anche al grande pubblico.
Il contenuto degli altri faldoni, invece, lo conoscono solo i giudici che presero parte al processo e gli avvocati. Perché fino ad oggi – e sono passati undici anni – quei faldoni non sono stati né ordinati né inventariati, ed è per questo impossibile consultarli. «Da undici anni aspettiamo che si proceda alla digitalizzazione dei documenti» - spiega Massimiliana Fontana, unica referente del centro - «Senza è impossibile, per chi deve fare una ricerca, trovare dei riferimenti precisi. È come cercare un ago in un pagliaio».
Oltre alla memoria “processuale”, che potrebbe essere utilizzata per un'infinità di cose, da articoli giornalistici di ricostruzione storica a tesi di laurea a film, documentari etc, è stata dimenticata dalle istituzioni anche la memoria emotiva che il centro offre grazie agli scatti di Letizia Battaglia – alla quale si deve, tra le tante, l'immagine che inchioda Giulio Andreotti ai suoi rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo (uomini d'onore della famiglia di Salemi) e sempre negato dall'ex presidente del consiglio[2] - e di sua figlia Shobha.
Ed è forse questo il vero motivo per cui le istituzioni hanno lasciato che sul Cidma si creasse una vera e propria battaglia politica che con la mafia non ha assolutamente niente a che fare.
Negli anni, infatti, la lotta politica – interna al centrodestra corleonese – tra Nicolò Nicolosi (oggi nel Movimento per le Autonomie di Raffaele Lombardo) che di Corleone è stato sindaco dal 2002 al 2007 e l'attuale sindaco Antonino Iannazzo (ex Alleanza Nazionale), che ha creato invece il Laboratorio della Legalità, dove le opere pittoriche del maestro particinese Gaetano Porcasi, raccontano gli ultimi cento anni della storia della mafia e dell'antimafia.
La domanda fondamentale, tra le tante che si potrebbero fare, riguarda una semplice constatazione logica: se non si è stati capaci di amministrare un centro – o non si è voluti essere capaci, che è cosa diversa – come si potrà essere capaci di amministrare addirittura due centri antimafia?
Ma questa, lo abbiamo detto, non è una storia che riguarda la mafia – né, dunque, l'antimafia. È, invece, una notizia che riguarda molto più semplicemente la “malapolitica”, quella che ragiona solo in termini di poltrone e voti (spesso di scambio) come proprio le vicissitudini del Cidma spiegano bene.
Una delle battaglie politiche principali, come infatti denunciava nel 2007 il sito “Cittanuovecorleone.it”, riguardava proprio la redistribuzione delle poltrone all'interno del consiglio direttivo del centro, che prevedeva la rinuncia da parte della “frangia-Iannazzo” di un dirigente. E questa, lo sappiamo, è una proposta a cui i politicanti – di qualunque estrazione siano – danno sempre la solita risposta.
Non che all'epoca della presidenza Nicolosi il centro abbia avuto maggior fortuna, dato che nel 2004 una modifica statutaria rendeva la nomina dei dirigenti nominati dal comune eterna, come solo il Papa e qualche anacronistico Imperatore può permettersi oggi. Due anni prima, peraltro, il tentativo di nominare ad assessore comunale uno dei legali di Gianni Riina (primogenito di Totò “'u curtu” Riina) aveva fatto dimettere dal direttivo del centro associazioni come Libera, il Centro Peppino Impastato e quello Pio La Torre o la Fondazione Cesare Terranova. Prendendo la palla al balzo il sindaco Nicolosi eliminò queste associazioni anche dai soci fondatori del centro, cancellando così le ultime tracce di un'antimafia che, nel centro – in cui come si denuncia da più parti si fa molto più elettoralismo che non lotta a Cosa Nostra – non sembra mai essere entrata seriamente.
Note |
[2] http://www.rebuz.it/fotographia/articoli/interviste/letiziabattaglia/07.jpg