Il “boom” si è registrato tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ma la camorra continua ad usare l'arma delle perizie psichiatriche per evitare il carcere o per delegittimare quei collaboratori di giustizia che decidono di passare dall'altra parte. In tutto questo, fondamentale è il ruolo dei periti, troppo spesso conniventi o non adeguatamente preparati a riconoscere il confine sottile tra la follia vera e quella simulata, dando così ai boss un grosso aiuto nella gestione dei propri affari. Da “I medici della camorra” un libro di Corrado De Rosa. |
“I medici della camorra” di Corrado De Rosa (Castelvecchi editore, 288 pagg., 16 euro) |
Ottaviano (Napoli) 1 aprile 1982 – Una Fiat 128 viene ritrovata in viale Elena, a pochi metri dal Municipio. Nel bagagliaio i carabinieri trovano un corpo, incaprettato e decapitato. La testa viene rinvenuta in una bacinella posta sul lato passeggero di quella stessa autovettura. È una testa “famosa”, quella. Appartiene al professor Aldo Semerari, tra i fondatori della criminologia italiana e con un passato politico che dalla corrente stalinista del PCI degli anni Cinquanta lo vede protagonista – precorrendo i tempi – degli ambienti dell'estrema destra, tanto da proporsi come catalizzatore di un movimento che riunisse le sigle politiche afferenti a quell'ideologia con tutta una serie di gruppi criminali – tra cui la Banda della Magliana – che avrebbero dovuto costituire l'esercito del movimento.
Ma Aldo Semerari è anche altro. È stato professore ordinario all'Università romana “La Sapienza” e direttore dell'Istituto di Psicopatologia forense, è regolarmente iscritto alla Loggia P2 (del quale però non sembra esserci traccia tra i 962 nomi noti, ma sappiamo ormai che gli appartenenti alla loggia erano più di duemila) e negli anni si è occupato, come perito, di molti tra i più importanti casi giudiziari italiani, tra cui l'omicidio Pasolini ed i processi ad alcuni appartenenti al “clan dei Marsigliesi”.
Il suo corpo viene ritrovato davanti l'abitazione di Vincenzo Casillo, detto 'O Nirone per via della capigliatura corvina, imprenditore e appartenente alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, 'O professore, del quale cura gli interessi sul territorio quando questi è in carcere. Ma cosa c'entra uno dei più importanti psichiatri e criminologi italiani con la camorra?
Se questa storia fosse un film, l'attore principale sarebbe Robert De Niro, che infatti nel 1999 e nel 2002 veste i panni del boss Paul Vitti in “Terapia e pallottole” e “Un boss sotto stress” dopo aver vestito quelli del giovane Don Vito Corleone per Francis Ford Coppola nel 1974.
Sostituendo però ai nomi fittizi di Paul Vitti, di Ben Sobel (lo psichiatra – interpretato da Billy Crystal – che si occupa del boss nei due film) e Vito Corleone con quelli ben più reali del già citato Cutolo, di Umberto Ammaturo (tra i leader della Nuova Famiglia, il “cartello” camorristico nato negli anni Settanta per contrastare la NCO), di Michele Zaza detto 'O pazzo e conosciuto come il “Gianni Agnelli del Sud” [1] o di Giuseppe Setola, detto 'O cecato per via di un malattia alla retina che gli permette comunque di fare diciotto morti in pochi mesi, quello che ne viene fuori non è un film, ma la storia – vera – dei rapporti tra la criminalità organizzata e la psichiatria.
Fatte salve le fonti presenti tra le note a fondo pagina, le informazioni per questo articolo sono tratte da “I medici della camorra” dello psichiatra Corrado De Rosa.Il suo corpo viene ritrovato davanti l'abitazione di Vincenzo Casillo, detto 'O Nirone per via della capigliatura corvina, imprenditore e appartenente alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, 'O professore, del quale cura gli interessi sul territorio quando questi è in carcere. Ma cosa c'entra uno dei più importanti psichiatri e criminologi italiani con la camorra?
Se questa storia fosse un film, l'attore principale sarebbe Robert De Niro, che infatti nel 1999 e nel 2002 veste i panni del boss Paul Vitti in “Terapia e pallottole” e “Un boss sotto stress” dopo aver vestito quelli del giovane Don Vito Corleone per Francis Ford Coppola nel 1974.
Sostituendo però ai nomi fittizi di Paul Vitti, di Ben Sobel (lo psichiatra – interpretato da Billy Crystal – che si occupa del boss nei due film) e Vito Corleone con quelli ben più reali del già citato Cutolo, di Umberto Ammaturo (tra i leader della Nuova Famiglia, il “cartello” camorristico nato negli anni Settanta per contrastare la NCO), di Michele Zaza detto 'O pazzo e conosciuto come il “Gianni Agnelli del Sud” [1] o di Giuseppe Setola, detto 'O cecato per via di un malattia alla retina che gli permette comunque di fare diciotto morti in pochi mesi, quello che ne viene fuori non è un film, ma la storia – vera – dei rapporti tra la criminalità organizzata e la psichiatria.
A Napoli si direbbe “fare lo scemo per non andare alla guerra”. Che poi sia la guerra o la prigione è solo un insignificante dettaglio. Per gli esponenti dei clan – di qualunque “estrazione delinquenziale” facciano parte, che siano appartenenti a Cosa Nostra, alla camorra o 'ndranghetisti – il carcere è in qualche modo una tappa obbligata, un passaggio che prima o poi tocca a tutti. Tanto che ormai “fa curriculum” e che evidentemente serve – oltre ad intessere accordi con altri clan/altre organizzazioni – anche ad aumentare il proprio prestigio all'interno dell'organizzazione di appartenenza (l'onore, insomma). Solo che poi, quando in carcere ci finiscono davvero, fanno di tutto per uscirsene il prima possibile. In barba all'onore ed al curriculum. Ed alle casse dello Stato.
Invalidi q.b. Quando viene arrestato, nel 2007, Giuseppe Gallo è capo del clan Gallo-Limelli-Vengone di Torre Annunziata, considerato uno dei clan più ricchi e potenti della camorra e dedito principalmente al narcotraffico internazionale, al traffico d'armi ed alle estorsioni. È definito dagli inquirenti un simulatore perfettamente sano di mente dalle discrete doti recitative. Gallo è infatti noto per le sue capacità organizzative, tanto da essere riuscito a dare al suo clan una solidissima struttura gerarchica nonostante la copiosa documentazione sanitaria che gli vale un assegno mensile di 699 euro per la sua totale incapacità di intendere e di volere.
Luigi Cimmino, boss del quartiere Vomero tra i fondatori dei cosiddetti “Scissionisti di Secondigliano”[2] - balzato agli onori delle cronache per essere stato il vero obiettivo dell'attentato che costò la vita a Silvia Ruotolo[3] nel 1997 e per una lettera[4] nella quale dichiara, da uomo libero, di dissociarsi dall'organizzazione che lo ha visto per anni tra i protagonisti, secondo i periti era capace di gestire un clan ma totalmente incapace di badare a se stesso, tanto da essere destinatario di pensione di invalidità più accompagnamento. Chissà se, tra pentimento e dissociazione, avrà trovato anche il tempo per restituire il denaro...
Giuseppe Morabito - 'U tiradrittu - tra i “grandi nomi” della 'ndrangheta calabrese il cui arresto è stato considerato ancor più importante di quello di Bernardo Provenzano, per dodici anni latitante nelle terre d'Aspromonte e dal 1982 titolare di una pensione di invalidità (circa 800 euro) regolarmente ritirata dalla moglie.
Sono tre casi, tra i tantissimi che si potrebbero prendere ad esempio, non solo – e non tanto – di quanto la criminalità organizzata tenti in tutti i modi di arrecare danno allo Stato (quando non riesce ad allearcisi, naturalmente), ma soprattutto di quanto anche in questo ambito, come nell'economia, nella politica ecc., esista una zona grigia in cui si muovono determinati soggetti – per paura o per convenienza personale – senza il cui aiuto, probabilmente, il problema della criminalità organizzata sarebbe di ben altro spessore.
Nulla sarebbe – quanto meno nell'ambito dei rapporti criminalità-carcere – senza i periti che falsificano cartelle psichiatriche od ospedaliere, dando così la possibilità a boss e manovalanza varia di uscire dal carcere per rifugiarsi in strutture dal controllo meno intensivo.
Uno di questi periti è proprio Aldo Semerari, che più di una volta ha truccato le perizie psichiatriche di Raffaele Cutolo, campione (quasi) indiscusso nello sfruttamento di tale pratica, tanto da utilizzarle come merce di scambio quando si è trovato a trattare con lo Stato, come vedremo a breve. Prima è forse necessario spendere qualche parola sul ruolo del perito di parte e dell'utilizzo di tale figura all'interno dei processi.
Porte girevoli. Può capitare – come ricorda anche la Direzione Distrettuale Antimafia napoletana – che il perito chiamato a tutelare gli interessi del camorrista all'interno del processo sia anche consulente dell'Autorità giudiziaria e medico nelle carceri in cui i propri assistiti sono detenuti. Per diventare perito di parte – una figura che dovrebbe avere più o meno la stessa utilità democratica dell'avvocato di difesa – basta iscriversi ad un apposito albo e pagare ogni anno circa 150 euro di tassa per rinnovare l'iscrizione, non sono richiesti altri requisiti. A ciò è da aggiungersi anche il modo di selezione con cui i periti vengono chiamati a svolgere il proprio lavoro. Scrive De Rosa:
«Le perizie sono spesso assegnate dai giudici sulla base di conoscenze dirette o della semplice iscrizione agli albi dei periti dei tribunali, quando non da cancellieri frettolosi che contattano il primo perito che capita sott'occhio o che passa in quel momento nei corridoi del Tribunale»[5]
Insomma: una situazione da “Io speriamo che me la cavo” o giù di lì.
Non ultimo venne il denaro. Per una perizia su un capo clan, infatti, un perito d'ufficio percepisce dallo Stato 387,56 euro, cifra che a mala pena copre le spese sostenute. Dall'altro lato, invece, il compenso si moltiplica anche per venti. È chiaro, dunque, che questioni come competenza, senso civico, etica e morale vengono prese in considerazione solo in un secondo momento.
Si potrà obiettare che il compito di quegli psichiatri che decidono di perorare la causa degli appartenenti ai clan sia quello di utilizzare tutti gli strumenti utili a svolgere al meglio il proprio ruolo. Non è uno scandalo essere professionali. Ma in alcuni casi capire dove finisce la professionalità ed inizia la connivenza è impresa ardua.
Il memoriale Trivini. Ma ritorniamo ancora alla testa di Semerari nella 128 in viale Elena. Ad autoaccusarsi dell'omicidio è Umberto Ammaturo, re dei narcotrafficanti italiani e delle evasioni. Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Barcellona Pozzo di Gotto sono solo alcune delle località che lo vedono ospite di ospedali od opg e puntualmente evadere con estrema facilità fino al 1993, quando un Boing 747 lo riporta in Italia per destinarlo, da pentito, a identità e località sconosciute.
Nel frattempo – durante le detenzioni – Ammaturo fa un po' quel che vuole. Ad Aversa stringe i legami con i Nuvoletta, i “siciliani di Campania” (gli uomini del clan sono infatti tra i pochi a potersi considerare appartenenti alla camorra e uomini d'onore di Cosa Nostra); a Montelupo Fiorentino si mette in affari con 'O rre di Forcella, Luigi Giuliano.
Secondo le perizie psichiatriche, però, Ammaturo è affetto da “schizofrenia con allucinazioni” e “psicosi con grave decadimento dell'istinto di sopravvivenza ed esplosioni incontrollate di violente cariche autolesionistiche”, disabilità gravissime che – qualora reali – mal si assocerebbero con il curriculum del boss.
Negli anni Settanta – gli anni in cui Ammaturo ne è ospite – l'opg “Filippo Saporito” di Aversa è famoso, tra i clan, per il reparto VIII, il “reparto dei privilegiati” come lo definisce Aldo Paolo Trivini, il primo internato (nel 1972-1973) a presentare un esposto alla Procura sul diverso trattamento che Domenico Ragozzino – l'allora direttore – riserva ai suoi “ospiti”. Da un lato, quello del reparto VIII (dove soggiornano gli appartenenti ai clan) ci sono veri e propri banchetti, stanze singole con caffettiere sempre piene, foto dei familiari e proiezione di film pornografici. Dall'altro – alla “staccata”[6] - terapie ed igiene inesistenti, cibo avariato nei frigoriferi e persone legate ai letti (cioè la situazione denunciata qualche mese fa dal senatore del Partito Democratico Ignazio Marino[7]). Ragozzino si toglie la vita il 3 novembre 1978, dopo l'assoluzione dai fatti contestatigli in secondo grado.
A Benevento – nel reparto psichiatrico dell'ospedale cittadino – nel luglio 2009 viene ricoverato per un malore Saverio Sparandeo, uno dei capi del clan omonimo. La degenza, che non potrebbe protrarsi per più di quindici giorni, dura invece due mesi. Frigorifero e antenna parabolica, nonché la consuetudine di lasciare l'immondizia fuori dalla porta come in un albergo, sono gli optional che gli vengono messi a disposizione. Tra un comfort e l'altro Sparandeo riceve, con la complicità di un imprenditore beneventano (tale Antonio Mottola), alcuni imprenditori ai quali chiede una somma variabile tra i tremila ed i cinquemila euro (per un totale di cinquantamila euro) per ogni appartamento in costruzione presso il Rione Libertà. Tutto questo è stato possibile anche perché il responsabile del reparto, dottor Giuseppe De Lorenzo (ex assessore alla mobilità in quota Udeur) durante il soggiorno di Sparandeo era in vacanza...
Tutti questi esempi, come i tanti altri che vengono fatti nel libro di De Rosa, sono stati definiti “incompatibili con il regime carcerario” in quanto, secondo le perizie, incapaci di intendere e di volere o gravemente malati. Ma ci sono anche situazioni in cui le malattie psichiche vengono usate come “arma di offesa” invece che di difesa.
I “tragediatori”. Nel gergo della criminalità organizzata i “tragediatori” sono persone considerate psicologicamente instabili, perennemente assalite dai dubbi e, per questo, ascoltarle diventa una perdita di tempo. L'identikit del perfetto “pentito” in pratica. Figura che comunque merita trattazione a parte.
Prendiamo due esempi: Massimo Ciancimino e Leonardo Vitale. Pur essendo improprio definirlo come tale, Ciancimino jr – che non è stato sottoposto ad alcuna perizia psichiatrica - è attualmente uno dei nomi più importanti tra i collaboratori di giustizia, addirittura al centro di una vera e propria guerra tra procure[8] nonostante si stia distinguendo per una collaborazione che – se non fosse figlio di don Vito – probabilmente neanche verrebbe presa in considerazione.
Non sono un esperto di pentiti e “pentitismo” per cui potrei anche sbagliarmi, ma nel momento in cui a) ti recapitano numero 13 candelotti di dinamite (peraltro scaduti da una decina d'anni) non li sotterri in giardino per paura di essere scambiato per un mitomane[9]; b) infili un nome – quello dell'attuale direttore del DIS Gianni De Gennaro - in una lista di “infedeli servitori dello Stato” attribuita a tuo padre spacciando il documento come autentico io credo ci sia qualche problema. A questo punto, dunque, la domanda viene da sé: a che gioco sta giocando (o stanno facendo giocare) quello che il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia continua a definire un'«icona dell'antimafia» (come scrive ne “Il labirinto degli dei”)?
A Leonardo Vitale per certi versi è successa la cosa inversa. Di lui Giovanni Falcone disse: «Scarcerato nel giugno 1984, fu ucciso dopo pochi mesi, il 2 dicembre, mentre tornava dalla Messa domenicale. A differenza della Giustizia dello Stato, la Mafia percepì l'importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell'omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita».
Leonardo Vitale, appartenente alla famiglia di Altarello di Badia (Palermo) pazzo lo avevano fatto diventare per davvero la mafia e lo Stato. Insieme. La prima voleva che continuasse a fare il pazzo perché così non sarebbe stato creduto, cosa che effettivamente avvenne quando lo Stato decise che tutti i suoi racconti sulla “Cupola”, sulle gerarchie e sui nomi che a quel tempo costituivano il gotha di Cosa Nostra non valevano la protezione. Dieci anni dopo Tommaso Buscetta, il don Masino al quale si deve il famoso “teorema” su cui fu basato il maxiprocesso del 1986-1987 e Salvatore Contorno detto Totuccio - altro perno del maxiprocesso – confermeranno fin nei minimi particolari le dichiarazioni del “pazzo” Vitale.
«Un malato di mente non può avere verità per la Legge, sicché quello che dice non conta nulla, perché è lui a non contare nulla».
[dal film “L'uomo di vetro”, di Stefano Incerti[10]]
Il clan degli anoressici. A Villa Literno, nel casertano, c'è Enrico Verde detto 'O barbiere, tra i principali esponenti della corrente “bidognettiana” dei casalesi; Nunzio De Falco, detto 'O lupo è il capo del clan dei Casalesi durante gli anni Novanta condannato all'ergastolo nel 2003 per l'omicidio di don Peppe Diana; di Francesco Schiavone - Sandokan - si è detto e scritto molto, così come di suo fratello Walter ai tempi della reggenza del clan casalese (di quest'ultimo, in particolare, si è scritto sulla sua sfarzosa villa). Storie (criminali) diverse accomunate però dall'anoressia. O, per meglio dire, da un'anoressia “indotta” che in alcuni casi – come quello di Enrico Verde – prende il nome di “deperimento organico”, un modo per farsi dare l'incompatibilità carceraria considerato addirittura peggiore di metodi violenti come l'ingerimento di lamette o tagliaunghie o il taglio delle vene, che in molti casi vengono utilizzati in maniera simulatoria (cioè in modo da non provocare danni irreparabili). “Deperimento organico”, come quello che De Falco si induce con la fendimetrazina, un'anfetamina che diminuisce il senso della fame utilizzato anche da modelle, studenti e persone che non ne avrebbero bisogno e che vede come controindicazioni aumento della pressione arteriosa, aritmia e scompenso cardiaco. Sintomi ideali per chi in carcere – per quanto faccia “curriculum” e “onore” - proprio non ci vuole stare.
Di storie da raccontare sui rapporti tra la camorra e la psichiatria il libro di Corrado De Rosa ne presenta molte, basti considerare quelle – che volutamente non ho ripreso – di Raffaele Cutolo, che addirittura la usa come merce di scambio con lo Stato quando questi gli chiede di trattare con le Brigate Rosse per la liberazione dell'assessore regionale democristiano Ciro Cirillo[11] ed al quale viene dedicato un capitolo apposito e di Gaetano Guida, boss di Secondigliano (ex luogotenente del clan Licciardi prima di pentirsi) esperto di psichiatria forse più dei periti che lo hanno esaminato. Un libro – perfettamente leggibile anche da chi, come lo scrivente, si interessa episodicamente di psichiatria – che ancora una volta pone il lettore di fronte ad una domanda: quanto sarebbero davvero potenti le famiglie della criminalità organizzata senza l'appoggio di imprenditori, politici, psichiatri e personale medico di altro genere?
La questione di questi ultimi anni – iniziata con la fine del periodo stragista di Cosa Nostra – è capire quale tipo di lotta alla mafia si vuol fare. Per quanto utili, infatti, gli arresti che a cadenza quasi mensile ci vengono mostrati dai telegiornali rappresentano solo una parte della questione, e si sa che per ogni arresto di un “manovale” la criminalità organizzata può contare già su due/tre persone pronte a sostituire l'arrestato. L'arresto di un capo clan, infatti, fa fiction, ma è solo un palliativo per chi crede ancora alla criminalità organizzata modello “viddano corleonese”. Il vero problema – quello da porre sul piano della lotta alla criminalità organizzata come fattore culturale – rimane esattamente allo stesso punto in cui era prima dell'arresto.
«Nell'ambito di un processo per omicidio di camorra, la difesa del boss ci presentò una serie di alibi che venivano dati da persone assolutamente perbene. Erano medici, dei dentisti, dei professionisti i quali vennero a giurare che la persona durante l'orario in cui era in corso l'omicidio era presso il loro studio per un'operazione. Noi fummo fortunati, la polizia fu molto brava nello scoprire che quest'alibi era falso. Eppure tre dentisti, due odontotecnici e quattro segretarie avevano detto che quel boss in quell'ora stava facendo un'operazione presso uno studio e c'erano state quindi persone che avrebbero dovuto avere il colletto bianco ed essere dalla parte delle persone perbene che invece avevano tentato di aiutare un boss che aveva commesso un omicidio e che però poi è stato condannato all'ergastolo. Io credo sia questa la vera forza della criminalità organizzata: finché troverà questo livello di connivenze noi non la vinceremo mai».
[Raffaele Cantone]
Il 29 agosto 1991 a Palermo veniva ucciso Libero Grassi, primo imprenditore a rifiutarsi di pagare il “pizzo” e a denunciarlo pubblicamente con tanto di “lettera al caro estortore” lasciato solo dai colleghi e dallo Stato, basti considerare che l'allora giudice istruttore di Catania Luigi Russo – lo stesso che assolse i “quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa[12]”- ebbe a dire: «Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi… se tutti facessero così (non pagando) dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme». Cliccando sull'immagine qui sotto, il documentario di Pietro Durante trasmesso dalla Rai in occasione dell'anniversario dell'omicidio.
Note |
[2] http://simonedimeo.blogspot.com/2010/01/il-clan-degli-scissionisti.html
[3] http://simonedimeo.blogspot.com/2010/01/il-clan-degli-scissionisti.html
[4] http://93.63.239.228/archivio/2008/Dicembre/02/Giornale_di_Napoli/02-01-pag.pdf
[5] Corrado De Rosa, “I medici della camorra”, Castelvecchi, 2011, p.244
[6] http://www.opgaversa.it/_aversa.html
[7] http://www.youtube.com/watch?v=A535K-IjVjg
[8] http://www.livesicilia.it/2011/04/26/ciancimino-e-la-guerra-delle-procure/
[9] http://palermo.repubblica.it/cronaca/2011/04/28/news/ciancimino_indagato_per_detenzione_di_esplosivo_rischia_fino_a_8_anni_di_carcere_oggi_vertice_alla_dna-15483010/
[10] per guardare in streaming il film: http://www.megavideo.com/?v=9UJH27IA
[11] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/06/29/cutolo-salvai-cirillo-me-lo-chiese.html
[12] “I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa”, di Giuseppe Fava, “I Siciliani” n.1 gennaio 1983 http://www.girodivite.it/I-quattro-cavalieri-dell.html